Lessico minimo naturale






































Lessico minimo naturale
di Matteo Meschiari

Radici 

Per gli Aborigeni australiani gli Inapatna sono pozze nel terreno che racchiudono una specie di liquido amniotico. In questo liquido, non ancora formati, dormivano i primi uomini del mondo. Uteri terrestri o crisalidi disseminate nel paesaggio, sono un’immagine legata a doppio filo al passato e al futuro, all’azione e alla contemplazione, alla potenza e all’atto. Per me sono gli antenati concettuali dei paesaggi primari, cioè i paesaggi arcaici ma non primitivi, originari ma non inattuali, che ancora si possono incontrare, intatti di energie e di potenzialità, tra i tanti paesaggi trasfigurati e colonizzati dall’uomo. Luoghi così profondi vanno custoditi, e i modi sono molti. Uno di questi è visitarli, non con un generico rispetto, ma con la disposizione totale a lasciarsi modificare da essi, ad accogliere in sé il la metamorfosi fondamentale dei paesaggi.



Camminare 

Camminare un paesaggio primario significa mettersi in connessione con i suoi ritmi, con la sua matrice più profonda. Ogni paesaggio è movimento, è un fascio di movimenti, e le tracce delle sue metamorfosi sono altrettanti cammini possibili, da ripetere con il passo, da attraversare con il corpo: nervature, linee di tensione, scorrimenti, crescite, flussi, dissoluzioni, addensamenti, frontiere, isole, macchie, arcipelaghi, reti… Il passo è il nesso fisico tra i miei movimenti mentali e i movimenti invisibili del paesaggio: le crescite del paesaggio si imprimono nel terreno, le forme del terreno modificano il camminare, le variazioni nel camminare modificano l’ordine, il ritmo e l’intensità dei pensieri, le crescite del paesaggio si imprimono nella mente come massaggi in punta di piedi. Camminare le quattro stagioni o le rivoluzioni del cosmo. Camminare alberi o ghiacciai scomparsi. Camminare il colore dei deserti o i suoni dei fiumi in una sera di aprile. 


Immaginare 

Immaginare un paesaggio primario significa vedere con la mente ciò che resta invisibile agli occhi. Le dinamiche che sfuggono ai miei sensi possono trovare nel pensiero per immagini un modo per ritornare visibili, e per rendermi consapevole del grande flusso che attraversa la Terra: una luce apparsa e poi scomparsa un milione di anni fa in un mattino della stagione fredda; gli urti per sempre lontani dell’orogenesi alpina negli strati profondi della crosta; la massa di un ghiacciaio dove ora c’è un lago che riflette un bosco di larici; la discesa a valle di un arcipelago di massi erratici; le masse dei boschi che si riappropriano dei terreni lasciati liberi dagli scudi glaciali; la fine di un’isola. Immaginare è come camminare terreni invisibili, impalpabili, scomparsi ma anche a venire, terreni che coabitano in ogni istante in un paesaggio primario. Immaginare questi paesaggi invisibili significa offrire un’ipotesi di grandezza ai limiti del mio corpo. 


Guardare 

Guardare un paesaggio primario significa sentire con gli occhi ciò che resta invisibile alla mente. Il pensiero è soggetto a una forma di entropia, a lungo andare si raffredda, e raffredda la percezione delle cose: i dettagli diventano inutili, i caratteri secondari perdono importanza, le sfumature irrisorie possono essere trascurate, il colore cede alla forma, la forma al contenuto, il contenuto unico e irripetibile soccombe al senso generale e universale. In questo modo i paesaggi terrestri diventano il solo e unico Paesaggio, quello dell’anima, quello dell’estetica, quello della scienza. Guardare significa rimettere i piedi per terra, tornare al terreno delle cose, riconoscere che il dettaglio infimo è tutta la teoria di cui ho bisogno. Bisogna guardare. Guardare per se stesse tutte le variazioni del rosso in autunno. Guardare senza misurare la distanza tra due strati di roccia. Guardare ciò che resta in disparte appena fuori dall’inquadratura più bella. 


Toccare 

Toccare un paesaggio primario significa guardare con le dita ciò che l’occhio appiattisce. Lo sguardo ha i suoi ostacoli nella notte, o nell’ombra che gli oggetti si fanno l’un l’altro quando si nascondono. Mettere le mani su una corteccia o sentire la grana di una parete rocciosa arricchisce la mia percezione, ma toccare un paesaggio significa soprattutto percepirlo con il corpo, o come corpo, un corpo contiguo al mio, quasi un mio prolungamento. Se nascondo una mano dietro la schiena, fuori vista, so che comunque è là. La stessa cosa vale per il paesaggio: posso sentirlo come una presenza incombente dietro la schiena, o come volumi pieni e vuoti che non sono del tutto separati da me, posso sentire che i confini tra il mio corpo e il corpo terrestre si ammorbidiscono o si induriscono, che si allentano o si rafforzano a seconda di dove mi trovo, posso fare corpo con il paesaggio percependolo in me. 


Ascoltare 

Ascoltare un paesaggio primario significa muoversi nella notte permanente in cui abitano i suoni. Lo scroscio lontano di una cascata, il crollo di un seracco, lo stecco che si spezza su un terreno coperto di foglie, la fuga di un insetto, misurano le distanze, scandagliano le estensioni, fasciano le masse piene, scavano i vuoti, fanno vibrare le parti del paesaggio come una grotta dagli spazi innumerevoli. Tra isole sonore e correnti di rumore, tra stagnazioni e urti, la banchisa dei suoni si modifica a perdita d’occhio, disegna configurazioni complesse che vanno esplorate con circospezione. L’ascolto di questo doppio paesaggio, quello che si sente e quello che si avverte dietro, mi mette in risonanza con le connessioni più sottili del corpo terrestre: dove non posso camminare, immaginare, guardare o toccare, dove la notte si fa ancora più notte, il suono rimane il terreno più poroso e quello a cui io stesso sono più permeabile. 


Pensare 

Pensare un paesaggio primario dopo averlo camminato, immaginato, guardato, toccato e ascoltato, significa smettere di pensarlo. Dopo qualche tempo passato là fuori, non è più necessario legarlo a un nome, a un concetto, a una definizione. Non c’è più bisogno di avvicinarlo con architetture mentali, con modelli che riducono la sua complessità a un geroglifico. Non basta più celebrarlo con le idee, va frequentato, va vissuto, va non-letto, va sognato. Tutto quello che è stato detto e sarà detto sul paesaggio è nel paesaggio da sempre: la sua logica è la baia nei moti di marea; la sua struttura è nei movimenti asincroni dell’erba alta mossa dal vento; il limite tra la bellezza e il senso è nei reticoli che separano il lichene dal muschio. La sua teoria è tutta in superficie, tra la pianta del piede e il terreno, tra l’immagine e il suo fondo originario, tra la retina e il raggio di luce, nelle pieghe della mia pelle, nell’aria che fa vibrare ciò che ho dentro. 


Ricordare 

Ricordare un paesaggio primario significa che non sono più nel paesaggio. Sono altrove, e il paesaggio che è in me è come pezzo di ghiaccio che sta sciogliendo. Solo quando sarò paesaggio non avrò più bisogno del paesaggio. Nel frattempo, ricordare significa trasformare in racconto la Terra perché si sciolga più lentamente: quello che non va letto va raccontato, quello che non va chiuso nelle parole va attraversato con esse. Ricordare significa tracciare immagini e modellare forme che siano come ombre proiettate da una luce. Ricordare significa fare musica con i movimenti dell’acqua e il calore delle montagne. Ricordare significa dipingere su una corteccia di eucalipto una porzione della Terra ma anche un frammento della mia pelle, significa tracciare una mappa del mondo ma anche del corpo, e significa cantare una storia che è un canto delle origini ma è anche il canto del mio unico attimo nei sogni senza tempo del paesaggio.

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