Zecche






































Zecche 
di Francesco Gori 

Scrive Agamben, commentando le ricerche pionieristiche nel campo dell’ecologia del barone Von Uexkuell:


 “Senza un soggetto vivente il tempo non può esistere” (Uexkuell, p. 98). Ma che ne è della zecca e del suo mondo in questo stato di sospensione che dura diciotto anni? Com’è possibile che un essere vivente, che consiste interamente nella sua relazione col suo ambiente, possa sopravvivere in assoluta deprivazione di esso? E che senso ha parlare di “attesa” senza tempo e senza mondo? (Agamben, L’aperto, P. 52)

           

Sulla base della mia esperienza, questa domanda dovrebbe essere rivolta, così com’è, agli organi accademici e ai direttori degli istituti di ricerca e, più in generale, a gran parte delle istituzioni, politiche, economiche, sociali ed educative del nostro mondo che continuano a operare anche quando il loro ambiente si è esaurito. Il limbo d’ “attesa” in cui si trovano a languire gli individui coinvolti in tali istituzioni (un’istituzione è, a tutti gli effetti, una Umwelt nel senso di Uexkuell) sta assumendo oggi sempre più i tratti di un’escatologia negativa, un messianismo deserto, un’apocalisse paradossale, senza rivelazione, una ekpirosis senza germinazione dalle ceneri. Per questo s’affannano, uomini e donne, a tenere in vita ciò che è già morto da anni, forse da decenni, a puntellare, a rinforzare, perfino a sostenere con le proprie spalle, delle strutture ormai prive di contenuto, delle forme vuote e inutili: per allontanare il male assoluto, lo spettro terrifico di una caduta senza redenzione, di una morte senza trapasso, che lascerebbe le loro anime, ormai prive di corpo, a vagare inquiete per l’eternità tra le lande deserte di quel che un tempo fu il mondo.

È questo il volto deforme dell’odierno katechon, che trattiene il male non perché il vangelo possa diffondersi per le contrade del mondo, e le anime di tutti abbiano la possibilità di salvarsi, ma proprio perché  non vi è nessuna buona novella, nessuna salvezza, nessuna redenzione, nessuna rivelazione di là dal crollo. Con ogni mezzo si tengono in vita strutture fatiscenti, non per preparazione alla vita eterna, ma per esorcismo del nulla eterno.

Fermiamoci qui, per il momento, e facciamo un salto indietro di due secoli, fino a ritrovare un breve scritto di Kant che, se accostato alle riflessioni di Uexkuell-Agamben, produce un cortocircuito su cui vale la pena soffermarsi:


Alla libertà di pensiero si contrappone in primo luogo la costrizione sociale. In verità si è soliti dire che un potere superiore può privarci della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare. Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro? Quindi si può ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libertà di comunicare pubblicamente i loro pensieri, li priva anche della libertà di pensare, cioè dell’unico tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il sono che ancora può consentirci di trovare rimedio ai mali di questa condizione. (I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, Milano, Adelphi, 1996 [2011])



Così come risulta difficile concepire la sopravvivenza di un organismo deprivato del suo ambiente, allo stesso modo, sembra impossibile un pensiero in assenza di condivisione. Cosa resterebbe del pensiero, si domanda infatti Kant, se ci venisse sottratta la possibilità di confronto, di dibattito, di dialogo, di scambio? Se mai avesse pensato, penserebbe ancora la zecca di Rostock, isolata da ogni possibile comunicazione col suo ambiente? E noi, penseremmo ancora, se ci venissero interdetti il parlare e lo scrivere, e ogni altro mezzo per comunicarlo? Per l’esperimento mentale di Kant queste domande sono poco più che retoriche, e servono solo come espediente per additare il grave pericolo che si cela dietro l’inibizione della libertà di espressione la quale è, come lui dimostra da par suo, coestensiva alla libertà di pensiero. Eppure la povera zecca, lasciata sola nel buio del suo laboratorio, riesce in qualche modo a restare in vita, a sopravvivere, al di là di ogni immaginazione, alla deprivazione del proprio ambiente. Per poterlo fare ha dovuto congelare le proprie funzioni vitali in una modalità di attesa, riducendo al minimo il dispendio di energie e, conseguentemente, il fabbisogno alimentare. In altre parole, si è adattata alla più estrema delle condizioni, smettendo di sentire, di avere bisogni, di desiderare, di pensare (se ci si concede l’abuso terminologico).

Come osserva giustamente Agamben, i diciotto anni di l’eroica resilienza di quel piccolo animaletto sollevano questioni di vertiginosa altezza capaci di mettere in crisi anche i sistemi teorici più collaudati. Kant stesso avrebbe vacillato: per poter comprendere l’ossimoro di un’esistenza perfettamente inattiva, di un’inoperosità all’opera, infatti, occorre un salto teorico che avrebbe ripugnato al maestro di Koenigsberg, un salto che lo avrebbe proiettato al di là di ogni modello della mente concepibile per un europeo del suo tempo. La mente della zecca di Rostock, infatti, equidistante da ogni stimolo possibile, sollevata da qualsiasi esperienza, preclusa da ogni comunicazione, non è né attiva né passiva, né nel  pensiero né nell’oblio, né morta né viva. A volerlo definire, il vivere costringe a una tautologia: al netto di ogni attività accessoria, infatti, vivere significa assolvere quantomeno alle proprie funzioni biologiche di base. Eppure, la zecca di Rostock sembra riottosa anche a questa ovvietà, sopravvivendo ostinata all’impossibilità patente della sua stessa esistenza, resistendo a ogni possibile definizione, facendo impazzire ogni costrutto concettuale, ogni struttura, un po’ come Bartleby, lo scrivano di Melville che tanto piaceva ai filosofi del tardo ‘900.

Cosa fa dunque, tutta sola, chiusa nel suo laboratorio sulle sponde del Baltico? Medita. È questo che avrebbe fatto inorridire Kant e risulta di difficile digestione anche per noi uomini del futuro, avvezzi a ogni tipo di prodigio. Anche noi, infatti, fatichiamo a non identificare la mente con l’intelletto e la ragione, sebbene essi, in realtà, non siano che organi della mente, come proprio Kant ha mostrato mirabilmente. In quanto organi, però, essi non bastano a definire la mente in tutta la sua ampiezza, che si estende al di là delle capacità intellettivo-computazionali e assertivo-razionali. In altre parole, la mente non è solo un organo per processare informazioni e prendere decisioni, un muscolo per fare calcoli e valutazioni. La mente è piuttosto il nostro “principio cosciente”, come direbbero i lamaisti, il quale va oltre i nostri ricordi, i nostri desideri, il nostro corpo, i nostri stessi pensieri. Con buona pace di Kant, la coscienza non comincia con l’io penso, semmai è vero il contrario: è l’io penso che può affacciarsi, in determinate condizioni, sulla superficie della coscienza di alcuni primati superiori capaci di sviluppare facoltà intellettive e razionali (le uniche, queste ultime, ad essere appannaggio esclusivo di homo sapiens). Lo stato di attesa in cui la zecca sospende ogni attività, fisica o intellettiva, ogni pensiero, ogni bisogno, ricorda da vicino la pratica della meditazione, in cui la mente si distacca completamente dal proprio contesto, osservando il suo puro esserci, stare lì, da tutto attraversata e da nulla turbata.

Kant non poteva altro che immaginare, in uno slancio di fantasia, la condizione limite in cui verrebbe a trovarsi il pensiero una volta amputato dei propri organi di comunicazione. Nel tempo in cui viveva, non era nemmeno concepibile la disgiunzione dell’attività speculativa dalla comunicazione, dalla scrittura, dal dibattito, dall’insegnamento. Chi pensava lo faceva nella misura in cui poteva comunicarlo, e la sua attività non poteva lontanamente essere disgiunta dai suoi esiti pratici, dalla sua circolazione nel mondo. Ogni pensiero era una lezione, ogni idea era un’azione, un intervento, più o meno significativo, negli ingranaggi del mondo. Per questo, qualche pagina più avanti nello stesso saggio, Kant potrà sostenere vigorosamente che, “soprattutto in filosofia, la disputa che sta alla base di argomenti largamente discussi non è mai verbale, ma è sempre una vera controversia su cose” (p. 69). In altre parole, per Kant, nelle dispute filosofiche la posta in gioco non è niente di meno che il mondo stesso; non si tratta di questioni di lana caprina tra dotti sfaccendati, ma di scontri decisivi su istanze vitali, che riguardano da vicino l’esistenza di tutti gli uomini. Da esse decorrono i grandi corsi della storia e della politica, le condizioni in cui gli uomini svolgono il lavoro e conducono le loro esistenze, le credenze che orientano il loro cammino, le libertà che possono concedersi e gli obblighi a cui devono sottostare, i fari che rischiarano i loro dubbi e la consolazione per i loro affanni. Per questa ragione vale la pena battersi anima e corpo per sostenere un’idea piuttosto che un’altra, e non è un caso se grandi pensatori del passato sono stati costretti all’abiura, se non giustiziati, semplicemente per le loro idee.

Oggi che la filosofia è diventata un’arida disciplina accademica, o peggio una chiacchiera da rotocalco, del sacro fuoco della critica kantiana sembra che non restino nemmeno le ceneri. Indipendentemente da quello che scriveremo, infatti, dubito che qualcuno di noi avrà mai il privilegio di essere messo all’indice o, addirittura, di finire sul rogo. Proprio oggi che tutto è diventato informazione e corre alla velocità della luce sui circuiti globali della comunicazione, quella che Kant chiama costrizione sociale sembra aver sopraffatto ogni genuino slancio speculativo. Tale mattanza del pensiero accade in maniera subdola e invisibile, come una morte bianca sul lavoro, celata da un’apparenza di ecumenismo e libertà. La fantasia distopica di Kant di un potere repressivo così spietato da interdire perfino la parola e la scrittura è stata superata dalla realtà di un potere così permissivo da concedere una libertà illimitata di parola e scrittura, che gli ha permesso di trasformare ogni comunicazione in spettacolo, in un simulacro, in un’immagine bidimensionale di sé, priva di qualsiasi profondità. Quel che ci è vietato oggi, non è lo scrivere o il parlare, ma il tacere. Non il rumore, ma il silenzio è stato messo al bando nel mondo nella cultura contemporanea. In questo modo, ogni parola ha perso di peso, di importanza, diluindosi nel frastuono della chiacchiera, disperdendosi negli infiniti canali di comunicazione. Così facendo, la parola diventa un mezzo che non è più orientato ad alcun fine, e si confonde nella distesa a perdita d’occhio di “mezzi senza fine”, per fare nostra la bella formula di Agamben.

Il potere contemporaneo – sia esso politico, economico, accademico, editoriale, giornalistico – non interdice la parola, ma il silenzio a partire dal quale e nel quale soltanto la parola può far vibrare le sue onde come un sasso gettato in uno stagno, assumendo così corpo, peso, gravità, senso. Ecco allora che ci troviamo costretti a pensare quello che per Kant era l’impensabile in persona: un pensiero che non si comunica, che non è più in comune, perché non è più dialogo, ma monologo, e si confonde nel rimbombo degli altri innumerevoli monologhi, tutti altrettanto degni di esprimersi, tutti altrettanto desiderosi di comunicarsi, e tutti altrettanto incomprensibili. È questo uno dei volti più temibili dell’individualismo moderno: il solipsismo, che ha sta rosicchiando l’anima alle potenze spirituali di un tempo, la poesia, la filosofia, la religione, lasciando gli uomini senza guida e senza meta.

Eccoci qua, allora, nel chiuso dei nostri laboratori, privati di ogni stimolo esterno perché sopraffatti da ogni possibile stimolo, al punto da esser divenuti incapaci, come la nostra amica di Rostock, di selezionare gli input necessari ad attivare i nostri disinibitori e consegnarci all’opera. Forse nemmeno Agamben – che, per quanto sia vivo e vegeto, appartiene ancora a un mondo in cui gli scrittori scrivevano, i preti predicavano e i politici governavano – si sarebbe immaginato che le ispide questioni teoriche sollevate dalla sopravvivenza della zecca sarebbero diventate il “da pensare” per chi, dopo di lui, sente il dovere di tenere viva la libertà del pensiero, salvandola dalla slavina di parole-mezzi-senza-fine da cui è stata sepolta. Un pensiero, quello di noi zecche contemporanee, che giocoforza è costretto alla pazienza, all’attesa, all’ascolto, un pensiero che, come ho scritto altrove, vedendosi preclusa a monte ogni possibilità di azione trasformatrice, si contenta scontento di custodirsi nel silenzio della meditazione.







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