Utopie della mano
Utopie della mano
di Matteo Meschiari
La
confusione tra forme del corpo e forme del paesaggio è un’invenzione che l’arte
ha registrato fin dalla sua prima comparsa. I cavalli e i bisonti di Lascaux
galleggiano in un liquido amniotico che li muove come continenti alla deriva.
Il coincidere deliberato di alcuni contorni, di alcuni volumi dell’animale
dipinto con nervature e rotondità del supporto roccioso non ci parla di un mero
sforzo d’integrazione della figura nel contesto naturale della grotta, tanto
meno di un trucco artistico per conferire spessore alle due dimensioni della
pittura. Il rilievo tattile è il risultato di qualcosa di più radicale, di
concettualmente primario, come il riconoscimento analogico del noto nell’ignoto,
come la pre-percezione di forme nel sistema di macchie informi della roccia. Il
cavallo, il bisonte, erano visti e riconosciuti prima di essere dipinti, perché la disposizione del cervello a
leggere segni nel mondo precede ogni scrittura. Esiste dunque una storia del
senso parallela a quella ufficiale, fatta di equilibri instabili tra una
lettura dell’illeggibile e una riflessione sul segno che somiglia molto di più
a una cartografia del corpo terrestre che non a una tediosa storiografia
dell’io.
Prendiamo una mano. Il primo gesto è stato quello di macchiarla di colore e di lasciare su una parete rocciosa un’impronta appesa a se stessa. L’effetto specchio di quel toccarsi toccando ha avviato nel Paleolitico superiore lo snocciolamento identitario ininterrotto che è la storia dell’uomo: quella mano sono io, quella forma simbolica è il me fuori di me che mi aiuta a pensarmi. Ma in quell’impronta si può leggere altro, perché ritirando la mano dopo averla premuta sulla pietra, guardandosi il palmo, si può scoprire che anche al corpo è accaduto qualcosa: le perdite del colore o il suo addensarsi nelle linee cave, la polvere di roccia incollata alla pelle, il riaffiorare del flusso sanguigno, il movimento delle pulsazioni, il tremolio delle dita come terre viste dall’alto attraverso strati di aria calda. Di lato al discorso identitario ne è nato un altro, meno in vista, meno ovvio: posso lasciare impronte nella Terra, ma la Terra lascia impronte in me, segno il paesaggio con la mia azione, ma il paesaggio segna me rendendo terreno il mio corpo, le isoipse di carne, l’idrografia sottocutanea. La mano sulla pietra è all’origine di questo gioco del rovescio: c’è il pieno dell’impronta e il vuoto delle parti che non hanno aderito. E tutto il pensiero successivo ha scelto tra questi pieni e questi vuoti, anche se i vuoti hanno taciuto di più.
Prendiamo una mano. Il primo gesto è stato quello di macchiarla di colore e di lasciare su una parete rocciosa un’impronta appesa a se stessa. L’effetto specchio di quel toccarsi toccando ha avviato nel Paleolitico superiore lo snocciolamento identitario ininterrotto che è la storia dell’uomo: quella mano sono io, quella forma simbolica è il me fuori di me che mi aiuta a pensarmi. Ma in quell’impronta si può leggere altro, perché ritirando la mano dopo averla premuta sulla pietra, guardandosi il palmo, si può scoprire che anche al corpo è accaduto qualcosa: le perdite del colore o il suo addensarsi nelle linee cave, la polvere di roccia incollata alla pelle, il riaffiorare del flusso sanguigno, il movimento delle pulsazioni, il tremolio delle dita come terre viste dall’alto attraverso strati di aria calda. Di lato al discorso identitario ne è nato un altro, meno in vista, meno ovvio: posso lasciare impronte nella Terra, ma la Terra lascia impronte in me, segno il paesaggio con la mia azione, ma il paesaggio segna me rendendo terreno il mio corpo, le isoipse di carne, l’idrografia sottocutanea. La mano sulla pietra è all’origine di questo gioco del rovescio: c’è il pieno dell’impronta e il vuoto delle parti che non hanno aderito. E tutto il pensiero successivo ha scelto tra questi pieni e questi vuoti, anche se i vuoti hanno taciuto di più.
Si parla
molto di utopia, proprio come ci si aggrappa a un rottame nel disordine di un
naufragio. Se ne parla come di una fuga disimpegnata, una stanchezza che sceglie
di voltare le spalle al qui e all’ora, oppure se ne parla come di un altro modo
di pensare il presente, usando l’immaginario come un apparecchio di prova di
eventi possibili. Molta arte, molti oggetti, molti libri, sono del primo tipo:
alimentano un’utopia di fuga, abitano il nostro quotidiano assopito e ci
chiudono in un limbo d’attesa per qualcosa che non c’è, che non arriverà mai.
Altri tentativi invece sono l’icona vuota, ultima e ovviamente prima – nel
senso di primaria – di una sistole-diastole tra microcosmo e macrocosmo, tra un
io e un mondo, tra anatomia e geologia, tra lettura di un destino e scrittura
di una placca di granito sotto l’azione abrasiva di un ghiacciaio. Green Utopia 2014 non è stato un mero spazio
espositivo, un campionario d’idee, gesti e materiali alternativi. Green Utopia 2014 è stato un portolano
di secondo tipo, una mappa piena di rotte, di zone bianche, di covi di pirati e
di serpenti marini. Dobbiamo immaginare isole che slittano dalla terra alla
carne, dalla geografia alla biologia. E dobbiamo immaginare queste isole come
altrettante impronte di mani sulla pietra di una grotta: perdendo in
individualità diventano topografie sommarie, geografie archetipiche che
racchiudono in sé dei mondi possibili. Palmi come continenti e continenti come
palmi cominciano a derivare in una tettonica che cerca se stessa, profili di
costa combaciano tra loro a un oceano di distanza, profili di mani slittano
sospese tra attrazione e repulsione.
Così, tra un’isola
verde e un continente immaginario miniaturizzato, circola una cosmicità che ha
qualcosa da dire sull’adesso, sul qui. Via da ogni retorica d’arte o di vita, le
isole di Green Utopia 2014 sono state
tappe di un’esplorazione, sono state ricognizioni in viaggio al limite dello
specchio invisibile, dove s’incontrano, da parti opposte, la prima mano e la prima
pietra. Provando a leggere quello che potrebbero
essere queste isole, quello che diventerebbero se il mondo fosse solo un
po’ più intelligente e un po’ più giusto, potremmo riconoscere, nelle forme
raccolte in quegli spazi, delle linee di livello, o dei canyon, dei bacini
fluviali, e i grafismi tattili degli Aborigeni australiani. L’incontro tra le
derive antartiche delle banchise e i vortici dinamici di Klee, o le fratture
frattali pigmee, o i tatuaggi dello Stretto di Torres. Insomma, quella storia
fuori dalla storia ufficiale che dovrebbe farci da guida nel presente. E non un
sistema di metafore, ma il residuo di quella parentela tra roccia e carne, tra
chimica della materia e chimica delle idee che Gregory Bateson ha stretto in
struttura offrendoci le basi di una nuova cosmografia.
Resta
da capire come dare e darsi senso oggi facendo cose per la Terra. Green
Utopia 2014 è stata una di quelle non-risposte che vengono prima del gesto
artistico, architettonico, linguistico, e che vengono anche da molto lontano.
Le mappe mentali che ci costruiamo intrecciando canestri di sentieri diurni e
di piste notturne servono per ritrovarsi e per perdersi, per raccontare e
ascoltare, per seguire la selvaggina delle idee o aspettarla immobili nel
transito delle cose. Green Utopia 2014
è stato un sistema di orientamento nei paesaggi di una geografia ultima, che
corrisponde in parte a qualcosa di noto e di reale, e che nelle sue parti
ignote e immaginarie funziona come le rugosità della pietra, o le nuvole, o le
macchie d’inchiostro in cui proiettiamo immagini, sogni, impronte emotive, e
che ci aiutano a portare a emersione quello che si agita in noi. Geografie
della notte e del sepolto, campi morfogenetici, archetipi dimenticati. Ma
soprattutto un’ipotesi da ripetere in azione: portiamo con noi queste isole in
un luogo qualunque, in un terreno qualunque, e proviamo a usarle.
Cerchiamo di adattarle il più possibile allo spazio concreto. Terra cruda,
bambù, ferro, vetro, plastica, carta. Ma soprattutto mani e impronte di mani.
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