La mappa
perfetta
Frammento
da un inedito di Maurizio Corrado
Armando aveva la passione delle carte geografiche.
Le disegnava. Faceva il contabile ma era felice solo quando, finiti i
noiosissimi calcoli, poteva tornare nel suo studiolo e tirare fuori la mappa.
Era molto orgoglioso della sua mappa. Era talmente grande che aveva fatto
costruire un tavolo apposta unendone tre normali. La mappa della pianura.
Aveva
consultato tutte le carte che gli era stato possibile trovare. Non erano mai
sufficienti per lui. Voleva di più. Nella sua mappa doveva risultare quello che
c’era davvero. E lì stava il problema. Cosa doveva mettere? O meglio, cosa
doveva non mettere? Si vedeva costretto a fare delle scelte. Un tormento. Non
voleva scegliere. Che diritto aveva a omettere quello che c’era? Ma come fare?
Non poteva disegnare tutto altrimenti avrebbe dovuto farla grande come la
pianura. Assurdo. Impossibile. Aveva considerato anche quell’ipotesi, certo. Ma
a cosa sarebbe servita una mappa della pianura grande come la pianura? Con
rassegnazione aveva scelto una dimensione. Ma una volta tracciate le linee
essenziali, il fiume, le strade, i contorni dei paesi più grandi, si era
presentato, ormai ineludibile, il problema che lo assillava da mesi. Cosa non
era essenziale alla mappa? Cosa doveva indicare? Cos’avrebbe dovuto lasciare
fuori? E perché? Se restava fuori voleva dire che non c’era, non esisteva, la
sua esclusione dalla mappa l’avrebbe fatto scomparire dal mondo. Una
responsabilità troppo grande per lui.
Un pomeriggio fece una passeggiata seguendo un
sentiero nel bosco. Ogni cosa che vedeva gli dava il tormento. Avrebbe dovuto
tracciare tutti gli alberi? O sarebbe bastato segnare il sentiero? Sedette su
di un grosso masso muschioso. Posando le mani sulla pietra umida si chiese se
avrebbe dovuto segnalarla. Chissà quante persone si erano sedute lì.
Sicuramente giovani amanti si erano dati appuntamento al masso, era un punto di
riferimento, era importante per la gente della pianura. Sgranò gli occhi e
sorrise. Quello doveva segnare! Le cose importanti per la gente.
Ma come sceglierle? Tornò mesto. Per sapere cos’era
importante per la gente della pianura avrebbe dovuto conoscere la gente della
pianura. Tutta. Armando era sgomento. Non poteva farcela. Non gli sarebbe bastata
la sua sola vita per quel compito immane. Aveva bisogno d’aiuto.
La sera mangiando lentamente le lenticchie
preparate dalla moglie gli arrivarono alle orecchie, tra le innumerevoli parole
con cui era solita condire la cena, una notizia che gli fece alzare gli occhi
di scatto. Esisteva un uomo che conosceva bene la pianura e la sua gente.
Quell’uomo era l’arrotino. Doveva assolutamente conoscerlo. Ne andava della
mappa. Per la prima volta da mesi sentì le punte del tormento ammorbidirsi.
La mattina dopo indossò il suo cappotto migliore e
uscì con la moglie.
Natale era diffidente. C’era un tizio con un
cappotto scuro e le mani in tasca che si era messo in fondo, dietro a tutte le
comari schiamazzanti e aspettava. Cosa aspettava? Anche la moglie era andata
via. Quando nella piazza rimasero solo loro due, il cappotto si mosse piano
verso di lui che continuava a molare un grosso coltellaccio, non si sa mai che
intenzioni ha la gente.
Sulle prime Natale non capiva bene cosa volesse
quell’uomo, ma il suo sguardo dimesso e i modi gentili avevano spazzato via in
un lampo ogni diffidenza. Si era messo a parlare della pianura, di un disegno
che stava facendo, la mappa, lo chiamava, e voleva metterci dentro tutte le
cose importanti. Ma lui che c’entrava? Gli raccontava di un masso dove andavano
gli innamorati, certo che lo conosceva, ci aveva dato anche lui appuntamento
alla Ginetta, la figlia del vetraio, e mentre sorrideva pensando alla scheggia
di vetro che le aveva tolto dalla pelle proprio su quel masso, decise di dargli
retta. Non aveva capito bene perché, ma in fondo quel tipo gli stava chiedendo
solo di raccontare le storie della pianura, lo faceva tutti i giorni.
C’era un altro motivo. Aveva proprio un bel
cappotto.
Il giorno dopo Natale camminava felice col suo
cappotto nuovo tirando il carretto sulla strada verso il fiume. Armando gli
stava dietro a fatica, ma l’unico modo per conoscere le storie della pianura
era seguirlo, mica l’arrotino si poteva fermare per lui e allora, con
un’audacia che aveva stupito prima di tutto se stesso, aveva deciso di
seguirlo. Avrebbe preso due piccioni con una fava: conoscere le storie e
conoscere direttamente la pianura, percorrendola, a piedi, passo dopo passo.
Quell’idea gli era apparsa come un’inaspettata soluzione ai suoi tormenti e ora
arrancava dietro al carretto di Natale, lui che non si era mai mosso di casa,
verso quella che gli sembrava un’avventura degna di uno dei romanzi che teneva
nell’armadio di legno.
Natale aveva appena finito di raccontare una storia
e pensava alla sua casetta sul fiume, era ormai qualche mese che se l’era
costruita, di fianco a quella di Nesto, e non vedeva l’ora di arrivarci, posare
quel carretto e sentirsi finalmente libero di camminare senza pesi. Mancava
ancora molto cammino. Si voltò a guardare Armando che camminava a piccoli passi
frettolosi sgranando felice gli occhi intorno come non avesse mai visto il
mondo e gli fece un cenno.
- Mando! Vieni, che ti racconto la storia di
Eleonora.
[…]
Armando stava ancora rimuginando la storia di
Eleonora quando arrivarono da Nesto. Non c’era stato verso di farsi raccontare
altro ma quella donna evocata così impalpabilmente gli aleggiava intorno, ogni
tanto si ripeteva piano il suo nome, Eleonora, evocando regni lontani, colline
fresche di rugiada. Quel suo vestito di lana morbida lo immaginava color del
vino denso, quello che tinge i bicchieri, lo stesso che Nesto aveva versato
generosamente durante la cena e cominciava a fare effetto, tanto che Armando
improvvisamente si alzò barcollante e srotolò in un sol colpo la mappa sul
pavimento di terra battuta provocando gli evviva degli altri, Nesto riempì
subito i bicchieri di grappa verde e li appoggiò agli angoli della mappa
indicando coi ditoni i punti da segnare certamente secondo lui, dove quella
volta era caduto, dove aveva visto nuda la Marisa mentre faceva il bagno nel
fiume proprio sotto un salice e poi il punto dove aveva perso qualcosa ma non
si ricordava cosa e neanche il punto.
Armando guardava la mappa dall’alto. Non l’aveva
mai vista da quella prospettiva. Gli sembrava di essere un uccello e aiutato
dal vino volteggiava come un’aquila sulla pianura, ecco che apre le larghe ali
al vento lasciandosi trasportare in alto per scendere in picchiata puntando un
punto preciso, all’incrocio fra due linee segnate a matita nel mezzo di una
larga parte ancora bianca, vergine, dove poteva esserci solo una vasta prateria
rimasta intatta nei millenni, dimenticata perché lontana dalle piste abituali e
aguzza la vista puntando una lepre nel folto dell’erba che diventa sempre più
chiara e grande mentre le si avventa contro e l’afferra ora con le mani di uomo
ma con uno scatto nervoso lo snello animale si libera lasciandogli solo un
ciuffo di peli bianchi fra le dita.
È disteso nell’erba, alza la testa sulla prateria
immensa. Le colline, in fondo.
Il suo gruppo è corso in avanti. Lui non ha seguito
il cenno silenzioso del capo che indicava l’inizio della caccia. Qualcosa lo
tiene nascosto fra l’erba. Lo sente nello stomaco, gli pervade il corpo, sta
per succedere. Gira piano la testa. Nel bosco, alle sue spalle. È fra gli
alberi. Si nasconde. Lo aspetta. Eleonora.
L’inverno è passato. Armando ha trascorso il tempo
nella piccola casa di legno di Natale, a lavorare alla mappa. Mentre fuori
cadeva la neve, lentamente prendeva forma in lui la consapevolezza di come
ognuno avesse la propria pianura. Per disegnare la mappa perfetta avrebbe
dovuto unire le mappe di tutti. Ogni tanto qualche viaggiatore si fermava a
bere, a volte a dormire, e Armando ne approfittava per farsi raccontare la loro
mappa. Erano tutte diverse. Ognuno vedeva cose sconosciute agli altri.
Il cavaliere parlava delle piste da seguire a
cavallo, delle locande, delle albe rosse viste dalla collina, la sua era una
pianura fatta di sentieri, di linee che si incrociavano, di boschi fitti e
paurosi da attraversare velocemente, di rocce che segnavano le distanze, di
segnali per viaggiatori solitari. Il venditore di stoffe raccontava dei mercati
nei villaggi e nelle città. Il vagabondo dei luoghi segreti dove non andava
nessuno, angoli dimenticati, ripari sotto ai ponti, capanne abbandonate. Una
notte di pioggia bussò alla porta un gran signore che si era perso e descrisse
palazzi signorili dalle innumerevoli stanze decorate, specchi e stucchi, letti
a baldacchino e feste nei giardini, labirinti di siepi, statue di marmo bianco,
salotti di dame compiacenti, banchetti e danze.
Tutti quei mondi s’intersecavano senza vedersi mai.
Tutti vivevano simultaneamente nella grande pianura che li accoglieva,
sconosciuti gli uni agli altri. Sembrava di sentir parlare di un altro luogo,
non era mai la stessa pianura.
Armando cominciò col segnare sulla grande mappa che
aveva iniziato le indicazioni di ogni viaggiatore, ma spesso non riusciva a
sistemare con la dovuta precisione la realtà che gli veniva suggerita. Cambiò
metodo. Decise di sviluppare una mappa per ognuno. Poi le avrebbe sovrapposte e
da quell’insieme sarebbe risultata la mappa perfetta. Questa era l’idea.
Alla fine dell’inverno si trovò con una quantità di
mappe diverse fra le mani. Le guardava, le confrontava, le misurava, cercava di
sovrapporle, di trovare punti in comune, di farle combaciare. Fu tutto inutile.
Erano mondi diversi. Tutti precisi, perfetti, coerenti in sé, ma si disgregavano
immediatamente in linee insignificanti appena provava a unirli ad altri. Era
disperato. Come avrebbe fatto a disegnare la mappa perfetta? La cosa che lo
lasciava più sgomento era che ogni mappa era vera. Reale. Corrispondeva a una
realtà precisa. Non c’erano menzogne da smascherare o false piste da scartare.
Tutte dicevano la verità. Ma ogni verità era diversa dalle altre.
Fu Nesto a sciogliere il nodo. Con una domanda. Una
mattina in cui si avvertiva che l’inverno stava scivolando via, l’aria frizzante
e in attesa, Nesto entrò nella stanza dove Armando sedeva immobile già da
qualche giorno, ignaro della fine delle nevi. C’erano mappe dappertutto, sul
tavolo, appese alle pareti, sul pavimento, arrotolate nei bicchieri. Quante
mappe, disse Nesto, ammirato. Poi disse quella cosa e mentre la diceva, Armando
si rese conto che non ci aveva mai pensato. Forse stava proprio lì la
soluzione. Era semplice. Ma non gli era mai passata per la mente.
- Qual è la tua?
Armando balzò in piedi e in preda ad un’eccitazione
straripante abbracciò Nesto che non capiva bene il motivo di tanta felicità.
Era quella la soluzione che andava cercando. Non c’erano altre possibilità. Non
c’era una mappa perfetta che potesse andar bene per tutti. Ognuno aveva la
propria mappa perfetta. Non gli rimaneva che disegnare la sua, personale,
soggettiva, completamente unica e quindi perfetta per lui. Si bloccò di nuovo,
immobile. Quindi? Quello voleva dire che doveva partire da solo, neanche Natale
poteva aiutarlo, se seguiva lui avrebbe disegnato la mappa di Natale, non la
sua. Non aveva scampo. Quel compito doveva affrontarlo da solo.
La mattina dopo partì.
Nesto e Natale gli avevano preparato una cena
d’addio la sera prima, quei mesi passati insieme li avevano uniti, erano
diventati grandi amici e ai due si stringeva il cuore vedendolo incamminarsi
verso la pianura. Arrivato dove il sentiero faceva una curva, Armando si girò
un’ultima volta a guardare il fiume, la capanna di canne di Nesto, la casetta
di legno di Natale, l’orto tondo, le betulle intorno e loro due che se ne
stavano lì in piedi, a guardarlo, in silenzio, da lontano.
Vent’anni dopo, Armando tornò.
Arrivato alla curva del sentiero si fermò come
timoroso di rivedere quel luogo che aveva sognato tante volte durante il
cammino solitario. Gli alberi erano cresciuti, le cime si agitavano in alto, i
fusti bianchi delle betulle sembravano i suoi fogli, sui tronchi gli sembrava
di riconoscere i segni della sua mappa, quella che aveva disegnato in tutti
quegli anni di assenza, di viaggio, di conoscenza della pianura. Passo passo,
lentamente, giorno dopo giorno, ora dopo ora, l’aveva percorsa, senza darsi
tregua, senza fermarsi mai due notti nello stesso luogo, voleva vederla tutta,
conoscerla, sapere davvero com’era, cosa nascondeva, cercando di ascoltare ogni
sasso, ogni foglia, ogni strada, ogni villaggio, ogni città. Aveva visto tutto
quello che poteva vedere, l’aveva toccato con le mani, percorso con i piedi,
aveva assaggiato tutti i cibi, i liquori, parlato con la gente nelle piazze,
nelle locande, aveva attraversato tutti i sentieri possibili, ne aveva
tracciati di nuovi, inoltrandosi nei boschi, salendo su ogni pendio,
scavalcando colline per sapere cosa c’era oltre.
Ora gli sarebbero bastati pochi passi. Armando
chiuse gli occhi un attimo, rivide per l’ennesima volta il fiume, la capanna di
canne di Nesto, la casetta di legno di Natale, l’orto tondo, le betulle intorno
e loro due che se ne stavano lì in piedi, a guardarlo, in silenzio, da lontano.
Si mosse.
C’era chiasso. Era quella la cosa che l’aveva
sorpreso e infastidito di più. Non erano tanto le altre case che erano arrivate
o le strade, la chiesetta col campanile, la piazza con i portici intorno e le
botteghe, il mercato nel quale si era trovato immerso quasi subito coi richiami
dei venditori di verdura, di stoffe, di pesce. Non era neanche la
trasformazione della capanna di Nesto in un vero bar dove adesso stava seduto
mentre dalla finestra poteva vedere il fiume e il cielo colorarsi dei toni del
crepuscolo.
[…]
Armando era stordito. Davvero era successo tutto
quello mentre lui era via? Dubitava di riuscire ad adattarsi a tutte le novità.
Quello che aveva gelosamente conservato nella memoria era l’inizio, ma ancora
non sapeva si trattasse di un inizio e neanche lo sapevano gli altri che ora lo
guardavano aspettando il suo racconto, e soprattutto la sua mappa. Se l’erano
chiesto tante volte, chissà dov’è Armando, cosa fa e come procede la sua mappa.
La sua stanza, quella dove aveva passato tutto quell’inverno, ora era la camera
più bella di tutto l’albergo di Natale, avevano incorniciato le mappe che aveva
disegnato e le avevano appese ai muri di tutte le camere, ce n’erano talmente
tante che ne erano anche avanzate ma quelle le tenevano nascoste, ma adesso
però doveva tirar fuori la mappa. Dov’era? Non vedevano nessun grande rotolo,
dove l’aveva nascosta? E soprattutto, cosa ci aveva messo? Era riuscito
sicuramente a disegnare una mappa meravigliosa, in tutti quegli anni in giro
per la pianura ne doveva aver viste di cose, conosciute di persone, doveva aver
un sacco di storie da raccontare e Nesto gli versava ancora grappa verde e
aspettava, insieme a Natale, che Armando si decidesse ad aprir bocca.
Armando guardò il liquido verde nel suo bicchiere.
L’aveva immaginato tante volte. Ne ricordava il sapore e soprattutto l’odore.
Era proprio l’essenza del rosmarino quella che Nesto riusciva a catturare e
conservare lì, in quel liquido. Prese il bicchiere e lo vuotò d’un colpo. Poi
alzò il viso, guardò Nesto, poi Natale, si frugò nelle tasche, tirò fuori un
foglietto e l’appoggiò sul tavolo.
Tutti e tre ora fissavano quel foglio ripiegato e
stropicciato, non si riusciva a capire quanto fosse grande, ma certamente non
era la mappa immensa che i due amici avevano immaginato. I loro sguardi si
alzarono interrogativi verso Armando che continuava a tacere. Poi avvicinò le
dita al foglio e iniziò lentamente ad aprirlo.
Era sottilissimo. Ogni volta che Armando ne
prendeva delicatamente un angolo fra le dita alzandolo, si raddoppiava. Una
volta, due volte, tre volte, ma come poteva essere così sottile quella carta?
Otto volte, nove, dieci, la mappa si dispiegava aumentando del doppio ogni
volta sotto i loro occhi che piano piano, lentamente, con una sorpresa
crescente, prima intuirono, poi iniziarono a vedere, a capire, a riconoscere
ogni filo d’erba, ogni albero, ogni foglia, ogni sasso.
Era disegnata con tale minuzia che sembrava proprio
di poter toccare con mano ogni cosa. Ci si era proprio messo d’impegno, tutti
quegli anni erano serviti a renderla precisa, non aveva proprio dimenticato
nulla, c’era tutto, era perfetta. Il fiume, la capanna di canne di Nesto, la
casetta di legno di Natale, l’orto tondo, le betulle intorno e loro due che se
ne stavano lì in piedi, a guardarlo, in silenzio, da lontano.
Illustrazione
di Juan Miguel Almendro
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