New Babylon

di Francesco Gori

Ricordate le soirées dada, le deambulazioni dei surrealisti, le derive urbane dei situazionisti? Per tutto il ventesimo secolo le avanguardie hanno immaginato un futuro nomade, erratico, fatto di spazi urbani cangianti, dove nulla è ciò che sembra e ogni angolo, ogni strada, ogni piazza può trasformarsi nel luogo di un evento, di un incontro, di una situazione.


La situ-azione – l’azione di situarsi, che rende uno “spazio”, liscio e neutro, un “luogo”, striato, denso di emozioni, gravido di incontri – è la risposta che artisti e intellettuali del ‘900 hanno dato a quella che secondo Marx è la grande piaga della civiltà industriale: l’alienazione. Con l’aumento esponenziale della produzione e dei consumi, nel volgere di poche generazioni la geografia dei grandi agglomerati urbani è stata stravolta, e quelli che un tempo erano luoghi di scambio e di incontro personale – le strade, le piazze, le chiese – hanno lasciato il posto a spazi di transito per grandi masse anonime.

Negli anni ’90 l’antropologo Marc Augé divenne famoso per aver dato un nome – nonluoghi – a queste terre di nessuno che stavano divorando le nostre città: aeroporti, shopping mall, banche, catene di fastfood, etc.. La sua analisi, però, soffriva di un vizio di fondo: identificava i nonluoghi con degli spazi fisici, laddove il nonluogo (al pari del suo fratello maggiore, il luogo) non è una cosa, uno spazio concreto, ma una forma di relazione, una modalità di vivere qualsiasi ambiente urbano, riducendolo a mero oggetto di consumo da parte di una massa anonima.

Qualsiasi luogo può diventare nonluogo, può essere cioè fruito nelle medesime modalità di un terminal aeroportuale o di un fastfood: il fenomeno del turismo di massa, ad esempio, oggi in ascesa esponenziale,  mobilita miliardi di persone (la sola Cina ha un volume di turismo interno di circa 2 miliardi di unità annue…), che si spostano da un luogo all’altro del globo per il tempo di una fotografia, come cavallette che sciamano stagionalmente su città d’arte, siti archeologici, spiagge, canyon, luoghi panoramici. Nel turismo di massa i luoghi diventano meri oggetti di consumo estetico, la loro identità è lisciviata fino a diventare nonluoghi, anonimi spazi di transito per masse cangianti di individui che vi sostano per il tempo di una fotografia. È questo il destino di molte località di interesse turistico, siano essi piccoli centri come Riomaggiore o San Gimignano, ormai ridotti a scenografie disabitate, o intere città come Firenze e Venezia. 

I nonluoghi sono come il Nulla della Storia Infinita, che avanza divorandosi il mondo di Fantasia. 

Le avanguardie del ‘900, culminate col situazionismo negli anni ‘60, hanno unito le forze per arginare l’avanzata del Nulla. Deambulazioni, derive, psicogeografie, flash mob teatrali, film, letteratura, arti visive: hanno dispiegato ogni mezzo per combattere l’alienazione delle città occidentali, immaginando una città dell’avvenire dove donne e uomini sono svincolati dai lacci del lavoro, della religione, della famiglia nucleare, e conducono un’esistenza leggera e nomadica, punteggiata di relazioni liquide che si addensano e si sciolgono sulla base della condivisione di interessi. 

I situazionisti chiamavano urbanismo unitario questa città dell’avvenire, ludica, creativa, interconnessa, fatta di incontri fugaci e di continui detorurnements degli spazi, sempre pronti a cambiare di significato a ogni nuovo utilizzo, a ogni nuovo incontro di cui sono teatro.

Il  pittore e architetto situazionista Constant Nieuwenhuys ha dato un’estetica a quest’utopia urbanistica indiano-metropolitana, dipingendo e costruendo maquettes del suo mondo di Fantasia, che chiamò New Babylon. New Babylon era la città nomade del futuro: una sterminata città-tenda che copriva il mondo intero, sospesa su palafitte in modo che i suoi abitanti potessero transitare da un luogo all’altro utilizzando gli ambienti architettonici per condurre affari, fare incontri, vivere situazioni. New Babylon è l’utopia situazionista dell’urbanismo unitario diventa materia, una città-mondo fatta di luoghi di transito e architetture effimere come delle tende berbere.

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New Babylon oggi non è più un’utopia, ma la nostra realtà, la città in cui abitiamo, sia essa una metropoli o una manciata di case su uno scoglio in mezzo al Mediterraneo. La civitas globale di cui fanno parte le nostre città è la Nuova Babilonia immaginata dai situazionisti.

Scriveva Constant negli anni ‘70: “la struttura di New Babylon è quella di una rete […]. Indipendente dalla natura, il neobabilonese potrà creare a volontà il suo ambiente intorno. Le reti neobabilonesi rappresentano le tracce del suo passaggio sulla superficie della terra”. La Rete è oggi compiuta, ma non è una rete di infrastrutture come quelle immaginate da Constant nei suoi dipinti e nelle sue maquettes, bensì una rete di connessioni elettromagnetiche immateriali.

La città-rete sognata da Constant si è realizzata oggi sottoforma di rete-città: l’ “urbanismo unitario” con le sue reti urbanistiche, ha assunto una forma concreta nelle reti telematiche della civitas globale. Da urbanismo unitario a telecomunicazione unitaria: è questa la traiettoria storica di New Babylon, dall’utopia visionaria degli anni Sessanta alla realtà degli anni 2000.

Per noi odierni neobabilonesi l’urbanismo unitario dei situazionisti non è un sogno ma un ritratto della civitas globale in cui viviamo, fatto non di pietre e mattoni ma di circuiti. Se scrutiamo oggi tra le nebbie dell’avvenire quello che vediamo al di là delle mura di Nuova Babilonia non è più nemmeno una città, ma la selva del Pleistocene, una città vegetale, una città-foresta, o una foresta città, una Pleistocity.

Prima di conflagrare e perdersi nella selva, però, la civitas si sta ripiegando su se stessa, diventando un’unica massa in cui tutto si fonde, stili, culture, religioni, lingue. Come nella Babele biblica, anche la lingua di noi neobabilonesi è un risciacquo di lingue, un esperanto globale.

Il neobabilonese non costruisce con la pietra, e nella pietra non scolpisce le sue parole, ma affida i suoi messaggi all’oceano della Rete, dove si confondono in un mormorio indistinto, in un cinguettio.

Il neobabilonese non è un cacciatore nomade, sicuro dei suoi bisogni e delle sue capacità, in lotta per la sopravvivenza, ma l’abitante senza volto di una città-mondo che non conosce un fuori. Il paesaggio in cui conduce la sua esistenza è simile a una deriva situazionista: non risponde alle attese, disorienta, crea molteplicità incontrollate. La sua caratteristica è la molteplicità, la compresenza di infinite informazioni in ogni luogo e in ogni momento, come il Dio-sfera infinita di Meister Eckhart, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo. Il mondo è diventato un villaggio e ogni villaggio contiene in sé il mondo intero: il villaggio globale è la forma  New Babylon, quel che resta della civitas prima che torni la selva.

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Nessuna fantascienza aveva immaginato la Rete. Tutto è stato previsto, desiderato e sognato prima che si realizzasse, tranne quella che oggi è la forza che muove il mondo: Internet. Perché? Perché Internet non è una macchina, ma un medium, non è una cosa ma una relazione. Si possono immaginare macchine nuove prima di costruirle, come il Nautilus di Jules Verne, ma non nuove forme di comunicazione prima di averne bisogno. Fino alla caduta del muro di Berlino non si sapeva di aver bisogno di una rete di comunicazione globale, quando è caduto (1990) ci siamo accorti che ce l’avevamo già da trent’anni ed è bastato il World Wide Web per dare vita alla Rete (1991).

Scrive Constant: “Senza orari da rispettare, senza domicilio fisso, l’essere umano conoscerà necessariamente una vita nomade in un ambiente artificiale, interamente costruito”. Proprio quello che succede a noi neobabilonesi, con la differenza che lo spazio artificiale dell’autentica New Babylon – l’attuale civitas globale della Rete – non è artificiale in quanto costruito, ma in quanto virtuale. L’utopia reale della rete dell’urbanismo unitario è stata sostituita dalla realtà virtuale della Rete globale della comunicazione.

L’ambiente artificiale-virtuale apre opportunità impensabili – poter essere virtualmente ovunque, proprio a partire da qui, dove ci troviamo (now here) –, ma implica dei rischi altrettanto grandi: non essere più realmente da nessuna parte (no where), perennemente distratti dalla nostra vita online. D’altra parte, è sempre il solito vecchio libro da sfogliare: come diceva Rimbaud, il prezzo della modernità è che la vrai vie est absente.

Dada, il surrealismo, il situazionismo, il punk sono stagioni superate in quanto realizzate, e dunque integrate: aufgehoben. Il disorientamento, la frammentazione, lo shock sono oggi elementi organici del sistema dominante, che genera disorientamento per poter vendere orientamento, produce spaesamento urbano per vendere paesaggi incontaminati, evoca insicurezza per vendere rassicurazione, agita spettri di nemici per poter vendere identità e sicurezza. La sfida è imparare a orientarsi nella giungla della civitas globale al di là delle antinomie del potere, orientarsi positivamente.

“Nella società utilitarista la schiavitù delle masse lavoratrici è la condizione stessa della relativa libertà dell’individuo creatore. Se l’enorme potenziale creativo delle masse sarà un giorno risvegliato e messo in atto, quello che oggi noi chiamiamo ‘arte’ perderà ogni significato” (Constant). E’ quello che sta accadendo con la rivoluzione digitale, in cui le masse improduttive sono occupate a “creare”, a “esprimersi”, a dire la loro, immettendo contributi in Rete. Il consumatore e il produttore sono oggi fusi nella figura teriomorfa del prosumer, i cui contributi vengono stoccati dai grandi server di gestione dei dati e reimpiegati per estrarne profitto.

I sistuazionisti definivano vita ludica  la forma di vita della loro auspicata New Babylon, segnata da un continuo cambiamento di attività e relazioni: “la creatività delle masse, una volta liberata, impedirà ogni modalità fissa di comportamento. È nel cambiamento continuo del comportamento che si situa la vita ludica che è la vita di New Babylon”.

New Babylon è qui, adesso. Berlino, odierna capitale d’Europa, ne è il centro, “toy-city”, città ludica per antonomasia. I suoi abitanti sono mobili, frammentati, prevedibilmente imprevedibili, vanno e vengono, sono effimeri, sfuggenti, quasi impalpabili. I neobabilonesi sbiadiscono, perdono corpo per identificarsi sempre più coi loro profili social, siti internet, gallerie fotografiche; i confini della realtà fisica sfumano nella virtualità. La vrai vie est absente: la “vera vita” è assente, la “vera vita” è “l’assenza”, e cioè l’esplosione della presenza, del qui e ora, negli infiniti altrove della Rete.

Berlino è un luogo straordinariamente povero di stile e di ispirazione, dacché la grande maggioranza delle arti che vi si praticano ha la forma dell’intrattenimento. E non potrebbe essere altrimenti: come avevano previsto i situazionisti, a New Babylon non ha più senso l’esistenza di qualcosa come l’arte, col suo culto dell’individuo e dell’ispirazione, riservata a un’élite inoperosa, mantenuta e osannata dalla massa produttiva. Come dice Constant “l’arte non è che una forma storica della creatività”. Per questo alla base dell’arte contemporanea c’è un paradosso insanabile: con la realizzazione di New Babylon l’arte non ha più ragione di esistere.

L’arte è morta, lunga vita all’arte!

I centri nevralgici di New Babylon – come Berlino o la Silicon Valley – sono luoghi di messa produzione dei cosiddetti “creativi”. I creativi sono ciò che resta della creatività dopo che l’arte ha perso il suo ruolo storico. Sono produttori di immagini (art directors) e narrazioni (copywriters), proprio come gli ignoti pittori delle grotte di Lascaux e Altamira e i cantastorie che le popolavano. Grafici e pubblicitari, esperti di comunicazione e organizzatori di eventi, e cioè di “situazioni”: i creativi di oggi sono a tutti gli effetti situazionisti.

L’avanguardia storica del situazionismo era un prototipo dell’élite creativa di New Babylon. Ce lo conferma nelle sue confessioni il pubblicitario pentito Frédéric Beigbeder: La società dello spettacolo di Debord non manca mai sul comodino di ogni buon copywriter. È proprio vero, la storia si ripete sempre due volte, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa: Debord l’intellettualissimo, che si definiva con sprezzo “dottore in nulla” è passato suo malgrado alla storia come “dottore del nulla”, capofila e maestro dei venditori di fumo di tutto il mondo.

Quella in cui viviamo non è la “civiltà della tecnica”, ma la “civiltà della comunicazione”, dello storytelling e dell’image-making. La tecnica – l’industria pesante, la manifattura, l’ingegneria – viene necessariamente dopo.

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Negli stessi anni delle derive psicogeografiche e delle utopie urbanistiche dei situazionisti, Foucault parlava di eterotopie, “luoghi altri da sé”, spazi marginali, residui urbani dimenticati e resilienti, intimamente anarchici, riottosi a farsi integrare nel sistema. Con buona pace, anche le sue eterotopie sono state ingoiate nella realtà virtuale/virtualità reale dell’odierna New Babylon: oggi ogni luogo è “altro” rispetto a se stesso, moltiplicato all’infinito dalle possibilità di comunicazione e accesso all’ informazione dei suoi abitanti.

Le nuove tavolette (tablet e smartphone) nella tasche dei neobabilonesi, come è nella natura di tutti i mezzi di comunicazione, permettono di estendere la loro presenza virtualmente all’infinito, e al contempo la amputano, rendendola impossibile. Ogni “dove” di New Babylon è attraversato da infiniti “altrove”, ogni suo luogo è un’eterotopia.

Il sogno mistico di Meister Eckhart di una sfera divina con centro ovunque e circonferenza in nessun luogo può sempre tramutarsi in un incubo, il now here perdersi nel no-where.

Per Constant l’ “alienazione” di cui parlava Marx era dovuta a una mancanza di comunicazione: “è la società attuale che ci obbliga a isolarci, che ci impone la solitudine per mancanza di comunicazione. Ora, la comunicazione è la prima condizione della creatività. Attualmente, lo spazio sociale degli individui è estremamente limitato, e senza rapporti con lo spazio reale. A New Babylon questi due concetti di spazio si riscoprono grazie al fluttuare della popolazione”.

Ancora una volta vediamo come il tempo in cui viviamo abbia realizzato punto per punto il suo programma rivoluzionario, sovvertendolo sistematicamente. Qualsiasi odeirno copywriter sottoscriverebbe che “la comunicazione è la prima condizione della creatività”: non solo il progetto situazionista è stato recuperato dal capitale, ma gli ha dettato letteralmente l’agenda, il lessico di Constant è quello della new economy. Quello che Costant non poteva vedere – avendo immaginato New Babylon come rete urbanistica senza sapere che sarebbe stata realizzata come rete virtuale – è che le nuove forme dell’alienazione sarebbero state il prodotto paradossale dell’ipercomunicazione.

Le “situazioni” dell’odierna New Babylon, infatti,  avvengono sempre più in forma privata, in solitudine. Le nuove frontiere dell’università sono online, lo shopping è online, la banca è home banking, la posta è online, la spesa al supermercato è online, le arti e i mestieri si apprendono online con un tutorial di youtube. Questo genera immense opportunità di conoscenza e libera una grande quantità di tempo, ma per cosa? A New Babylon tutto è, potenzialmente, virtuale, la vita come la morte.

All’International House di Chicago uno studente è stato trovato morto nella sua stanza, il cadavere era lì da due settimane. Aveva oltre 2000 amici su facebook. 

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New Babylon sono infiniti mondi altri in questo vecchio mondo in cui viviamo. Gli uomini sacrificano intere esistenze inseguendo sogni che non hanno mai sognato, sogni di benessere, sogni di gloria, sogni di redenzione. Il lavoro del pensiero, oggi come sempre, non è sulla realtà ma sui sogni, sulla teoria, non sulla pratica. Perché quando si arriva alla pratica è già troppo tardi.



1 commento:

  1. bellissimo il libro "futurismo paleolitico". specchio perfetto per chi ci si riconosce. ma un libro così profondo avrebbe meritato una forma tipografica adeguata, aspetto che ne rovina un po' l’esperienza.

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