Ceci n’est pas une ville




  





























 
 
Davide Barbarino, Senza titolo, 2013.


Ceci n'est pas une ville.

Le città non sono quello che sono, sono quello che qualcuno immagina dentro di esse per portarle, con tutto quello che contengono, via da qui, via da tutto. Non è questione di simboli e metafore. Simboli e metafore ci hanno stancato come il sale e lo zucchero. Non è neanche questione di senso o di assenza, perché si può essere presenti al sonno anche dormendo.

Con le città che ci abitano, l’unica cosa da fare è spostarle. Il resto è antropologia dello spazio, che ovviamente non ci interessa. Invece Davide Barbarino sposta le città. Ai gatti da poltrona si possono dare crocchette orientative: il primo Mondrian carote e fegatini, Mirò squame e lische di pesce, Klee trippa, Kandinskij patate. Per chi invece non si cura delle genealogie mitiche, e si accontenta di guardare, le città di Barbarino sono caravanserragli per darsi pace. Seguono due regole, A) una geometria polare di pieni e di vuoti, B) l’effrazione di pochi segni biologici, alberi, animali, allusioni di anatomie, geroglifici come icone fisiologiche. Capiamoci bene. Una cosa che bisognerebbe assolutamente inventare è uno specchio che una volta rotto cercasse un’anima. Quest’anima gli farebbe trattenere in ogni pezzetto di vetro l’ultimo frammento di ciò che rifletteva prima di rompersi. Se ad esempio era una città, dei pezzetti di città. Poi quella stessa anima comincerebbe a non rassegnarsi alla rottura, come una spinta neghentropica che preme i pezzi dello specchio a riavvicinarsi da soli, a cercare di combaciare in modo nuovo, in geometrie spezzate, generative, pluridirezionali, e tuttavia ancora famigliari, con resti di porte, finestre, tetti, scale, piazze, buche, abissi, angoli notturni, passaggi di animali, volti che si nascondono. Come portare le forme e le dinamiche di un ghiacciaio alieno nelle linee della città, investirla di una logica eraclitea del detrito, e rimontarla tutta in un lento origami di spazi in bilico. Le città presocratiche di Davide Barbarino lo fanno con eleganza femminile, quella autoanarchica e apofenica delle donne Mbuti quando dipingono le loro cortecce battute, e con una strana calma maschile, quella di un procedere musicale che gioca con gli inciampi prospettici, con i gradini scivolosi e i trabocchetti ottici, per sprofondare in cantina, per volare risucchiati via, dentro soffitte piene di vuoti, di soglie, di buchi-pieni. In queste mappe quantiche ci si sposta senza strade, per rovesciamenti dimensionali alla Escher, saltando come in un Gioco del Mondo su scacchi girevoli e reversibili. Le reti polmonari delle sue crescite lineari e cubiche, di Barbarino, del suo portolano, i giardini sobri, un albero, un cenno d’erba, i recinti di fiere paleolitiche domesticate in ideogrammi non aggressivi, Cioran, Boulez, Michaux, prendono Palermo, Parigi, Phnom Pen e le rifanno sulla luna di Ariosto, di Kubrick. Ci spostano con loro. Finalmente.




Matteo Meschiari

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