Svernamento







Svernamento
di Matteo Meschiari

Per i marinai obbligati a svernare nelle desolazioni del nord (la Groenlandia, la Nuova Zembla) febbraio era un mese decisivo. La luce aumentava promettendo l’arrivo della primavera e dei soccorsi, gli animali uscivano dalle tane, il peggio climatico era passato. Però, se l’alimentazione era stata povera di cibi freschi, e in genere lo era, lo scorbuto era a uno stadio avanzato: nelle loro capanne, illuminate con grasso animale, i marinai Olandesi del XVI secolo stavano morendo, ciascuno nella sua branda, senza avere le forze per soccorrere e confortare il compagno che era a un metro da loro.


Sono molti i resoconti di prima mano di questi svernamenti, e quello che ci colpisce è l’attenzione per il dettaglio, come l’olio con cui i malati si frizionavano le gengive annerite, le prove umane, nelle miserie e nell’abnegazione, l’intelligenza (o la fortuna) dei pochi, che veniva premiata ad aprile, con lo sciogliersi della banchisa e la possibilità di riprendere il mare in qualche modo. Chi ce la faceva pagava l’esperienza per il resto della vita, come alcuni sopravvissuti che, una volta tornati a casa, non riuscirono più a digerire il pane.

A febbraio, verso le sei di sera, Rue Claude Bernard è grigia come l’ardesia, come i cieli atlantici sopra Parigi, o come i calvari in Bretagna. Le luci alle finestre sono ancora di un giallo torbido, usato, e dietro i vetri ci sono vite che affievoliscono in silenzio. Svoltando però in Rue de la Glacière il clima si fa più caldo, e si possono immaginare i birrai Fiamminghi che lì, nel XVI secolo, pattinavano sulla Bièvre ghiacciata come in un quadro di Bruegel, i vestiti rossi e verdi, l’odore del malto, le luci delle locande e la risacca di voci all’interno. Ma ecco Boulevard Arago, più buio, più largo e gelato, e allora si vedono distese piatte battute da vento e nevischio, mentre in Rue de Tanneries, dove sverno e scrivo, c’è nell’aria un odore di cuoio, di corpi, e anche se è mattino fa buio.

Svernare. Non si tratta di uno svernamento solo mio. Non ho compagni da aiutare, certo, (ne ho già abbastanza delle mie gengive), ma in questa stanza in Rue des Tanneries c’è tutto il Novecento che è riuscito a passare il grande solstizio d’inverno. Ho in mente solo qualche faccia, solo qualche libro. Alcuni sono morti, come Artaud, su quella branda laggiù, ma lui non lo lasciamo agli orsi, lo riportiamo a casa. Da Montale a Sanguineti non si sa nulla, qualcuno li ha visti là fuori, e qua dentro non sono entrati mai. Anche Calvino non ce l’ha fatta, ed è un peccato, perché sapeva cucinare con poco. Chi resta, invece, non parla quasi italiano, e questo è un problema. Ma preferisco una capanna a nord piuttosto che tutte le bettole di scrittura tra Genova e Trieste.

Intendiamoci. Parigi non è meglio. Anche qui la scelta radicale va cercata a Ivry, in un asilo psichiatrico, o in alcune righe di Le vent d’hiver di Roger Caillois. Ma se si vuole parlare realmente con qualcuno c’è Gaspar, o io non ne conosco altri. Ero da lui una decina di giorni fa, e gli parlavo di ghiacciai, di Parigi, e mescolavo immagini e luoghi, e il mio personale problema di scrittura con i problemi della scrittura in generale, e con quelli della scrittura contemporanea in particolare che, volendo, sono enormi. Però Lorand Gaspar ha un’età e un’umiltà tali da non prendersela troppo. In lui non c’è rabbia o amarezza. Parla di infinito, della relazione tra infiniti minori, come l’uomo, e l’Infinito non trascendente. In lui la comprensione del monismo corps-esprit è già azione, e intanto sa anche scrivere versi intensamente geologici, ancorati alla carne della terra. Sorride, restando vigile sui nodi di dolore, e risponde alla mia impazienza come chi è tranquillo delle cose in sé, come chi ha rinunciato a penetrare l’impenetrabile e si accontenta, in odore di santità spinoziana, di essere uno dei poeti più profondi in un secolo generalmente piatto. E io lì, sulla poltrona sfondata, immagino anche il suo lato privato, la sua vita di medico in Tunisia, lo sguardo dei malati che hanno trovato nel suo sguardo un granello di sabbia al lavoro, per cominciare a erodere, per trascendere la sofferenza.

Torno in strada, nelle molte strade, torno ai ghiacciai anche, e sento che il mio svernamento personale sarà ancora lungo. Ma sento anche che, come ogni esperienza individuale autentica, è uno svernamento che ha qualcosa da dire, soprattutto per farla finita con certe faccende che mi fanno male. Una cosa che mi fa male è la marea di petrolio in Bretagna. Tornato in Francia a gennaio ho visto alberi sradicati ovunque, e nei parchi della città la segatura sull’erba. Ma questo è stato il vento. Sulla costa ovest della Bretagna, invece, è stato l’uomo, e per ragioni che senza troppe sfumature sono le stesse che hanno agito in Serbia o Albania. Una specie di foga biologica trasferita sulle cose, un desiderio selvaggio di roba. Per questo chiedevo a Gaspar in che luogo deve stare il poeta, se deve andare in Islanda e continuare a resistere parlando di ghiacciai, o se deve andare in Albania e parlare di gente, o in Bretagna, e parlare di cormorani impastati con la sabbia in un’unica cosa nera. La questione era mal posta, lo sapevo, ma per il momento mi veniva fuori così, e quello che ci siamo detti quel pomeriggio è stato qualcosa di molto umano, che aveva a che fare con un’idea di energia, non con una tecnica di azione.

Perché, certo, non parlo di poesia engagée o, ancor peggio, di ‘testimonianza’ intellettuale. Parlo di approfondimento della coscienza. Nell’urgenza dell’atto, il problema non sta nel cercare modi d’azione, ma nel cercare cosa, nelle nostre azioni minime, ha contribuito a grandi momenti di non senso e di orrore. I grandi disastri, penso, hanno seme nei piccoli disastri personali, nelle miserie minime dello spirito, e bisogna ammettere che chi va in Bretagna a pulire cormorani dal petrolio sta cercando anche qualcos’altro. Che senso ha tutto quel lavoro quando solo un quinto degli uccelli sopravvive? Uno dei volontari ha risposto che ha senso per la vita in sé. Ma io credo che dietro una frase così vera e così generale c’è anche qualcosa di più sottile. Quel tale, come me, stava parlando della propria sopravvivenza di individuo, contaminato per quattro quinti dalle proprie piccole miserie.

Invece, uscire dalla dialettica azione-contemplazione (che sulla carta dei miei spostamenti possibili vedevo come Albania-Islanda) è di importanza capitale. Personalmente l’ho fatto per qualche giorno in Bretagna, evitando di proposito la costa atlantica contaminata. Sono andato a nord, invece, nel distretto di Lannion, e dopo aver fatto visita a un altro poeta che sta svernando da quelle parti, ho raggiunto un paese in cui non ero mai stato. Lì ho trovato il tempo per fare molte cose, come camminare e scrivere e parlare con la gente, e quello che scrivo qui viene dalle mie camminate e da quegli appunti. Per capirne il senso, però, per capire perché mi sono messo a scrivere queste pagine e perché con esse ho l’impressione di farla davvero finita con certe faccende, devo riprendere un’immagine di costa. 
Tréstel è sulla costa di granito rosa, diciamo tra Perros-Guirec e Paimpol. Appena al di là dell’ultima cinta di case, case ordinate in cui si vorrebbe passare una stagione di buone letture, appena dopo l’ultimo lembo di prato o di cespugli spinosi fioriti di giallo, ecco i paesaggi veramente basici, dove risacca, marea, erosione, rumore, ci possono dare di sé solo un movimento sincopato, polmonare (acqua-pietra, acqua-pietra), e nient’altro, solo questo, con l’intuizione per noi di un’arborescenza di ritmi, in un mondo in cui tutto è ormai nudo minerale. Un minerale denso, e un minerale liquido che lo penetra nella sua struttura in disfacimento, un rosso e blu in intrecci di crescita e dissipazione. E allora, guardando, ascoltando, il nostro epilogo biologico ci è già alle spalle, ci lascia già più leggeri, ci ha già portati più in là, meno colpevoli, quasi, delle distorsioni assurde di cui siamo capaci come specie. Respiriamo. Ma non abbiamo più polmoni, siamo un corpo senza organi, e aderiamo alla materia della costa come la costa aderisce a se stessa.

Questa non è solo un’immagine, è un luogo concreto. Puoi camminarci sopra (l’ho fatto), o puoi stare seduto su uno scoglio, a guardare, o semplicemente a esserci. Ma troppa gente non capirà mai una cosa così elementare, o la capirà solo per qualche momento, e poi riseppellirà la propria coscienza in una mistica del lavoro idiota, o nella nevrosi eroica del pater familias. Sulla costa di granito, invece, ci si dovrebbe andare per lavorarsi, non per lavorare o per svagarsi dal lavoro, così come sulla costa di se stessi ci si va per entrare in quel terreno di “pietre morte” di cui parlava Artaud: “la terra e i suoi nervi, e le sue preistoriche solitudini, la terra dalle geologie primitive, dove si scoprono falde del mondo in un’ombra nera come il carbone” o dove scorre “la vita rumorosa delle forze nude dell’universo”. E intanto, e invece, tutto un reale inutilizzato resta senza risposta da parte nostra, perché piuttosto che rischiare e trasformare la nostra esistenza in una catena di stati-limite della mente, una mente al limite per intensità e penetrazione, aderente alla materia e al tempo relativo che la accoglie, preferiamo riempirci la bocca di parole come Storia e Umanesimo, senza capire che l’una e l’altra sono pure diminuzioni dell’umano.

Sono tutte le piccole storie che impediscono infatti alla Non-storia di manifestarsi in noi, con la sua gioia anarchica, fatta di terre senza linee di recinzione e di banchise gelate, quelle su cui soffia un vento che parla alla nostra carne e alla nostra mente della folgorazione prima delle cose. E tutto quel reale inutilizzato, che non può restare appannaggio solo di qualche spirito sublime, ma che dovrebbe aumentare la sensazione di vita di chiunque, è battuto costantemente da maree nere, venute dal ventre di una nave italiana prezzolata da una compagnia francese, o da una impresa letteraria italiana prezzolata da critici bolognesi.

Non è esagerato mescolare le cose? Parlare di problemi gravi come l’Albania, per cui a tutti noi intellettuali piange il cuore, o parlare di Bretagna, anche, e poi parlare di un’Italia la cui patologia culturale è solo una variante mediterranea della patologia occidentale diffusa, e cioè pesantezza di spirito e leggerezza di intenti? Perché prendersela tanto con i poeti italiani? No. Non me la prendo con loro. In verità io penso tutto il bene possibile della poesia italiana contemporanea, perché la poesia italiana contemporanea non esiste. E del Novecento italiano penso solo che sarebbe stato migliore, se solo avesse saputo scrivere una decina di frasi di quelle che sapeva scrivere Antonin Artaud. Ma non esagero, e non voglio farla finita con la gente sbagliata, giocando alla piccola guerra, al piccolo amore.

Parlo però di quegli scriventi che anziché dire di fosfori e rioliti parlano dei loro tegumenti psichici, e soffocano se stessi, e assassinano di noia i loro colleghi. Ce l’ho con loro perché non hanno un’aderenza organica alle cose, perché non hanno il coraggio di lasciarsi essere, perché preferiscono l’infimo dentro all’infinito fuori, in definitiva perché vanno in direzione contraria alla vita, e così facendo, visto che qui davvero non ci sono mezze vie, non ci sono sfumature, così facendo la uccidono la vita, anche con i loro pensieri in sedicesimo, anche con le loro pur piccole storie… Ma perché anche solo parlarne? Cos’è la marea nera in confronto a tanto oceano non contaminato? E pochi chilometri di costa, cosa sono, con tutti i milioni di chilometri che ci sono ancora? Rigiro la domanda. Non avete mai visto un cormorano danzare e tuffarsi, e la gioia del suo riapparire, come fanno a volte in noi certi pensieri, al balenare di un riflesso nelle correnti là sotto, e noi dietro, che andiamo giù, sempre più giù, e cerchiamo di prenderlo? Credete davvero che sia mescolare i piani? Non sono forse già mescolati da sempre, prima di me e di voi?

C’è un fatto: che gli orizzonti avvilenti ci crescono attorno non per colpa di armatori irresponsabili, ma per colpa di chi ha l’illusione di esistere come poeta. La sua responsabilità, così appartata, così neutrale alle cose, è più grossa di quanto né lui né voi siate disposti ad ammettere. E se in Europa è difficilissimo trovare poeti che hanno rinunciato alla propria psicologia marginale per parlare della terra nuda, è ancora più difficile trovarli in Italia, dove se il poeta ascolta la terra produce al limite poesia campestre, e se fa della poesia campestre lo fa per farsi giardinaggio in testa. E in genere quella testa è vuota. È vero. Amiamo tutti questo paesaggio italiano, fatto di campi e siepi, di ville perdute nella campagna e vacche al pascolo. Ma questo paesaggio è finito, e se non possiamo più entrarci dobbiamo uscirne, salendo a svernare a Parigi, in Bretagna, preoccupandoci di occupare il tempo che ci resta per rifarci, aprendoci come pesci sotto la lama dell’Eschimese, rovesciandoci all’immediato con tutto il coraggio che ci vuole. È la terra-legame, è la terra-azione che ci deve interessare, e la pura scriminatura del vento sul piumaggio freddo degli uccelli.

Tutte le poetiche del rinunciabile non sono adatte a organismi in stato di veglia permanente, ma vanno benissimo per pagare i capiufficio democratici e i piccoli maestri. Chi cerca una linea alta del pensiero non può perdere tempo ad alonare di stile i pochi fatti parziali, psicologici, patologici della sua vita. Deve cercare gangli di vermi magnetici, né più né meno. Deve cercare luoghi così vuoti d’umanità da togliere il fiato. Ed è lì che bisogna imparare a camminare, senza speranza di una meta, senza punti di riferimento. So perché ma non so ancora cosa. È questo che dobbiamo imparare a dire a noi stessi. Chi non lo fa, fa esattamente quello che accade, e intanto avvilisce chi ha fegato per fare diversamente. Ma in questo momento, in Italia, c’è uno dei più grandi poeti italiani di ogni tempo. Ha sedici anni e sta scrivendo cose che ci faranno vergognare del tenore insipido di tutto un secolo. Sarà considerato un grandissimo poeta per due ragioni, perché non avrà letto nulla del Novecento italiano, e perché avrà ricevuto direttamente dalla terra il senso profondo del suo dovere cosmografico. In questo momento sta partendo senza soldi per Parigi, perché si illude di trovare qualcuno che lo faccia sentire meno solo. Comincerà anche lui a svernare, ma al posto di una città vedrà morene e lingue glaciali.

Parigi, febbraio 2000

Nessun commento:

Posta un commento