L'animale sbagliato
di Valentina Rametta
Vi ricordate
dell'orsa Daniza?
L'11 settembre
dell'anno scorso
venne uccisa durante
un tentativo
di cattura,
dopo numerose
incursioni nei
dintorni del
bosco di
Pinzolo in
Trentino. Non
ha retto
la dose
di anestetico
sparato per
sedarla. Il
livello d'indignazione
collettiva è
stato talmente
elevato che
la sua
morte ha
generato una
partecipazione emotiva
sensazionale. Per tutti si
trattava di una vicenda drammatica e scandalosa, una
sconfitta della società civile.
Come da rito e da antidoto consolatorio, compariva la sineddoche identitaria del #jesuis con la vittima
del momento, ormai un luogo comune della partecipazione emotiva digitale: oggi #jesuisdaniza, domani charlie, dopodomani guaranì. Ma l'animale che è
entrato in scena nell'inconscio collettivo solleva qualche perplessità. Daniza
con il suo nome proprio occulta qualcosa dell'animalità. Mentre la sineddoche
traccia il climax utopico di una
comunità ideale, e contemporaneamente il suo anticlimax grottesco, l'animale vira lentamente altrove, scivola
col suo fantasma vivo oltre il confine dell'incontro di sguardi. Daniza col suo
nome proprio comincia a diventare l'animale senza animale, la costruzione di
una (anti)specie a bassa intensità di crudeltà ma efficace e loquace, e l'orso senza
nome comincia a diventarne la sovrapposizione nascosta e afona.
Dov'è l'animale? Chi è
l'animale? In questo caso il dispositivo di riconoscimento è in una certa
misura autoevidente: Daniza è ciò che noi vorremmo essere. È la nostalgia del
selvatico che ci accompagna da sempre, reidratata dalla nuova solitudine
digitale dell'uomo come cyberspecie del XXI secolo. In questa solitudine non a
tutti è concesso di diventare il morcheau
choisi della sineddoche identitaria. Non tutte le vittime sono buone da pensare.
Vi ricordate di Davide
Bifolco? Era un adolescente napoletano del Rione Traiano, ucciso qualche giorno
prima di Daniza da una pallottola sparata da un uomo dello stato. Il Rione
Traiano è uno di quei quartieri schiacciati dal realismo catatonico, è un
ventre putrido e molle. Chi viene da lì, e lì ci vive e ci muore, è già un
essere cadaverico perché ha il proprio ambiente malsano di cemento e
alienazione scolpito nel corredo genetico. Determinismo ambientale. O se
preferite essenzialismo adattativo. Chi viene da lì è colpevole di essere un déjà vu di uomo. Per soggetti come
questi è difficile provare compassione o comprensione. Non funzionano nemmeno
gli automatismi dei neuroni specchio. L'empatia da grado zero si contrae fino
al dualismo ideologico utile per una lombrosiana tassidermia sociale: buoni vs cattivi, normali vs deviati. Eppure, il suo nome fa eco nella testa e apre una
ferita, è la segnatura dell'ultimo respiro che torna indietro nei polmoni.
Davide Bifolco era in motorino, senza
casco, e non si è fermato all'alt. Speronato a terra è partito un colpo.
Banalità del male.
Due luoghi
e due
corpi. Il
bosco e
la città,
la wilderness e
la metropoli,
l'utopia della natura e la distopia della vita urbana.
Se per la
morte di
Daniza su
Twitter scorrevano
frasi come
questa: “Violenza
contro un
debole ancora
una volta”,
“l'arroganza del
potere, l'insensibilità
del burocrate,
la sconfitta
della cives”,
fino al cortocircuito generato
dalla sovrapposizione
simbolica della
data in
cui si
è consumata
la tragedia,
“L'11/09 è
solo di
Daniza”, per
la morte
di Davide Bifolco il
registro verbale
ovviamente è stato
di tenore
diverso. “Mi
dispiace sia
morto a
16 anni
ma ci
si ferma
allo stop”,
“se l'è
andata a
cercare, non
era un
angelo”,
“se viaggiava
con un
motorino rubato
bene hanno
fatto a
sparargli”.
La durezza
dei commenti,
sproporzionati e
feroci, fa da contrappasso all'intenerimento postmoderno
per l'eden animale. È la
filigrana emotiva
di un
umanesimo zoppo
che tradisce
una concezione
legalitario-giustizialista, che pretende l'universalità ma
è irrimediabilmente
diviso tra
cinismo e sentimentalismo.
Il nostro
spazio del
pensiero, e
la nostra
fibra emotiva,
sono compressi tra
questi due
estremismi e,
come scriveva Franco Fortini negli
anni del taglione della Legge Reale, “quando non si
spinge la coscienza agli estremi, gli estremismi inutili si mangiano lucidità e
coscienza”. Lucidità e coscienza. Il
sabotaggio dello sguardo per fermare
gli occhi e iniziare a riattrezzare lo spirito. Il problema sta tutto lì in
mezzo. Lì in mezzo c'è “l'immaginario del non”, contenuto tra il feticismo del
fatto (“se viaggiava con un motorino rubato bene hanno fatto a sparargli”) e il
kitsch emotigeno (“l'11/09 è solo di
Daniza”).
L'appello populista al
rispetto della legge si trascina dietro questo cattivo uso, ma anche la cattiva
coscienza delle rovine istituzionali, il rimbombo mai troppo vicino di uomini e
cose lasciati cadere per ordine e pulizia, al di sotto del torrente ipocrita,
brutale e stupido del microfascismo che possiede le nostre condotte quotidiane
e ci fa aspirare alle paranoie totalizzanti. Così la nuova causa morale,
dall'ascetismo vegan al trasumanismo tecnologico, serve a mascherare il vuoto
politico che burocratizza l'alterità dentro le narrazioni prodotte dalla stessa
“macchina ottica” che ci sfrutta. In questa nuova scena gli animali sono la
nostra chance attuale per riformulare
un nuovo contratto sociale. Rappresentano il capitale simbolico quotato nella
saggezza dell'avvenire: se giudico l'animale giudico contemporaneamente l'uomo,
se moralizzo un luogo ne demoralizzo simultaneamente un altro. E sullo sfondo
c'è sempre la rassicurante dialettica noi vs
loro, la modalità predefinita di ogni fascismo del potere.
L'animale ci è
indispensabile per la nostra esistenza metafisica e sociale ora che il
dispositivo ontologico dello statuto umano è andato in frantumi. Ma l'animale
entrato in scena si fonda su uno slittamento semantico che inverte
completamente i termini. Gli animali stanno scomparendo velocemente dal nostro
immaginario, mentre dalle rovine è la nostra stessa antropologia a divenire il
mistero selvaggio da sondare. Daniza e il Bifolco
sono i crolli materiali di questa deflagrazione, segnano l'inversione dei ruoli
nella ricostruzione di una zoologia del sé: Daniza pratica la nemesi
idealistica, il Bifolco è l'effetto
Dorian Gray del nostro volto. Insomma all'idolo risponde la maledizione
dell'idolo. Non è solo un problema ideologico, ma un problema di posizioni di desiderio. Davanti a cosa
facciamo schermo, e in che modo ci siamo presentati davanti a questo. E per
farci salvare dall'animale utopico, riposizionato a restaurare lo schermo
dell'antropofiction, ci si dimentica dell'animale sbagliato, posizionato nel
mistero selvaggio da sondare.
Questa storia suggerisce
che consumiamo più psiche che carne, più sensazioni localizzate che spazzatura.
Indignarsi con un post o con un tweet, godere dell'effetto balsamico che
rilascia la contrazione dell'intervallo tra stimolo e pensiero, implica che il
nostro cervello è dopato di risposte, comodamente “incorniciato” tra i 4
pollici dello smartphone e i 10 dell'ipad. Niente dubbi, niente pause. Mi offre
in fondo l'orto concluso della tautologia, non mi disloca dal mio qui e ora,
non mi lascia tempo sufficiente per riposare, per rimontare le idee. Il punto cruciale è l'amputazione del
tempo. Non ho nemmeno bisogno del corpo materiale, basta e avanza l'economia
dell'attenzione, un tocco allo schermo, un travaso di ludicità che mi distanzia
dall'orrore e il gioco è fatto. È qui che vivo. Così gioco a nebulizzare la
presenza dell'altro, gioco a esorcizzare l'abisso ontologico che mi
restituirebbe se solo sospettassi ancora la profondità di un volto dietro lo
schermo. Gioco un gioco di ruolo, e gioco con la morale, gioco con la colpa,
gioco col giudizio universale. Del resto, sogni e bestie sono due simulazioni
per scoprire se stessi. Quando l'altro manca dalla struttura del mondo non c'è
molto tempo, non c'è molto altro, c'è solo la simulazione del gioco, la legge
sommaria del tutto e del niente. Giustiziando l'altro giustizio me stessa, e ne
esco tutta intera.
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