Ho qualcosa da dire sul poetico
di Matteo Meschiari

Ho qualcosa da dire sul poetico anche se tutto quello che ho scritto qui o altrove ha sempre avuto a che fare con il poetico. Lo faccio a partire da qualcosa che ho vissuto poco fa e che a due ore di distanza mi sembra già incastonato in un’ambra remota. Irraggiungibile.

Un luogo della bassa modenese. Blocchi di strutto. Gnocco fritto e ciccioli. Un po’ di musica. Vecchi. Bambini. La pesca in una stalla. I sughi d’uva. Il cimitero dove sono sepolte persone della mia storia. Una sagra di campagna come tante. Come nessuna invece. Una specie di salto nel tempo. Quarant’anni indietro. Chi mi conosce sa che agreste e bucolico non sono il mio lessico. Quando vedo un museo di attrezzi contadini provo orrore pensando alla schiavitù della terra. Ma oggi con una stretta di mano a un vecchio è stato stringerla a chi l’aveva stretta a lui da ragazzo e che a sua volta l’aveva stretta a qualcuno nato a fine Ottocento. Anche qui. Non me ne frega un cazzo del passato. O dell’autentico. Me ne frega del poetico. E questa sera il poetico era così presente ovunque da farmi sentire rovesciato come un guanto. Non erano i gusti della nonna e la mazurka. Non c’erano gusti della nonna. Non c’era la mazurka. Era la totale assenza di filtri. Le cose mi trapassavano per se stesse come erano e come saranno anche dopo che sarò morto. C’era un filare di vite carico piegato dai grappoli malconcio. C’era l’argine e le cime dei pioppi. Le cerate di plastica sui tavoli. Le lampadine a incandescenza. La vecchia che mi guardava strano. E il poetico non erano queste cose antiche. Era il loro modo di raggiungermi. Dirette al petto. Come una fucilata. Poi uno può parlare di tutto quello che vuole quando scrive. Può fare poesia usando muco sigarette larici culi organza foglie automobili suoni sogni paesaggi unghie copertoni lattine miti gatti parole. Fatti suoi. Quello che invece ho sentito stasera è la distanza abissale dai custodi di un’ortodossia. Da chi briga per farsi notare. Da chi difende i suoi capi o i suoi idoli. Da chi pubblica una plaquette di versi e ambisce al Nobel. Dai pezzi di merda che si definiscono poeti in un festival. Da chi non sa usare le parole. Da chi non sa guardare. Da chi fa rumore. Da chi legge troppo. Da chi usa le buone maniere per nascondere la sua impotenza. Dai corretti. Dai vili. Quello che ho sentito ha a che fare con l’andarsene. Con il non perdere tempo a sforzarsi di far capire. Ha a che fare con il lasciarsi trafiggere dalle cose mentre premono per esserci solo un breve attimo poco prima della notte finale. E mia figlia stava tirando con l’arco per un euro mentre io facevo la fila per il gnocco. Non l’ho vista tirare. Era a cinquanta metri da me. Coperta dalla vite carica di grappoli. Volevo guardarla ma quel momento era perduto. Con la mente l’ho raggiunta nella mia costernazione e lei era lei. Non era mia. Era lei. La freccia ha raggiunto il bersaglio. L’ha raggiunto anche senza di me. Ed è questo il poetico di cui voglio parlare. La mia assenza. La freccia. Le sue dita sulla corda. Un volo veloce. Così lontano da tutto.


1 commento:

  1. eppure dopo questi momenti improvvisi come fulmini che per un instante gettano luce nelle tenebre intorno e abbozzano contorni scarni delle cose, torna, inconscio il desiderio di accumulo e possesso di cose, di ricordi, di emozioni. Almeno per me è così

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