ARCIPELAGHI NELLA MENTE
di Matteo Meschiari

[testo apparso sul Manifesto il 17 agosto 2016, qui in una versione rivista e corretta]. 

Primo arcipelago. La Navigatio Sancti Brendani è un’opera latina del X secolo che, ricalcando gli antichi racconti celtici di navigazioni per mare, detti immrama, narra la storia di un gruppo di monaci irlandesi che si abbandona alla deriva, anno dopo anno, in un arcipelago sconosciuto e fantastico. Nel perfetto stile medievale che mescola mostri e realtà concreta, assistiamo a una lunga carrellata di mirabilia e morfologie insulari dettagliate. Questo, assieme a molti altri elementi, ci spiega l’enorme fortuna letteraria di un testo capace di ispirare, a detta di alcuni, anche l’opera di Dante.

I manoscritti che tramandano la Navigatio sono numerosi, con versioni latine, antico-francesi, italiane, addirittura venete, e formano a loro volta una specie di arcipelago che collega, in una rete di viaggi e di storie, monasteri, scriptoria, corti feudali. Questo ci invita a guardare la Navigatio più da vicino: il viaggio per mare non è soltanto un’avventura esotica ma è la messa in immagini del processo cognitivo stesso, del cammino complesso e avventuroso che porta la mente umana alla conoscenza di sé e del mondo. Se infatti esaminiamo la struttura del viaggio, ci renderemo conto che corrisponde a un processo dinamico circolare, dove i monaci incontrano ogni anno i medesimi luoghi, ma ogni volta la loro conoscenza del cosmo si allarga con la scoperta di una nuova isola. Il viaggio sembra imitare un modello asintotico, un progressivo e mai concluso avvicinamento al sapere: come il racconto della navigazione procede a livello narrativo e retorico attraverso ripetizioni e variazioni, così il processo cognitivo opera una lettura e una rilettura del mondo che aiuta a coglierne le affinità e le varianti sostanziali, aggiungendo a ogni nuovo passaggio qualche pezzetto sconosciuto. Il testo s’innesta su una struttura ripetitiva in cui le varianti si infittiscono per accumulazione, mentre il paesaggio arcipelagico si definisce in modo relazionale nascendo dall’eco che un’isola fa all’altra, in un rapporto di consonanza e assonanza, di affinità e differenza che diventa via via più complesso. In questo intreccio a molte aperture, si passa in modo insensibile da una morfologia geografica (topografia) a una morfologia del pensiero (topologia), dall’isolario (medievale) al rizoma (postmoderno), dal mondo materiale all’idea di mondo o, come si usa dire, dal landscape al mindscape. Con peripli che somigliano a messe a fuoco progressive, il portolano immaginario di Brandano diventa una imago mundi dove tutto è aperto e dove tutto ritorna al punto di partenza, un paesaggio che tradisce le attese umane e che sembra sottrarsi a una dimensione lineare del tempo e della storia. Proprio come la realtà (specialmente dopo Heisenberg) che a ondate circolari si mostra e si sottrae ai nostri sforzi di conoscenza. Prima di Gilles Deleuze e Félix Guattari, prima di Michel Serres, la forma dell’arcipelago ha dunque suggerito a un monaco medioevale un paradigma rizomatico e geografico del sapere, fissando al tempo stesso il legame indissolubile, ancora oggi valido, tra operazione cartografica, narrazione e organizzazione della conoscenza.


Secondo arcipelago. Charles Darwin, in Le barriere coralline, loro struttura e loro distribuzione (1842), si adoperò a confutare una vecchia tesi secondo la quale gli atolli del Pacifico erano di origine vulcanica. Il suo metodo euristico consisteva nel prestare grande attenzione alla distribuzione delle unità e degli elementi. Per farlo si dotò di una carta nautica e di alcuni colori. Darwin colorò di blu le isole-lagune, di rosso le barriere coralline che costeggiavano i continenti, di vermiglio i vulcani. In questo modo poté notare una divisione zonale netta: il blu non si mescolava mai con il vermiglio. Conclusione: le isole-laguna non erano i resti di antichi vulcani ma emergenze della barriera corallina. Geomorfologia, semiotica, macchie di spazio e di tempo. Darwin stava gettando le basi metodologiche per le successive osservazioni alle Galapagos, quando un famoso arcipelago sarebbe diventato una famosa teoria, quella dell’origine delle specie, dove spazio e tempo, geografia e storia, geologia e biologia, racchiusi in un unico modello, avrebbero aiutato la modernità a ripensare il mondo e a trovare se stessa.

Terzo e quarto arcipelago. «Il passaggio a Nord-Ovest mette in comunicazione l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico attraverso le fredde regioni del Grande Nord canadese. Si apre, si chiude, si contorce attraverso l’immenso arcipelago artico frattale, lungo un dedalo complicato alla follia di golfi e canali, di bacini e stretti, tra il territorio di Baffin e la terra di Banks. Distribuzione aleatoria e forti costrizioni regolari, il disordine e le leggi». Serres, in Passaggio a Nord-Ovest (1980), cerca ancora una volta un ponte tra rappresentazione geografica e mappa dei saperi, tra caos complesso e ordine modellizzante. Lo stesso accade in Che cos’è la filosofia (1991), quando Deleuze e Guattari ipotizzano che il grande arcipelago frattale ellenico è stato “assorbito” dalla filosofia greca. Isomorfismo, omologia, omotetia. Una specie di autosomiglianza tra terra e mente e un’idea “turbolenta” della complessità, in cui sono appunto le correnti marine a stringere a sistema le isole. Infine, il tentativo di superare la metafora geografica per parlare invece, come faceva Gregory Bateson, di una “struttura che connette”, di una continuità dolce tra il mondo delle cose e il mondo delle idee. Non un arcipelago allusivo del cosmo, quindi, ma un cosmo-arcipelago che allude a se stesso. Navigazioni. Derive. Lavori in corso…

Geognostica, geoantropologia, geofilosofia, geopoetica. E quattro arcipelaghi scritti che ci insegnano che nelle mappe, quello che veramente conta, è ciò che non c’è. Perché quello che manca va pensato, desiderato, immaginato. La terra incognita di un tempo, lo sappiamo, è migrata in altre zone del sistema solare, o molto più in là, in qualche cortocircuito interstellare, ma se torniamo al qui-adesso, se stendiamo una mappa di carta sul tavolo di cucina, qualcosa di irriducibile accade: tra un declivio e una cresta, tra un verde che dice bosco e un azzurro che dice lago, tra Floreana e Baltra, ci sono vuoti abissali. In questo abisso minimo sta il lavoro dei cartografi dell’immaginario, il cui compito non è riempire un qui di dettagli, ma dilatare l’altrove, lanciare il sasso del pensiero oltre il fosso dell’incamminabile: Brandano, Darwin, Deleuze. Un vero e proprio lavoro cosmografico, fuori dai calcoli, che in modo carsico ha a che fare con i dipinti di una grotta paleolitica (arcipelaghi animali), con le scritture naturali dei Presocratici (arcipelaghi elementari), con gli schemi corporei e l’empatia (arcipelaghi neuronali). Mentre la fisica lavora alle verifiche di intuizioni poetiche, l’altrove si allontana nel tempo, nello spazio. La sua resilienza visibile è la traccia possibile di qualche naturalista navigante. Come definire una geografia dell’altrove? Come attingere a un altrove per tracciare portolani del qui e dell’adesso? Arcipelaghi. Mappe funzionali della corteccia cerebrale. Ancora arcipelaghi.


Nessun commento:

Posta un commento