NeanderSuv
di Francesco Gori
Andando
a spasso per le città, di questi tempi, è facile imbattersi in una mutazione
genetica nel linguaggio pubblicitario delle automobili.
Nella
pubblicità della nuova Pegeut 308 (fig. 1), ad esempio, l’esemplare di homo
da associare all'automobile dei desideri non è più la signorina scosciata di un
tempo, o il quarantenne in carriera e ben pettinato, ma un ceffo barbuto che
sembra uscito da Valhalla Rising.
In mezzo a un bosco di abeti, invece, la BMW
serie 2 (fig. 2) ci invita a ripensare il nostro concetto di pausa pranzo,
mentre il messaggio del nuovo Discovery di Land Rover (fig. 3) rovescia
l’ordine dei fattori, lasciando il plot invariato.
Se, infatti, la prima è una
macchina da strada mostrata in un contesto selvaggio, il Discovery è un
fuoristrada vero e proprio, ma lo sfondo su cui ci viene presentato è una villa
in stile Le Corbusier, la cui facciata è attrezzata come una parete per
l’arrampicata artificiale. “L’avventura è nel nostro DNA”, recita lo slogan, col
padre che assicura il figlioletto mentre scala le mura di casa. Da una parte il
business lunch nella foresta, l’ufficio nell’outdoor, la città nella
wilderness, dall’altra il rovescio della medaglia: l’alpinismo sulle pareti
domestiche, la natura selvaggia ricostruita in artificiale, il dehors nell’indoor. La civitas si
specchia nella selva, e viceversa, fino a scivolare in una zona di
indistinzione. Al punto che – sarà un caso? – questi due messaggi “uguali e
contrari” sono esposti l’uno accanto all’altro (fig. 4), permettendo di
abbracciare in un unico sguardo il richiamo della foresta nella città e
l’addomesticazione della foresta.
Del resto è una vecchia storia che si ripete:
il cane Buck che sceglie di diventare lupo e Zanna Bianca, lupo per tre quarti,
che si converte alla vita cittadina.
Questi
incontri iconici sono le spie di una metamorfosi nell’immaginario della civitas globale, nella sua
autorappresentazione, nella narrativa su cui si sostiene. Una metamorfosi – o
meglio una mediamorfosi, per dirla
con Valentina Rametta – che conduce dalla città alla selva, dal chiuso
all’aperto, dall'agri-cultura neolitica all’erranza paleolitica. A ben
guardare, infatti, l’evoluzione dell'automobile negli ultimi anni ha qualcosa
di paradossale: in territori come quello europeo e statunitense, in cui le
strade sono ormai quasi ovunque asfaltate, le auto tendono sempre più al SUV: allround, 4X4, controllo della trazione: per poter avere
appeal commerciale devono mostrarsi capaci di affrontare ogni terreno, ogni
clima, ogni catastrofe. Come se, quasi inconsciamente, fossero concepite come
mezzi per muoversi in un mondo postapocalittico, de-civilizzato, de-sfaltato,
pronte a guadare fiumi, ad attraversare deserti, a fendere la selva. Per
vendere, oggi, ogni macchina, deve avere almeno qualche richiamo al fuoristrada,
al punto che alcune auto-simbolo del boom economico degli anni Sessanta, icone
dell’urbanizzazione, sono state oggi rieditate in salsa hi-tech e in versione
off-road: ecco allora la Panda-SUV, la Cinquecento-SUV, la Mini-SUV, da
scatolette magiche della liberazione del costume negli anni ruggenti della
città, a navicelle di fuga verso gli orizzonti dell’immaginario post-urbano
(figg. 5-6-7).
L'affermazione
del SUV come modello universale di automobile porta con
sé la tensione più favolosa tra agri-cultura e selva, tra stanzialità e
nomadismo: il fiore all'occhiello della tecnologia industriale dell'era del
petrolio e dell'asfalto si trasforma, nella sua immagine e nel suo
storytelling, in un veicolo d'evasione, per liberarsi di 12000 anni di
tediosissima sedentarietà e ritrovare la propria vocazione nomade, affrontare
l'ignoto, l'avventura, l'imprevisto (d’altra parte “l’avventura è nel nostro
DNA”…). L’immaginario del SUV, però, non è solo quello del veicolo d'evasione,
ma anche e soprattutto quello del mezzo d'emergenza. Se non fosse, però, che
l'emergenza, come l'apocalisse, è perennemente promessa e sempre rimandata. Dei
SUV oggi in circolazione, infatti, il 5%, forse, ha mai
messo le ruote non diciamo su una pista amazzonica, ma anche soltanto su un
modesto sterrato di campagna: proliferano nella città, manifestando quello che
è al contempo il suo desiderio inconfessabile e la sua angoscia più profonda:
la tensione verso il proprio antispazio, la selva. La proiezione della civitas neolitica verso il pleistocene
trova così la sua nemesi grottesca nei SUV fiammanti,
senza uno schizzo di fango sulla carrozzeria, imbottigliati nel traffico
cittadino, con il loro carico sgraziato di promesse d'evasione, di avventura,
di pericolo, di emergenza, di wilderness.
Con lo spot TV del nuovo Nissan X Trail (qui) il cortocircuito dell’immaginario della wilderness urbana raggiunge lo
stato dell’arte. Lo stadio dello specchio mai superato tra civitas e selva si incarna nel protagonista, che è sia il borghesuccio a bordo del suo SUV
lucidato, sia il ladro-stuntman,
capace di esibirsi in tutte le prodezze all'ultimo grido per gli odierni
cacciatori di adrenalina: mountain bike, parkour, b.a.s.e. jumping... L'uno è la
proiezione immaginaria dell'altro, l'uno è l'immaginario dell'altro.
Ogni spazio culturale agisce soltanto in funzione del
proprio antispazio; l'antispazio dell’immaginario selvaggio giustifica lo
spazio simbolico, istituzionale, industriale della città, e viceversa. Eppure,
in questo andirivieni bipolare tra l’adattamento simbolico ai valori della civitas dell’insider (il buon cittadino con la sua villetta unifamiliare e un
bel SUV tagliandato e assicurato in garage) e l’eccentricità del suo avatar
immaginario (l’outsider, il ladro
spericolato, che si muove in bicicletta, senza numero di targa, senza carta di
credito, imprendibile, intracciabile), si insinua un terzo momento, capace di
farlo deragliare dal proprio binario, ciò
che Lacan chiamava “il reale”. Il reale è lo squarcio nel cielo del teatrino
pirandelliano, l'irruzione cruenta della verità, una verità che ci fa orrore e
vergogna: col SUV non compri una macchina, ma un sogno di wilderness già da sempre negata, e tutto quello che ci farai realmente sarà portarci i tuoi bambini
all'asilo e incazzarti perché non trovi parcheggio.
Il simbolismo del NeanderSuv è un algoritmo demenziale
che funziona secondo questa logica binaria: posso sopportare la mia esistenza
scolorita al quinto piano di un condomino di Cologno Monzese perché mi compro
degli oggetti-totem portatori di un immaginario redentivo, che aprono finestre
di altrove nel grigiore della mia quotidianità. Imbottigliato in tangenziale,
posso sognare grandi avventure sulla plancia del mio NeanderSuv, che mi fa
percepire la realtà della mia vita come un accidente momentaneo, una pausa tra
un'avventura e l'altra, sospesa tra i sogni dell'infanzia e le memorie
ingiallite della vecchiaia. Il cosiddetto “simbolico” – e cioè il compromesso
che abbiamo fatto col mondo per poter sopravvivere, per ritagliarci un posto in
esso, per prendervi parte – si sorregge sulla galassia di antispazi narrativi-immaginari
che gli ricamiamo intorno come un firmamento. Per
potersi sorreggere, la struttura concreta delle nostre esistenze (il nostro lavoro,
la casa in cui abitiamo, i luoghi in cui trascorriamo le nostre vacanze, i
mezzi con cui ci muoviamo, etc.), ha bisogno di un orizzonte immaginario in cui
specchiarsi e redimersi. È lo stesso principio dell’al di là religioso, che
giustifica e perdona l’al di qua, rendendolo sopportabile.
Prendiamo un'altro oggetto-totem della wilderness urbana,
le sorelle a due ruote del NeanderSuV, come la KTM 990 Adventure o la BMW GS
1200, moto progettate per grandi raid nel deserto e che da qualche anno sono
diventate bestsellers nel mercato cittadino. Mi diceva un amico riminese che
dalle sue parti se ne contano a migliaia. Utilizzo? Casa-spiaggia-bar-casa.
Solo il sabato e la domenica naturalmente. Prezzo? tra i 13 e i 18mila euro. Di
più per i modelli fulloptional. Queste moto sono dei veri e propri concentrati
di tecnologia, prodotti d'avanguardia dell'industria tedesca-austriaca. Eppure,
da un punto di vista strettamente pratico, è evidente che un simile
dispiegamento tecnico è penosamente inutile: lo stesso tragitto, i centauri
riminesi potrebbero farlo a piedi, o in bicicletta, o in autobus. Dei 18mila
euro che costa una BMW GS, 17900 sono advertising, e 100, o poco più industria,
tecnica, ingegneria. Non è un’esagerazione. Se non ci fosse una potentissima
macchina dell'immaginario a produrre adattamento simbolico attraverso
proiezioni oniriche, gran parte dell'industria mondiale colerebbe a picco.
Semplicemente perché produce oggetti INUTILI.
Eppure, questo schema adattativo di homo sapiens sapiens non può essere cambiato, ma
soltanto compreso e, possibilmente, orientato in maniera non distruttiva. Come aveva
scoperto Warburg, infatti, le immagini, al pari delle storie, non sono un
ornamento della nostra esistenza (e delle nostre abitudini di consumo), ma una
vera e propria necessità biologica
che ci permette di attribuire un senso ai fenomeni e orientarci nel mondo.
Eccoci dunque al paradosso del NeanderSuv: pressoché inutile come mezzo
tecnico, esso riesce a innestarsi su una vera e propria necessità biologica,
come veicolo dell'immaginario, come totem capace di situarci nella giungla della
civitas globale, definendo il nostro
rapporto con l'ambiente in termini rassicuranti e predatori al contempo. Il
Nissan XTrail di euro ne costa 30mila: 29900 sono il valore di quel minuto di
pubblicità, perché chiariscono il significato
(anti)evoluzionistico-(dis)adattativo del NeanderSuv, il suo presentarsi come
uno strumento indispensabile per la nostra sopravvivenza, anche se per motivi
completamente diversi rispetto a quelli che si potrebbero immaginare a prima
vista. Infatti, non sono le sue specifiche tecniche a farci sopravvivere
(nessuno, o quasi, si troverà mai ad aver bisogno del 4x4, del controllo della
trazione, etc., per salvarsi la pelle), ma il suo significato simbolico,
l'immaginario di cui è portatore, il fatto che funziona come un animale-totem,
a cui ci associamo per trarne simbolicamente la forza, l'agilità, l'astuzia,
l'istinto.
Se così non fosse – se non fosse, cioè, per questa
necessità del simbolico (l'industria automobilistica) di legittimarsi
nell'immaginario (l'industria della comunicazione e della vendita) – gli
ingegneri della Nissan, i suoi operai, le imprese siderurgiche che forniscono
loro i metalli, l'immenso indotto industriale che ruota attorno alla produzione
automobilistica, l’intera economia del petrolio, crollerebbero all'istante,
perché nessuno sentirebbe la necessità di investire tutti quei soldi in un
aggeggio così inutile.
A questo punto, possiamo sfatare uno dei miti più
incalliti della nostra cultura: quello che apparteniamo all'epoca della
tecnica. Credere che siamo nella civiltà della tecnica – come ancora fanno
alcuni vecchi filosofi in piena demenza senile – significa illudesi che un BMW
GS serva davvero a qualcosa, e non semplicemente a essere sfoggiato sul
lungomare di Rimini. Significa credere che il capitalismo non è una forma di animismo.
Proprio come nella notte dei tempi
viviamo oggi nell’epoca delle immagini e dello storytelling,
per questo la comunicazione ha surclassato l'industria, la silicon valley
californiana ha travolto la rust belt dei Grandi Laghi, sottraendole lo scettro
dell'impero. La partita oggi la decidono i copywriters e gli art directors
pubblicitari, non gli ingegneri, né tantomeno gli operai. Forse è sempre stato
così, ma solo adesso cominciamo a rendercene conto. Prima che ai propri
strumenti tecnici, infatti, homo ha sempre affidato la propria
sopravvivenza alla capacità di collocarsi in una struttura narrativa. La
tecnica viene dopo: prima si decide in che direzione si va, e dopo si valuta di
cosa abbiamo bisogno per arrivarci.
Anche il NeanderSuv, dunque, è un articolazione dello schema binario
(spazio|antispazio) che sostiene ogni strategia adattativa di homo al
proprio ambiente. Ma con una peculiarità: l'ambiente a cui adattarsi non è più
una wilderness da addomesticare, ma
proprio il suo opposto: la civiltà urbana, che, ormai a corto di risorse
simboliche, è costretta a produrre artificialmente un antispazio selvaggio di
cartapesta, su cui proiettare i propri desideri di libertà e le proprie paure
di estinzione (ritorno della barbarie, crollo della civiltà, apocalissi
ecologiche ed economiche, etc.). Lo stesso schema binario lo ritroviamo anche alla
base del politico, nella diade amico|nemico. E come sappiamo bene, in assenza
di un nemico reale se ne crea uno immaginario, finché non diventa reale.
Analogamente, la città odierna, non essendo più centro di accumulazione
produttiva, ha bisogno di produrre un antispazio immaginario rispetto al quale
legittimarsi e nel quale trovare conforto. L’antispazio della wilderness, a sua volta, svolge una
duplice funzione: da una parte, esorcizza lo spettro dell'apocalisse culturale,
il crollo della civiltà e il ritorno allo stato di natura hobbesiano, in cui
l'umano, dopo millenni di emancipazione dai bruti, torna nell'indistinto
uomo-animale (homo homini lupus);
dall'altra, invece, funziona come orizzonte irenico di evasione,
contrabbandando un immaginario di avventura e di libertà che ci permette di
sopportare l'insensato grigiore della nostra sussistenza urbana.
In entrambi i suoi volti, inscindibili l'uno dall'altro, l'immaginario
della wilderness urbana di cui il NeanderSuv è portatore funziona come un
dispositivo di sopravvivenza, come una vera e propria necessità biologica,
capace al contempo di proteggerci dallo spettro dell'apocalisse e di
riscattarci dalla pochezza della nostra quotidianità, aprendo una breccia di
libertà illusoria nella prigione delle nostre quattro mura.
Pienamente d'accordo
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