Zombie Class Hero
A Stefania,
to a point of needless
blinding shine.
Restiamo umani, restiamo
umani! Dopo gli attentati di Parigi soffriamo di attacchi di panico da
disumanizzazione. Un giovane mussulmano si è bendato gli occhi per offrire
abbracci a Place de la Republique. Perché l'amore dev’essere cieco, senza
frontiere, praticamente deve rimuovere la vista del terribile altro. Amore puro
insomma, trasparente a se stesso, amore senza lacuna nella visione. Tanto puro
che in questo momento così tragico è venuto fuori anche un eroe sublime, un
cane d'assalto delle teste di cuoio francesi morto durante il blitz eseguito in
un covo di terroristi a Saint-Denis. A dare la notizia su Twitter in tempo
reale è stata la stessa police nationale en mission.
Anche un animale vittima dell'Isis. Allora #jesuischien, che “la vita di un
cane vale quanto quella di un uomo”, recitava un tweet.
Il click-attivismo è una
panacea emotiva. Se lo spirito critico è lento nel distinguere ciò che è stato
confuso, l’empatica è veloce nell’eliminare l’opacità. “RIP Hero” dunque,
perché il problema a posteriori è anche questo. Servono degli eroi in questa
tragedia, oggetti attraverso la cui identificazione espiatoria si plachi il
trauma e si semplifichino le responsabilità tra potenze in competizione.
Oggetti sì, non soggetti. È il consumo dell’icona e della sua aura sacrale.
Perché quando ti fanno vedere tutto e hai tutte le risposte già
confezionate l’icona muore, è lì che non c'è più niente da vedere.
Il momento del lutto
pubblico, con la sfilata di volti e le loro microstorie, giovani cosmopoliti di
belle e magnifiche sorti, è una “visibilità” che occulta gli altri cadaveri, le
altre morti generate dalle politiche neocolonialiste dell’occidente, a Beirut,
ad Ankara, in Palestina nei giorni immediatamente precedenti al 13 novembre, in
Mali nei giorni successivi. Esalta una comunità più immaginaria che reale,
purificata dalla barbarie, innocente, spensierata ed eroica come un cane, come
un animale inconsapevole. Perciò sì, la vita di un cane vale quanto quella di
un uomo qui a casa nostra, tranne che per quegli altri uomini lì, sul fondo di
una geopolitica economica in cui non tutte le vite sono degne di lutto. Il
lutto pubblico deve celebrare le spoglie dell’innocente, così la vittima deve
avere due tratti fondamentali: è sempre giusta ed è completamente sprovvista di
potere. La vittima non sbaglia, non ha peccato, è in assoluto positiva, è
trasparente perché consente di rendere impermeabili al distacco e porosi alla
commozione. La vittima è per statuto il sublime qui tollit peccata
mundi. Scriveva Lyotard ne L'inumano che il sublime è “l'annuncio
sacrificale dell’etica nel campo dell'estetica”. Ancora una volta,
inconsapevoli o meno, è il nostro volto gassoso che rinegoziamo continuamente a
ogni crollo.
La faccio un po’ lunga e
anche fuori tempo massimo. Gli eventi si trasformano in informazioni che
bruciano rapidamente, sono al servizio del culto che consegna tutti all’obbligo
del consumo emotivo. Se non ne parli mentre sono ancora in “vita”, cioè in
vista, parli anche tu post-mortem. Viene facile lo scivolone della
metafora zombie molto pop, eppure la zombieness è lo stato della
nostra coscienza sociale, disseccata dalle trasformazioni del mondo in uno
schermo integrato. L’encefalogramma piatto, questa è l’attività del
pensiero nell’era del cervello. È una forma di sogno collettivo, l’equazione
culturale tra cervello e collettività. È in fondo quello che sosteneva Gabriel
Tarde quando parlava della società di sonnambuli, i parenti mesmerici degli
odierni walking dead. Non un tessuto di relazioni economiche ma
“un sogno su comando e un sogno in azione. Non avere che idee suggerite e
crederle spontanee: tale è l'illusione del sonnambulo come dell’uomo sociale”.
La zombieness è proprio questo sogno, pensiamo di possedere idee e
affetti, pensiamo appartengano al nostro nocciolo di verità, coincidenti con la
natura del nostro essere, e invece sono il risultato di un insieme di individui
che si imitano a vicenda, un agglomerato di riflessi suicidari. Gli zombie
sono l’immagine di una società contagiata dal carbonchio della somiglianza,
compressa tra l’ingenuità emotiva e la congestione delle informazioni. Cammini,
credi di pensare, mordi, perdi dei pezzi. Una società in cui tutti si limitano a
fare la stessa cosa, la coazione a sopravvivere malgrado tutto.
Torniamo indietro,
ventiquattr’ore prima del 13 novembre e del Teatro Bataclan. In quelle ore tre
kamikaze dello Stato Islamico si facevano esplodere in un sobborgo di Beirut,
43 morti, più di 200 feriti, nessuna visibilità dell’evento, niente commozione
per le vittime e niente foto profilo con la bandiera in trasparenza. Il
circuito delle passioni non si piega al di fuori della tautologia perché soffre
di anoressia dell’altro. Il potere magnetico delle simmetrie è un fatto di
ecologia mentale minima. Minimo sforzo massima resa. Restare nella tautologia
del resto è più semplice, riduce la complessità delle domande e mi identifico
per somiglianza, per trasparenza positiva. Che detto in altri termini vuol dire
che ogni soggetto non è orientato verso l’altro, ma che questo altro è la forma
merce di se stessi. È una legge cinica in realtà, facciamo finta di non
saperlo, e gli abbiamo dato il nome di identità. Ma c’è un fatto
ulteriore. I terroristi che hanno preso di mira il Bataclan hanno capito
perfettamente questa cosa. Hanno preso di mira la forma merce della retorica
politica europea, quella della “generazione futura”, l’idealtipo di un avvenire
che a conti fatti, sulla pelle di ognuno di noi, precari non-finiti nelle
aspirazioni, non esiste.
A Palermo l’equivalente
del Bataclan potrebbe essere la “generazione Garibaldi”, laureati, dottorandi,
avvocati, artisti, disoccupati un po’ intellettuali di se stessi, età media 35
anni, che la sera riempiono il bar e ascoltano musica “alternativa”, al tempo
stesso borghesi, antagonisti e hipster. Anche il quartiere di questo bar è
culturalmente eterogeneo, con ristoranti tunisini e indiani, negozi cinesi,
tradizionali friggitorie cool e locali vintage. In questo bar il legame
generazionale è solo uno, la condizione precaria e un futuro compromesso. Se di
una generazione possiamo parlare, qui a Palermo come lì a Parigi, è di questa.
Una generazione che non ha nulla di quell’idealtipo promettente e sorridente,
avviato verso una brillante carriera professionale, ma una generazione
modellata sullo sfondo di una crisi continua, quella stessa generazione
umiliata a vent’anni, a colpi di manganello e sputi, dentro una scuola durante
il G8. Una generazione di eterni Telemaco, bisognosi di assistenza, che è il
grande mistero del discorso politico, che era già lacerata e comincia a
vederlo, zombificata nelle azioni, affetta dalla sindrome da decesso parziale,
a cui non resta che lo snobbismo delle soluzioni esistenziali.
Proviamo un esercizio di
fantapolitica. Se qualcuno dei nostri governanti dovesse decidere di negoziare
questa “guerra” con lo Stato Islamico, dovrebbe chiedere loro “che cosa
volete”? “Niente” sarebbe la risposta, perché il conflitto è irrisolvibile. L’oggetto
di questa guerra simmetrica non è materiale, non è trattabile, non è più
risarcibile. Niente perché quando un uomo, una cultura, si identifica con le
rovine delle sue città, l’ennesimo primo risveglio è accelerato come la paura,
è rivolto allo spettacolo della vendetta. Niente, perché la vendetta è
diventata una visione del mondo in cui la morte ci incatena all’amnesia della
Storia, e nessun cadavere contribuisce a stratificare il passato. Ai funerali
le salme non lasciano più impronte né vestiti vuoti dentro gli armadi. Tutto è
immediato, senza rimorso, esasperato, estremo. C’è il teatro della schizofrenia
autodistruttiva, soltanto questo è reale. Da una parte come dall’altra, automi
zombificati dal male endemico della “zona grigia”, quella soglia in cui
individui e potere si scambiano la moneta che hanno imparato a desiderare pur
di sopravvivere. Non nugoli di eroi, ma di mosche.
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