Come
la merda e l'affanno
di
Valentina Rametta
“E infine all'epoca fu dato / il
tipo di merda che aveva richiesto”. Sono gli ultimi versi di una poesia di
Ernst Hemingway dal titolo The Age
Demanded. In effetti la merda è una buona metafora per descrivere la
situazione generale di vita che abbiamo oggi.
In pratica vuol dire che siamo nella
merda perché stiamo diventando immuni agli Altri. Facebook & co. ha reso
possibile la vita senza prossimità e senza corpo donandoci in cambio
l'espansione della tecnologia della scelta. Questa è la nuova social-labilità, Facebook & co. è qualcosa di più di una tecnologia perché sta cambiando
(forse lo ha già fatto) i nostri connotati cognitivi, sta cambiando la
struttura della relazione. Lo smartphone, non è solo una macchina, è un organo
vitale, un respiratore, un
vibratore. E' diventato una struttura del sentimento, una
condizione delle relazioni col mondo, è un oggetto erotico perché erode
l'Altro, lo lascia scomparire nell'inferno narcisistico.
La
generazione
a
cui
appartengo
si
è
lasciata
andare
completamente alla tecnologia della scelta. Fatto sta che il beneficio
di
questa
cosa
fluida
ha trasformato le forme della vita in una porcellana intima che trascina in una
miscela di conformismo e nevrosi. E ogni singolo corpo sembra reggersi sul filo
della tautologia, un esibizionismo dell'io che non concede alcun Altro/ve. La
sintesi? È l'uomo senza Altri sulla propria isola.
Agli albori della messaggistica
istantanea e dei social networks tutto era ancora rigido, dialettico, vagamente
illecito anche, nel dare e celare una libertà che era un gioco di autofiction.
Adesso la performance è diventata quella del sottrarsi, perché l'interazione
online, istantanea e sempre attiva, non è uno spazio del pensiero e del
desiderio, non sperimenta le molteplicità dell'io, non ha pause e non è una
voce. È uno spazio claustrofobico che nel migliore dei casi può misurare 27
pollici ma con l'aggiunta di un grande trucco. In quel minuscolo regno abbiamo
il chiarore accecante di informazioni e dati di qualsiasi tipo – che ci inebria
del nostro potere sugli altri – e la grande libertà dell'autofinzione – che è
un indice del potere che questa ha su di noi. Sono due estremismi emotivi, e
sono due forme di abdicazione dal baratro del corpo a corpo con gli occhi
dell'Altro.
Stiamo facendo con noi quello che
abbiamo già fatto con gli animali. Gabbie e zoo, epitaffi di un incontro.
Gabbie per lo sguardo, per le parole, per i gesti, e zoo per disabilità
emotive, per settarismi forcaioli, per libertà a buon mercato. Nella città
abbiamo perso gli occhi dell'animale che ci scrutava attraverso il baratro della
non comprensione. Nella cyber-città ora stiamo perdendo anche quelli
dell'essere umano. Come l'animale è diventato l'osservato, così Facebook &
co. ci trasforma negli osservati, un
insieme di facce ammassate di dettagli in cui tutti sono guardati. La
caratteristica più significativa della social-labilità è la guardabilità. Il fatto di essere
guardabili senza poter vedere gli occhi dell'Altro ci avvicina al rischio che
la vita possa diventare immagine. Questo è il punto, il visibile senza
invisibile, l'uguale senza l'atopos. Ci manca
l'abilità
di
immaginare
e sperimentare
l'attimo
di
panico
di
fronte
l'abisso
dell'Altro,
di
accettare
gli
occhi
dell'Altro
che
ci
guardano
pericolosamente
e
ci
aiutano
a
dialogare
con
noi
stessi perché fanno
tremare il linguaggio. Perché sì, siamo vulnerabili di fronte agli Altri. È questo il piccolo
scricchiolio dello sguardo.
L'alternativa la
stiamo già incarnando, l'ho scritto da qualche altra parte che consumiamo più
psiche che spazzatura. È il discorso della merda. Svegliarsi
una bella mattina scoprendo che tutta questa social-labilità
ritardante-stimolante è l'ultima cosa che ci è rimasta per fare i conti con i
nostri occhi, per ritornare nei luoghi dei suoi tradimenti, evitando che
l'ultima cosa vivente sulla terra sia la solitudine del tuo cervello che
riprogramma dall'interno l'algoritmo della propria alienazione. È che questo
esasperante “adesso sociale” che ci racchiude ci rende paurosi degli occhi
dell'Altro e sta uccidendo ciò che amiamo. Può darsi sembri inutile, ma quando
ci si ridesta dalle prime vertigini di paura si comincia a essere i poeti
delle proprie vite. E sì, l'altro problema è questo, la poesia. Siamo fatti per
stare fuori di noi, per essere punte di spillo piantate nell'atopia
dell'Altro/ve. Perché questa natura che stiamo accettando un po' troppo
passivamente non ammette alcuna negatività dell'Altro, preferisce perdere gli
occhi per una rassicurante differenza consumabile, per restare sola in ciò in
cui può riconoscere se stessa. Preferisco uscire fuori per chiedermi cosa siamo
diventati. Preferisco la poesia dell'inutile, del panico di un paio d'occhi
arborescenti, perché quando sei nella merda ti viene voglia di vedere se esisti
davvero.
Cerco con nostalgia il mostro come
il felino rappreso di Chauvet. Siamo noi a essere davanti all'interruzione di
qualcosa, a essere scivolati in un abisso insondabile. Per questo penso allo
scricchiolio, al disordine dei sentimenti inutili. Penso all'arrivo di un
amante come quello di Derek Walcott, “che perfino con la merda e l'affanno / di
quel che ci facciamo a vicenda / contraddice la prosopopea della
disperazione / con alcune scintillanti semplici cose, acqua, foglie e aria, / che
eccitano dissoluzione pronta ad andare oltre la felicità”.
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