Territorio | Paesaggio

























Territorio | Paesaggio
di Francesco Gori

Pensare il nostro tempo, ovvero l'impossibile. Pensare significa condividere, ma pensare il nostro tempo significa necessariamente pensare la frammentazione, pensare l'incondivisibile, pensare l'incomunicabilità. Per questo è impossibile. Eppure non ci si può tirare indietro. I nostri nonni hanno dovuto pensare l'olocausto, la bomba, la cortina di ferro. Era impossibile, ma l'hanno fatto. Non ci si può nascondere di fronte all'impossibile. È proprio là, dove non vi è spazio, dove il tempo si esaurisce, che la nostra parola deve nascere, a battesimo dei nostri frammenti.

Pensare, è una forma del creare. Si crea con le mani, con i piedi, col corpo, con gli occhi e col pensiero. Si crea con i sensi perché la creazione è creazione di senso. Ma non si crea dal nulla; anzi, semmai, proprio il contrario: si crea dal tutto. Gli elementi della creazione esistono già tutti prima della creazione, come queste parole pre-esistono a questo testo, come i mattoni precedono la casa. Nulla si crea, se non quello che c'è già. Ad esso, nella creazione, si dà un senso. Per questo la creazione è un atto sensibile e sensuale, oltre che un atto semantico. Come la creazione del figlio, che passa per la festa dei sensi dell'amplesso. Dare un senso, dunque, significa dare corpo, cogliere un'anima del mondo e donare a essa una forma sensibile, e cioè una forma delimitata, un confine riconoscibile. La forma è una configurazione di elementi disparati, casualmente disposti gli uni accanto agli altri, compresenti, coesistenti, affastellati gli uni sugli altri come un mucchio di vermi. Perché la nostra esperienza, e le idee che genera in noi, è un mucchio di vermi, una zuppa di anguille, un magma indifferenziato. Tutto accade, in essa, senza che si produca un senso: adesso piove, adesso c'è il sole, adesso squilla il telefono, adesso si rompe un bicchiere, adesso esco di casa per andare a lavoro, adesso sono per strada, adesso incontro lo sguardo di un uomo che mi ricorda mio padre, adesso è notte e tutto tace, adesso sogno, e tutto accade, come se fossi desto, tutto accade, contemporaneamente, voci di strada, immagini, parole, sentito dire, “mi fanno male le scarpe”, adesso, “le ho comprate troppo strette”, arriva l'autobus, adesso, a portarci verso l'aeroporto, si deve partire, adesso, con le scarpe troppo strette, con le voci di strada, con le immagini della pubblicità, con la radio, con la musica nelle orecchie, con i sensi pieni, col corpo stanco, si parte, adesso, tutto insieme, proprio adesso che siamo appena arrivati, adesso, già si riparte.

“La creazione di una distanza consapevole tra l'io e il mondo – scrive Warburg – è l'atto fondatore della civiltà umana”. La creazione di una distanza è ciò che sta alla base di ogni creazione. Il pensiero è questa distanza, questo scarto, questo residuo, questo intervallo, questo interstizio impossibile in uno spazio saturo di esperienza, nell'illimitato accadere degli eventi. Tutto ciò che accade, è per sempre, da qualche parte nella nostra memoria, pronto a riattivarsi a ogni istante, tutto ciò che accade, è accaduto e accadrà è qui, e adesso, nella nostra mente. Pensare e creare sono la stessa cosa, una cosa che si fa con le mani, col corpo, con la presenza. Penare non significa guardare fuori dalla finestra, ma disporre l'orgia degli eventi su una tavola operatoria e istituire tra di essi dei percorsi di senso. Pensare significa tracciare delle rotte, creare significa tracciare delle rotte. La figura umana che si sprigiona dal marmo è una rotta, una delle infinite possibili che l'artista poteva scolpire sulla superficie della pietra. Egli segna la sua rotta con lo scalpello, colpo dopo colpo, seguendo le orme di corrispondenze segrete, incistate nel blocco di marmo; la sua creazione è l'opera del pensiero, e cioè del corpo, che dà un “senso”, una sensibilità, dei limiti fisici, all'infinito potenziale racchiuso nella struttura amorfa della pietra. 

“Ma la pietra non ha una struttura amorfa!”, tuona il geologo, “è fatta di cristalli e tessiture, ha un suo ordine preciso, dettato dalla sua storia, dalla storia della temperatura, della pressione, del territorio, della latitudine, delle forze tettoniche a cui è stata sottoposta, degli agenti atmosferici a cui si è trovata esposta”. Ogni pietra, così com'è, ci racconta la storia del mondo dal suo umile punto di vista, è un frammento d'eternità, da cui proviene e in cui è destinato a dissolversi. È già tutto scritto in essa, basta leggere. La creazione della scienza, la sua arte raffinata, è imparare a leggere, conoscere la lingua delle rocce e delle piante, dei venti e delle maree, della salute e della malattia, degli elementi e delle loro reazioni, dei pianeti e delle loro orbite. Lo scienziato non può scrivere se non ciò che ha letto, o ascoltato, se non ciò che gli è stato sussurrato da quelle cose e da quei fenomeni di cui ha appreso la lingua. Nel brusio delle cose, dunque, lo scienziato trova un senso, un limite, un codice, un significato, come quando, imparando una lingua straniera, cominciamo a comprendere quello che si raccontano le persone di quel paese, la cui comunicazione, altrimenti, ci appare come un'insalata di suoni indecifrabili. (Nei termini della teoria dell’informazione, potremmo dire che una lingua ignota è mero “rumore”, che si trasforma in comunicazione via via che ne apprendiamo le regole e il vocabolario).

L'ascolto e la lettura, dunque, sono alla base della creazione, artistica, religiosa, scientifica, filosofica. L'atto di leggere e ascoltare significa anzitutto imparare a discernere la “distanza”, gli intervalli tra i fenomeni, come gli intervalli che separano le parole di una lingua. Senza intervalli non esisterebbe linguaggio, e cioè comunicazione, ma solo rumore, un flusso continuo e indifferenziato di suoni e tracce indecifrabili. Non esisterebbero segni, né segnali, ma solo un coacervo di tracce disperse, di sentieri che non portano da nessuna parte, o piuttosto, un territorio intatto, illeggibile, senza alcun sentiero a indicarci il cammino.

Ma il viandante vi dirà: “non esiste territorio che non racconti la sua storia!”, non esiste territorio che non sia paesaggio, che non implichi, cioè, la possibilità di un appaesamento, di un orientamento e, in ultima istanza, del dimorare. Per il viandante il puro territorio non esiste, come non esiste la pura roccia per il geologo: vi è un senso, bisogna solo mettersi in ascolto, decifrarne la voce e ricomporlo in forma. La forma del viandante è il cammino: col suo corpo egli traccia delle rotte, percorre il territorio facendone paesaggio, appaesandolo col suo stesso andare, con le impronte dei suoi piedi. In esso si muove secondo le vie più congeniali, segue le pendenze dei declivi, aggira gli specchi d'acqua, si tiene alla larga dai burroni, misura l'estensione del mondo con i limiti del suo corpo. Il suo corpo, i suoi sensi, sono il suo senso, il metro, l'unità di misura con cui misura il territorio, facendone paesaggio. Finché non si imbatte in una parete rocciosa troppo scoscesa, dove il suo cammino deve interrompersi, o orientarsi verso terreni più agevoli. “Di qui non si passa”, riconosce allora, “tra queste rocce non vedo un possibile cammino”, e adatta il suo passo alla morfologia del paesaggio. “Ma non vi è parete”, ribatte lo scalatore, “che non offra una via possibile di scalata”. Basta usare anche le mani e adattare il proprio corpo, la propria postura, alle sequenze di appigli offerti dalla roccia e anche la parete più scoscesa, offre la sua superficie a una possibile lettura. Lo scalatore osserva la montagna, ne percorre con lo sguardo placche e strapiombi, spigoli e diedri, cenge e tetti, fessure e camini, trova un nome per ogni ruga che segna il volto di pietra, per ogni sua forma, per ogni sporgenza, per ogni cavità: buchi, tacche, reglette, fessure, clessidre, tasche, spuntoni, svasi; e scende nel dettaglio, sempre più, fino a descrivere le forme della roccia con i gesti stessi del suo corpo: biditi, monoditi, tallonaggi, agganci di punta, spalmate, rovesci, duelfer, compressioni, biciclette, lolotte, spallate, mano-piedi, spaccate, incastri, knee-bars. Tutto questo linguaggio egli vede nella roccia, ancor prima di sfiorarla. Essa gli parla, sussurra al suo sguardo le posture del suo corpo, gli suggerisce le condizioni del dialogo, la possibile traduzione della figura umana in uno strapiombo di roccia (e viceversa), i termini per accedere all'impossibile, alla verticalità e oltre, alla terza dimensione. La roccia mormora, i suoi frammenti prendono un nome; così com'è, senza nemmeno toccarla, essa cessa di essere un territorio per diventare paesaggio, luogo di un possibile appaesamento, tra i cui speroni si può perfino dimorare, per una o più notti di bivacco, sospesi nel vuoto o rintanati in un anfratto, in attesa che torni la luce, o che passi la tempesta.

Quella stessa roccia dunque, quella parete di marmo bianco, parla agli uomini in molte lingue. Essa parla anche agli uomini di commercio, naturalmente, che, diversamente dal contadino o dal pastore, per i quali non è altro che un pezzo di terra grama, incoltivabile, e inadatto per le bestie, vi scorgono le preziose risorse per un'impresa di cavatura. Tutti questi uomini creano, vale a dire pensano, istituiscono una distanza tra sé e il convulso accadere del mondo, decifrano degli intervalli nel magma degli eventi, dei limiti, dei confini, dei silenzi nel brusio delle cose. E dopo aver isolato gli elementi, i segni dei linguaggi in cui la natura si esprime, li ricompongono, inanellandoli in frasi, discorsi, percorsi di senso. Come gli antichi, che osservando la volta del cielo trapunta di stelle, cominciarono a scorgervi delle regolarità, dei percorsi, delle rotte, che avrebbero potuto poi riportare sulla terra per orientare il loro cammino e la loro navigazione. Perfino nel cosmo infinito, o forse proprio a partire da esso, dunque, gli uomini possono scorgere un senso, dargli una forma, un corpo, il corpo stesso del loro pensiero. Pensare significa creare, e creare significa disporre, trovare un ordine, una configurazione tra elementi disparati. Non vi è creazione che non sia istituzione di un ordine, e che non implichi, per questo, un attraversamento dell'informe, del caos, in cui è alto il rischio di smarrirsi, per trarre da esso i contorni di una forma, gli elementi di un orientamento. Perché creare una forma, istituire un ordine, significa individuare le coordinate per un orientamento, per sottrarsi alla deriva e orientare il proprio cammino. Uno sguardo sapiente, si posa sulla roccia, e trae da essa le coordinate per orientarsi, uno sguardo che ha appreso con l'uso e l'addestramento, il tempo e la fatica, ad ascoltare la lingua delle rocce e a tradurla nel dominio dell'umano, attraverso il gesto, il segno,  la parola. Lo sguardo sapiente, l'ascolto della lingua delle  cose, libera gli uomini dal terrore di fronte al territorio e consente loro di prendere dimora nel mondo, di appaesarsi, di orientarsi nel paesaggio.

Pensare il nostro tempo, ovvero l'impossibile. Creare il nostro tempo, ecco l'impossibile: dare una forma all'informe in un tempo che a tutto ha già dato forma, che ha appaesato ogni territorio, addomesticato ogni bestia, domato ogni fenomeno. Creare una forma in una miriade di forme, in una babele di linguaggi, in una lingua che è tornata brusio, una musica che è tornata rumore, una danza che si è risolta in violenza: questo l'impossibile a cui siamo chiamati. Un tempo che ha fatto briciole di ogni limite, che ha trasformato ogni confine in soglia di indistinzione, un tempo in cui l'eccesso di paesaggio si è rovesciato nel suo contrario, divenendo il più spaesante dei territori.  

“Antropocene”, è un neologismo oggi molto in voga tra gli addetti ai non-lavori intellettuali. Critici e pensatori si sono trovati d'accordo nell'additare la nostra come un'epoca in cui il grado di antropizzazione, ovvero di addomesticamento di territori selvaggi, ha raggiunto un livello tale da esercitare un impatto negli ecosistemi naturali, facendo dell'uomo e delle sue attività un agente climatico e geologico a tutti gli effetti. Una teoria molto affascinante, non vi è dubbio, comprovata da una mole considerevole di dati, che ha ispirato un'ampia serie di riflessioni, il cui spettro varia dagli scenari più foschi dell'apocalittica new age alle prospettive ireniche di un trionfo della civilizzazione.

Non è questo il contesto per prendere posizione su tale modello diagnostico, e oltretutto mancherebbero le competenze per farlo. Limitandomi ai miei strumenti di bordo, però, posso cercare di considerare tale fenomeno nello spettro più ampio della scienza della cultura, una cultura che, col concetto di antropocene, arriva a pensarsi come unico orizzonte di esperienza possibile, avendo progressivamente rotto l'argine che la separa da ciò che essa non è, avendo essa consumato, assorbito, superato e conservato (aufgehoben, direbbe Hegel) il proprio antipolo dialettico. Ma l'addomesticamento del territorio, la progressiva messa a produzione dei terreni incolti corrisponde realmente col pieno dispiegamento della civiltà? Se, come dice Warburg, l'atto fondativo della civilizzazione – un atto che non è mai dato una volta per tutte, ma deve sempre rinnovarsi a ogni giro della giostra della storia, un 'atto di cui siamo tutti, di volta in volta, responsabili e testimoni – è l'istituzione consapevole di una distanza tra l'io e il mondo, la coscienza di una differenza, di uno scarto, di un dislivello, cosa resta della civiltà nel momento in cui tale distanza, che Warburg chiamava “spazio per il pensiero”, si trova a essere assottigliata, dispersa, diluita? Non vi è forse il rischio che il paesaggio urbano, o i paesaggi virtuali della arti, delle scienze e delle religioni, mediatori originari tra l'io e il mondo, tra la comunità degli uomini e quelle che Warburg chiamava “forze del destino”, si rivoltino nel proprio contrario, trasformandosi a loro volta in un territorio spaventevole in cui gli uomini faticano a trovare le rotte del senso?

Come testimoniano gli esempi precedenti, il processo di appaesamento non coincide affatto, in linea di principio, con quello di antropizzazione del territorio. Il pellegrino tibetano non si orienta tra le valli himlayane costruendovi autostrade, e come lui il nomade aborigeno, che trova il suo cammino nel deserto sul filo impalpabile delle songlines e non seguendo un nastro d'asfalto. È notizia recente che il governo cinese abbia in progetto di costruire una strada carrozzabile lungo il periplo del monte Kaylash, al confine col Nepal, la montagna sacra per eccellenza, il leggendario monte Meru della Bagavad Gita, da cui scaturiscono i quattro grandi fiumi dell'Asia, luogo di pellegrinaggio per i fedeli Indù, Buddisti, Bon e Giainisti, i quali vi affluiscono dalle regioni più remote del continente, e la cui circumambulazione rituale (kora) costituisce una tappa cruciale per il loro cammino di elevazione spirituale. Per le autorità cinesi, la carrozzabile rientra in un piano complessivo di sviluppo nazionale, volto a trasformare la regione autonoma del Tibet, adesso che è stato connessa al resto del paese grazie all'opera titanica della linea ferroviaria Xining-Lhasa, in una meta di attrazione turistica, offrendo ai visitatori la possibilità di fare esperienza del venerando pellegrinaggio in poche ore di gita a bordo di un minivan. Da millenni il Kaylasch è stato sottratto alla cruda indifferenza del territorio per diventare un luogo di culto, e quindi di cultura, dove proliferano i segni dell'uomo, dalle splendide preghiere in sanscrito cesellate nelle pietre a bordo cammino, agli stupa, ai gompa, alle immancabili bandierine colorate che affidano al vento i voti dei fedeli; semplicemente, un luogo, ritagliato nella muta presenza dello spazio naturale, fatto, come ogni luogo, di nomi, di gesti, di storie, di leggende, di persone, di incontri, di regole, di divieti (solo pochi iniziati, ad esempio, sono ammessi al cosiddetto “periplo interno”, un cammino di raggio inferiore, prossimo alle pendici della montagna e a nessuno è consentito scalarne la vetta, divieto a cui anche gli alpinisti occidentali si sono sempre attenuti).

Il suo “appaesamento”, dunque, il complesso di pratiche e di tradizioni con cui le comunità umane lo hanno caricato di senso inscrivendolo nei loro costrutti simbolici, ha origini remote, e non ha niente a che vedere con il processo di antropizzazione promosso dai piani di sviluppo economico del governo cinese. Per il solo fatto di avere un nome, il Kailash è già paesaggio, e non più territorio, mentre la strada asfaltata, dandolo in pasto al più volgare turismo di massa, distruggendo la “distanza” che rende sacro questo luogo, e con essa la sua cultura, la sua autentica civiltà, lo riconsegna all’indistinto, rendendolo un’immagine tra le altre, un’icona da sbattere sulle brochures degli alberghi (ne ho viste con i miei occhi, durante un viaggio nella regione cino-tibetana del Sichuan, di gite organizzate tutto-compreso in fuoristrada per pascolare i turisti attorno alla “montagna sacra”) accanto alle pubblicità del Taj Mahal, o del palazzo del Potala a Lhasa, i grandi brand dell’immaginario turistico centro asiatico. Immagini  da consumare sul mercato che il turismo fa dei luoghi, degli incontri, delle emozioni, degli eventi, livellando ogni possibile esperienza alla sola dimensione del godimento scopico, come fa la pornografia col sesso: una pornografia del paesaggio.

La teoria dell'antropocene, allora, sembra porre alla nostra cultura molti più problemi di quanti non ne risolva, dal momento che il processo di antropizzazione, quando si impone in maniera violenta su un territorio precedentemente conquistato attraverso un lento processo di “appaesamento”, tende a produrre, paradossalmente, l'esito opposto, vale a dire lo spaesamento, distruggendo le coordinate di senso che si erano strutturate nel lento corso dell'abitazione del luogo. L'antropizzazione, azzerando i significati simbolici, distrugge i luoghi, ritrasformandoli in un territorio indecifrabile.


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