Pensare il pleistocene
di Francesco Gori

Se dovessi scegliere tra la verità e Cristo, io sceglierei Cristo
F. Dostoevskij


Pensare il pleistocene significa pensare un dopo della civiltà che non sia l'apocalisse.

La civiltà agraria (in termini biblici: l'agri-cultura stanziale cainita che ha assassinato la mobilità pastorale di Abele) ha prodotto benessere, ma anche feudi e latifondi, schiavismo e diseguaglianza. Da che esiste si sostiene sul mito dell'apocalisse, lo spettro del crollo, che in termini politici e sociali non è altro che la perdita del privilegio.


In termini teologici, il potere costituito, lo status quo, è quello che Paolo chiamava Katechon, il "potere che frena", capace di ritardare il dispiegamento del mysterium iniquitatis, e cioè, la venuta dell'anticristo e la fine della civiltà.

Pensare il pleistocene significa disinnescare il dispositivo dialettico civiltà|barbarie, civitas|selva, su cui si basa la grande narrazione dell'agri-cultura capitalista, in tutte le sue varianti, dall'accumulazione del grano a quella dei titoli finanziari.

Tale dispositivo si fonda sullo spettro del crollo, della perdita della posizione e della proprietà, da agitare di fronte alle masse per renderle docili al controllo.

Come mostra Dostoevskij nella Leggenda del Grande Inquisitore, il potere catecontico si innesta su una radicale sfiducia nelle risorse dell’umano, sulla convinzione che privi di una guida gli uomini sarebbero sopraffatti dal mistero del male e si getterebbero nell’abisso come un branco di lemming. L’agape di Gesù, la sua fiducia incondizionata nell’uomo (e non nell’umanità, intesa come civiltà), sono lo scandalo che il Grande Inquisitore-Katechon non può tollerare, perché sottrae le fondamenta su cui poggia il suo potere, rivelando il vuoto su cui si sostiene. Per questo lo condanna a morte. E Cristo, tace, e come unica risposta “si avvicina al vecchio Inquisitore e lo bacia sulle sue vecchie labbra esangui”.
 
L’apocalittica è l’autentico dispositivo politico della civiltà, l’unica risorsa di legittimità a del potere. All’interno della civiltà, non c’è potere politico che non si presenti come “catecontico”, che non rivendichi legittimità nella promessa di “frenare l’apocalisse”.   

Come ogni dispositivo biopolitico, l’apocalittica è anche un dispositivo ermeneutico: una macchina per interpretare e giudicare l’esistenza propria e altrui. Il Katechon è giudice, il giudice è Katechon: la civiltà non è che un’ora di religione, una lezione di catechismo.

Come dispositivo ermeneutico, l’apocalittica la ritroviamo ogni giorno sulle colonne dei quotidiani, nei report statistici, nelle conferenze sul clima, nelle parole degli economisti, dei politici, dei professori universitari, degli psicologi, degli opinionisti e degli astrologi da talk show: il discorso della civiltà, oggi come ieri, è il discorso del Katechon, che agita il pericolo del crollo sulle teste dei propri sudditi.

Con una differenza. Oggi, sulle “vecchie labbra esangui” dei gerontocrati che guidano la Civiltà, particolarmente loquaci nel nostro Belpaese, questo discorso ha assunto i toni sconsolati del lamento per un crollo già avvenuto. A loro dire, le generazioni dei nati a partire negli anni ’80, sono perdute.

Nato nel 1983, io, per loro, sono figlio senza vita di questo crollo. “Generazione y”, “Generazione ∞”, “generazione cavia dell’Italia in crisi” “generazione perduta”, “generazione che non ha vissuto”, “quelli che non avranno mai un futuro”: sono solo alcuni degli articoli generati automaticamente quando si digita su google “generazione nati anni ‘80”. Così si esprime l’inconscio della Rete.

Statisticamente, economicamente, politicamente, sociologicamente, astrologicamente, io non esisto. Non esisto perché non ho un lavoro stabile, un’identità civile riconoscibile, la prospettiva di una pensione, etc. Questo dicono loro, perché hanno paura, di me, della discontinuità che incarno, del mio essere radicalmente altro da loro. Paura del diverso.

Il vangelo che porto, però, è che nonostante tutto, nonostante la loro paura, io esisto. Esisto perché sono vivo, qui e ora, e perché il mondo non crolla, e non può crollare, così come le città non finiscono, ma cambiano funzione, e vengono abitate in maniera differente. E come vengono abitate oggi? Sempre meno in un'ottica stanziale e sempre più in maniera fluida, impermanente, progettuale, contingente.
        
Le città oggi sono diventate luoghi di attraversamento in cui si incontrano gruppi di interesse trasversali, che non sono propriamente deterritorializzati (e cioè "immateriali", "virtuali"), ma rivendicano diritti indipendentemente dal territorio su cui si trovano a operare. E' qui che incontriamo il paradosso della rappresentanza: sempre più spesso ci troviamo a eleggere politici che non ci governano e a essere governati da politici che non abbiamo eletto.

La mobilità non è più una questione da dibattere, ma un elemento strutturale della nostra forma di vita, che richiede delle soluzioni pratiche, qui e ora. L'antieuropeismo in cui non possiamo non riconoscerci è una naturale reazione alla politica predatoria della Germania sul resto d'Europa. Il modo per avversarla, però, non è il movimento dei forconi, o la spiga che ride dei neorusticani, ma l'esatto contrario: rivendicare un'effettiva cittadinanza europea, al di là dei campanili e dei confini.

È questa la cittadinanza dell’avvenire, un avvenire che noi “fantasmi” degli anni ’80 stiamo costruendo artigianalmente da anni, segretamente, silenziosamente, con pazienza da carbonari, nonostante le difficoltà, nonostante i loro proclami di catastrofe.

In Italia non esiste un politico che abbia la nostra formazione. Non la formazione didattica, ma di vita: esperienze lavorative delle più disparate, multilinguismo, erraticità, partner di altri paesi, etc. Per questo è un paese completamente alla deriva, come un barcaiolo che rema da un solo lato e non fa che girare su se stesso. Un paese che non riesce a riconoscere di essere già cambiato, e non si rende conto che l’apocalisse non è uno spauracchio da agitare, ma un ricordo del passato.

A Berlino, a Palermo, a Chicago, a Orvieto, a Parigi, a Milano, a Trento, a Santa Teresa di Gallura, a Filicudi, a Istanbul, nelle campagne del Chianti, ho conosciuto decine, centinaia di persone in questa condizione, anche con backgrounds diversissimi dal mio, ma tutti accomunati dall'essere neobabilonesi, semistanziali, semi-urbani, spiritualmente nomadi. La loro (la nostra) vita non si fonda e non si proietta in un legame tellurico, non pensa nulla in termini definitivi, se non i propri progetti e le proprie relazioni di amicizia, di lavoro, d’amore.

Gli amanti nomadi passano di riparo in riparo, di tenda in tenda, di territorio in territorio, fondansi sul vincolo delle loro relazioni, del patto d'amore, non sull'edificazione di una casa in pietra.

La nostra civiltà non costruisce con la pietra. Spesso non costruisce più (e infatti gli architetti se ne vanno a spasso), ma ricostruisce, riconverte, riadatta spazi e strutture, abitandoli diversamente, spesso in via provvisoria. Tra costruzione e abitazione non c’è nemmeno una lontana parentela, anche se hanno voluto farci credere che fossero sinonimi.

Cosa significa, oggi, "casa"? Sempre più, si risponderà indicando "chi" è casa piuttosto che "cosa" lo è. "Casa" sono le persone che amiamo, ovunque si trovino e ovunque ci troviamo. Questo non significa – come, ahimè, spesso accade – che casa sono i nostri contatti facebook, laddove la nostra quotidianità è un deserto relazionale. Significa che la casa non è fatta – perché non è mai stata fatta, oggi come sempre – di pietre, ma di relazioni.

Relazioni amorose, amicali e lavorative. Relazioni, sopratutto, rispetto alle quali il luogo passa in secondo piano. Non perché non abbia importanza, ma perché non è più un dato a priori ma qualcosa che viene scelto, sulla base di priorità relazionali.

Questo è il rapporto col territorio che hanno i cacciatori-raccoglitori del pleistocene, o i pastori nomadi o semi-stanziali, che si spostano stagionalmente in base alle loro necessità e abitano i luoghi in modo leggero, dialogico, adattandosi a essi non più di quanto non li adattino retroattivamente alle loro esigenze.

Che si tratti di territori cosiddetti "naturali" o "urbani", le modalità di appaesamento rimangono le stesse, per due motivi: 1) perché, almeno in Europa, la wilderness non è che una favola, un antispazio narrativo necessario per poter sopportare il “deserto del reale” in cui viviamo, uno sfondo catartico su cui redimere le figure sbiadite delle nostre esistenze; 2) perché, in entrambi i casi, abitare consiste in un insieme di pratiche relazionali che ci permettono di sentirci appaesati nei luoghi perché appaesati in noi stessi.  

Pensare il  pleistocene, dunque, significa pensare un'evoluzione della civiltà agraria che non sia un crollo, un'apocalisse, ma un riorientamento delle forme di vita, un'affermazione di nuovi valori, un esercizio di pratiche inedite, che hanno una singolare convergenza con le modalità di vita delle popolazioni cosiddette pre-civili (o lontanissime nel tempo, o attualmente viventi in angoli remoti del pianeta).

Pensare il pleistocene significa riaffermare il potere trasformativo dell’utopia, e fare della nostra resilienza alla crisi della civiltà una forma di vita, una via di esistenza, per convertire l’incertezza in risorsa, lo sconforto in speranza.

Se si intende il modernismo come un movimento culturale storicamente definito, allora, non possiamo che essere antimodernisti; se, invece, la modernità si intende etimologicamente come “tempo presente”, come qui e ora, il nostro non è che un tentativo di comprenderne l’immaginario, i sogni e le paure, e di cercare delle immagini “autentiche” per orientarci nell’avvenire. “Autentiche” non significa necessariamente “veridiche”, ma capaci, come scrive Meschiari, di raccontare una storia, di esprimere un ideale, di dare una direzione al nostro viaggio.  

Queste immagini le sceglieremmo anche fossero palesemente false, perché tra il Grande Inquisitore e Gesù, tra il potere della verità e la potenza della fede nell’uomo, sapremo sempre da che parte stare.

Il paleolithic turn è un’immagine di questo genere, che non ha nulla di antimoderno, retrogrado, antiprogressista, ma che, al contrario, ha un’ambizione spregiudicata e visionaria, “avveniristica e arcaica” al contempo: l’ambizione di restituire un paesaggio agli spaesati, che vagano nella confusione. D’altra parte, come diceva Henry Miller, “confusione è solo parola inventata per indicare un ordine che non si capisce”…




Nessun commento:

Posta un commento