Uccidere spazi - 2013





















Uccidere spazi. Microanalisi della corrida. Macerata, Quodlibet 2013.



Che senso ha fare corride oggi? Chi è lo spettatore della corrida nell’Europa contemporanea? Da almeno tre generazioni il Tardo Occidente aspetta una fine che non arriva e recupera spazi in disuso per allestire rifugi di fortuna. La corrida è una di queste camere ambigue, dove sistema e critica al sistema coabitano per necessità come il vecchio e la sua badante. Ma l’arena è anche una parentesi vuota: ogni epoca l’ha riempita di metafore che avevano senso in quel dato momento. Allora quali aporie, quali mancanze lo spettatore della corrida porta con sé oggi nel teatro della tauromachia? Che cosa accade nel corpo-mente di chi guarda uomini e tori che cercano di uccidersi a vicenda? Con queste note dissidenti su corpo, animismo e voglia di non-ritorno, l’autore raccoglie degli appunti sul campo e li monta in una pièce a due voci: quella del ricercatore che s’interroga sul suo oggetto di studio e quella di un pubblico di affezionati o di abolizionisti che scrive in rete verso un’apocalisse virtuale. Non un libro, ma una scatola di vetrini per un saggio clinico che non sarà mai scritto. Un modo di interrogarsi sul presente attraverso un corno di toro.




Recensioni

Tauromachia: L'anti-spettacolo che scandalizza
Marco Cicala «Il Venerdì» 29-11-2013.

Uno studioso italiano dedica alla corrida un saggio antropologico e super partes.

Chi ama la corrida dovrebbe smetterla di leggere solo libri e blog che lo confortano in quella sua passione. Se non altro per confutarle, dovrebbe immergersi nelle ragioni di quanti la corrida vorrebbero abolirla. E invece niente. Di solito «l'animalista attacca e l'aficionado tace» rileva giustamente Matteo Meschiari, antropologo, in Uccidere spazi. Microanalisi della corrida (Quodlibet, pp. 80, euro 12). Oltre ad addentrarsi in un tema spigoloso, sul quale in italiano la letteratura è praticamente inesistente, il libro ha un altro merito: l'esser stato scritto da uno che, da subito, si dichiara «indifferente» alla tauromachia come etnologia, storia, estetica… Semplificando: cultura. Se la corrida «fosse nata in Svizzera nel 1968, per me sarebbe uguale ». Ma allora perché dedicarle uno studio?
A Meschiari non interessa tanto il combattimento quanto il pubblico: «Chi va nell'arena ci va per trovare qualcosa che manca lì fuori». Ossia? «Cose che abbiamo paura che muoiano o che non abbiamo ancora capito che stanno morendo: morte dell'animalità, del corpo a corpo, della narrazione e del tempo, morte del selvatico e della dissoluzione fisica». Ora, tutte queste morti, la corrida non le mette in scena, ma le fa accadere. Concentrandole nell'uccisione - sistematica - del toro e, raramente, in quella del torero. Senti ripetere che le arene sono sempre più disertate dal pubblico. Ma anche quand'era in auge la corrida non ha mai avuto veri spettatori. Perché - sebbene imbrigliata in un sistema rituale di segni - «non è teatro». Non è uno spettacolo. E - per quanto possa esser stata oberata di metafore esistenziali, morali, sessuali… - spezza l'ordine del simbolico dove tutto sta per qualcos'altro.
È forse questa sua letteralità a renderla anacronistica, intollerabile agli occhi di una modernità dominata da rappresentazione, simulazione, virtualità e compagnia bella (non per niente, il grande matador José Tomás rifiuta che le sue corride vengano trasmesse in tv). Senza farsi apologeta della tauromachia, Meschiari nota pure come molti dei discorsi antitaurini risultino «eticamente lacunosi». «Stabulazione e trasferimenti concentrazionari, immobilizzazione, stordimento e mattazione sono ammessi, accettati e opportunamente rimossi dalla coscienza collettiva che decide di non considerarli maltrattamenti». Insomma, finiremo tutti antitaurini e contenti. Davanti alla televisone, e una bella bistecca.




Tauromachie, fra rito e paccottiglie
Eleonora Adorni «Il Manifesto» 06-03-2014


Parafrasando il grande antropologo francese Michel Leiris, la corrida, miscuglio di folklore e paccottiglie che affonda le sue radici nel passato gitano, è uno specchio. E allo stesso tempo è uno spazio ristretto, il ruedo, un avvenimento e una circostanza nella quale per un tempo breve e per una concomitanza di presenze - la bestia, il matador e il pubblico attorno a loro riunito - prende vita una rappresentazione terribilmente carnale, fatta di gesti ritualizzati, d'immedesimazione e di crudeltà ostentata. Il toro entra nell'arena e se è bravo corre lungo la barrera in «un'esplosione di rabbia e stupore». Uomo e animale così s'incontrano e da quel momento il primo può iniziare l'ingaggio con il secondo che anni di selezione delle ganaderias hanno reso un fascio di nervi e potenza pronto a esplodere in una catarsi collettiva. L'uomo si posiziona tra il bersaglio e la sua morte, sa che può morire ma sa anche che la bestia che lo sta puntando deve morire. Non c`è possibilità di fuga tra queste due ontologie. Mors tua vita mea. Che senso hanno oggi questi spettacoli? Chi è lo spettatore della corrida contemporanea? L'antropologo Matteo Meschiari ha raccolto in Uccidere spazi. Microanalisi della corrida (Quodlibet, pp. 80, euro 12) dieci anni di ricerca sul campo - quello tradizionale delle arene francesi, ma anche quello sui generis della rete (facebook, blog e siti dedicati alla tauromachia) affrescando un panorama sfaccettato e per nulla scontato. A discapito di un argomento in cui facile è cadere nella semplicistica diatriba di chi parteggia per il toro (la modernità che avanza) e chi per il matador (la tradizione che resiste), la corrida di Meschiari è una pièce teatrale dove non si cerca una verità (quello aspetta semmai al lettore resosi cartografo) ma di riportare un'intensità, innegabile data dalla forte partecipazione performativa di una comunità all'evento. L'interesse primario dell'antropologo diviene così l'occhio dello spettatore che, nella performance ardita che è la tauromachia, permette un'immedesimazione (embodimenn del pubblico nella pelle del toro e del torero, catalizzatori degli sguardi dell'arena che durante le due ore di spettacolo, diventano corpi da abitare e dove esperire coreografie, flussi di sangue e di umori, attese e dolore, poiché scrive Meschiari «la corrida è collaborativa nel senso che assistere fisicamente alla corrida significa fare la corrida». Si innesta così «un'ontologia circolare» che fonda per altro tutta la cultura taurina dove all'animale che esce dal toril, il varco che dalle stalle - il mondo ctonio - lo conduce nel ruedo - il mondo della sua identificazione come soggetto sociale - è riconosciuta un'anima e il potere di sondare i limiti antropologici dell'umano. Nel combattimento i confini del pubblico/torero si sfumano con quelli dell'animale in una sorta di continuum naturalculturale dove il toro è esortato all'attacco con l'appellativo di hombre! non secondo banali proiezioni antropomorfe ma mediante una riflessione e uno slittamento ontologico e non solo prospettico: ti assimilo a me. L'equilibrio di questa relazione instabile e teriomorfa si conclude quando il toro sbeffeggiato, ingannato, colpito più volte dalle banderillas dei picardor e dalla sciabola del torero, riceve stremato il colpo di grazia, unapugnalata nel bulbo rachidiano che liberandolo dalla sofferenza, permette il coito dell'arena. Nell'animale ucciso in modo codificato e cruento per Meschiari «vengono a galla alcuni tra i non detti più scottanti della contemporaneità» dove, tra infantilizzazione degli animali da compagnia e rimozione dalla coscienza collettiva di quelli sottomessi alle nostre priorità non c'è più spazio per «essere animale». La corrida diviene allora la mise-en-scène di un paradosso dove convivono, non senza difficoltà, discorsi antitaurini e aficionados, e dove la spettacolarizzazione della morte dell'animale permette all'uomo di porsi dinanzi alle sue infinite contraddizioni.




Uccidere spazi. Microanalisi della corrida
Fabiola Di Maggio «Studi Culturali» 01-04-2014


In questo secondo lavoro sullo spazio (il primo è Spazi Uniti d'America. Etnografia di un immaginario, Macerata, Quodlibet Studio, 2012) l'antropologo e scrittore Matteo Meschiari apre valvole di sfogo intellettualmente produttive nei meccanismi inceppati di un discorso che, come quello della corrida, si presta spesso a considerazioni banali e interpretazioni fuori luogo. Nell'arena editoriale italiana e, nell'ambito particolare degli studi culturali, siamo di fronte a un testo che costituisce una novità tematica e metodologica. Un saggio breve, ingegnoso e vigoroso, dove il dichiarato distacco dell'autore nei confronti dell'argomento, l'ampio spazio dedicato al pubblico delle corride, l'avvio inedito e coraggioso di una web writing anthropology (che riporta i linguaggi di un'arena virtuale, muta con gli aficionados e strepitante con le filippiche francescane degli animalisti) sono solo alcuni dei punti di forza che rendono questa microanalisi tagliente e stimolante. Che cos'è la corrida? È un luogo, come specifica Meschiari, all'interno del quale si trova uno spazio ellittico che «racconta sempre la stessa identica storia» e rappresenta una certa quantità di immagini fisse con varianti e sfumature lasciate al caso. «L'arena è uno specchio», non uno specchio nel senso utopico/eterotopico di Foucault, ma una macchina fenomenologica che riflette i processi cognitivi aptici dello sguardo dello spettatore. Si tratta di un'estensione/introiezione del corpo nello spazio e dello spazio nel corpo, ma più nello specifico di un embodiment della visione che riguarda non solo corpi, ma organi, azioni, autoproiezioni e narrazioni. L'autore riflette su tre aspetti inesplorati che si danno effettivamente nella corrida. Vediamo quali:
1) il rapporto animalità/animismo non nei termini di pietà animalista, ma come «autocoscienza umana», ovvero riconoscersi uomini nello scarto dell'animalità. «L'animismo è il sostrato strutturale della tauromachia, e l'arena è forse l'ultimo luogo in Occidente in cui all'animismo di bestie domate o digerite si oppone un animismo di essenza e resistenza». E se da una parte il lato selvatico del toro viene mascherato da un eccessivo simbolismo genetico-colturale di casta (l'animale è prodotto culturalmente da scelte umane), dall'altro si spettacolarizza la wilderness nella morte dello spazio. E anche quando il torero fa il toro hombre, il punto non è regalare brandelli di umanità al toro o di animalità all'uomo, ma dare anima e corpo alla corrida oggi, dove si violentano certe idee preconcette di spazio e se ne mette in scena l'abuso consenziente e la morte conseguente;
2) il rilevamento di una cultura visuale, performativa e narrativa fine a se stessa. La corrida mette in moto una fantasmagoria di immagini in praesentia e in absentia. Per esempio la fenomenologia percettiva giocata tra ciò che il toro ha davanti a sé (capo e muleta) e che crede essere il torero è una fiction che dura, creando lo spazio di con-fusione performativo tra i due agenti, fino a quando il toro vede il corpo vero del torero e a quel punto lo spettacolo e la storia devono finire: il toro e lo spazio devono morire. In questa dinamica visuale le forme dello spazio, nelle figure di attori e spettatori, raccontano immagini e le immagini rappresentano storie secondo uno storytelling in cui attorialità e autorialità si scambiano le parti. Una sintesi narrativa e performativa dove l'estensione del corpo e l'embodiment dello spazio d'azione tengono in piedi il gioco reale e proiettivo;
3 )il pensiero apocalittico: «chi va nell'arena ci va per trovare qualcosa che manca là fuori […] va verso la morte dello spazio e la fine dei tempi», perché la corrida «è un dove senza un verso, e senza un senso». E se «alla fine la performance è nel pubblico» vuol dire che la paura e il desiderio della fine e della morte si danno nello spettatore per un breve momento, nello spazio tra il corno del toro trafitto e il neurone specchio placato. E per un attimo il pubblico è laggiù nello spazio senza organi, disorganico, apocalittico, a guardare in faccia la morte che incorna lo spazio.
Nel suo esistere sovversivo e a-morale come «essere per la morte», la corrida è un dispositivo che funziona perché, mettendo in scena lo stesso meccanismo visuale, narrativo e performativo del teatro nel teatro, dilata e critica la realtà attraverso simulacri e maschere di senso contro il senso comune, biopolitico e claustrofobico del fuori.

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