Aria mobile
Aria mobile
di Matteo Meschiari
1. Hai chiesto di
viaggiare: le schegge di legno tenero nell’erba, la chiglia ara il pendio –
solco così nero – la prua rompe la pelle dell’acqua. Mi hai chiesto di
viaggiare: su due dita hai avvolto le mie parole, e poi parole sopra parole,
tutto un pianeta, blu, per nessuna tessitura. Andiamo: le isole, la piccola
lavorata dal fuoco, forre, pomice, basalto. La grande che il gelo ricopre, ne
morsica i contorni, scivolano le lingue nel mare. La spiga di scogli, grani a
galleggiare sull’oceano. E ancora? Terre piatte, boschi, piante del vino
intatte. Partiamo: c’è vento buono questa sera, così mobile l’aria, pane, pesce
salato, l’astuccio delle parole tra la pelle intirizzita e la lana.
2. Hai chiesto di
viaggiare. Avvolgi questo verde, questo blu: prati intrisi di muschio, sepolti
i fiumi nell’erba – piegata –, acqua e pianta di palude, piante e polle di
torbiera, le pupille dei laghi, l’alga nella coppa di pietra scavata dagli
inverni senza parole, le correnti. Avvolgile. C’è ancora verde, c’è il loro
blu: penisole rotolate nelle baie, golfi trafitti dai promontori, marea della
terra, suolo dell’oceano che muove, correnti. E poi solo correnti. E i muscoli
delle alghe che si sfilano, la loro calma dissoluzione, il mare aperto infine,
le correnti.
3. C’è chi racconta: «Terra-Verde. Remi ribattono il mare. Anche
la vela batte. Bianco dei ghiacciai, avvolgilo ai promontori. E vedi? Li puoi
contare? Uno, due, tre, quattro, cinque – il sesto è il Ghiacciaio-di-Mezzo. La
prima volta che l’ho visto era bianco. Siamo tornati molte volte. Inverno –
burro nella nebbia. Primavera – albume rappreso. Estate – gesso accecante.
Autunno – osso grigio, corroso. Ma oggi si è spezzato. Il suo midollo è blu.
Manto-Blu, il bianco della neve al di sopra, come il presente sui ricordi.
Siamo tornati molte volte. Per fare fattorie. Per cacciare».
4. C’è chi ricorda: «I primi li prendemmo dai crani che
incontravamo nella sabbia. La baia ne era piena, ma dopo due passaggi di nave
finirono. Manici di coltelli e pezzi degli scacchi. Era la moda dei
capifattoria. L’avorio degli elefanti-della-banchisa, lavorato lungo le
traversate: a ogni scalo ce ne liberavamo come ci si lava dal sangue. Lassù, le
prime volte, si spaventavano appena, un’onda di grasso che tremava a riva, e
noi con le asce, là in mezzo, volpi barbute tra oche troppo grandi.
Cominciavamo a martellare sui loro crani freschi, e loro non capivano,
guardavano muggendo come vitelli cui venga tolta la madre. Mordevamo le loro
carni con asce e spade, facevamo mucchi di teste vicino all’acqua, i corpi
erano ovunque, come sacchi che vuotavano sangue tra i ciottoli, così tanto quel
sangue che due braccia di mare e duemila braccia di costa si arrugginivano fino
al vento del mattino – rosso per avvolgere baie. E per tutta la notte piccoli
pesci venivano a bere a riva, il vento di terra scivolato dai ghiacciai li
disperdeva alla prima luce. Anche il sangue finiva, i sacchi di carne erano
vuoti, e i ciottoli anneriti dalle zanzare si sbiancavano all’arrivo degli uccelli.
Banchettavano sui cadaveri sbattendo le ali come tovaglie, e noi lì vicino
strappavamo i denti dalle orbite, e in quel punto preciso erano rosa, come
parti intime. Le teste invece finivano nel calderone della baia, e i pesci
tornavano a ribollire come sorgenti calde. I denti li lavavamo dagli ultimi
tessuti con acqua di mare e sabbia, li lasciavamo riposare, come in lutto, poi
cercavamo di trasformarli in oggetti. La lama camuffava la loro origine. Lo
sconcio della morte si faceva elegante, una rozza eleganza per mani callose,
per ripetere mosse distillate lontano – in India, in Arabia – per ripetere
mosse geometriche tenendo tra dita di contadini il resto di vite distillate nei
ghiacci di una terra che non era verde. Ere di vite ripetute uguali, lotte, accoppiamenti,
maternità, e qualche secolo di alfieri, regine, pedoni, magari alla luce di un
lume che galleggia nel grasso di balena. E le balene... anche loro che storia!»
5. Continuavamo a sbagliare
stretto. Tornavamo lassù con lo sciogliersi della banchisa. Seguivamo piste nel
ghiaccio – blu geometrico come pezzi di cielo. Sulle nubi galleggianti un
orso-madre saltava, spaventato. Cercammo di arpionarlo, ma quello si tuffò come
un sasso, e scomparve. Continuavamo a sbagliare come salmoni ubriachi. Cercavamo
a nord, quando il cuore era a ovest. Voltammo a ovest, dunque, e il blu si fece
chiaro, trovammo una costa. Facemmo entrare la nave in una foce celeste.
6. Ancora chiedi di dire. E annodi alla matassa dei ricordi paglie
di isole vuote, peli di gatto, luppolo, sentieri di lumache, pepe, ossa di
corvo. E mi chiedi di dire, ancora, di là dal recinto della vecchia fattoria.
Rossa un tempo la mia barba, anche quella ti ha lasciato ricordi, peli nel tuo
gomitolo. Adesso ha il colore della sabbia, stinta dagli autunni in mare. Di
qua dal recinto, gli avambracci appoggiati, ti parlo degli anni di viaggio,
quando a isole note seguirono isole ignote, ed erano colore di corda per le
sabbie immense tormentate dalle correnti. La barca attraversa i loro corpi inanimati,
rischia di incagliarsi, turbini sabbiosi nell’acqua ingrigiscono il mare. Lo
stretto di vecchiaia rallenta le braccia sui remi, scariche le vele come
stomachi vuoti. Viscere blu dardeggiano tra le sabbie dell’entroterra: fiumi
lenti come l’angoscia, larghi un secolo, venuti da un mostro, sepolto sotto ere
di nebbia. Mandrie di quadrupedi irsuti si stringono in cerchio contro
l’attacco dei lupi, al tramonto lampeggiano ossa, e noi scivolavamo via,
indenni, con un nodo di memoria piantato nella gola. E, come il sangue da un
corpo, il rosso della mia barba è uscito dalla giovinezza, resta sul mento
questo capo di corda, sfilacciata, come un approdo insicuro. Di là dal recinto
continui ad avvolgere filo, e ancora questa barba di vecchio ti lascia il suo
pegno, grigia come le isole che ho incontrato, un’ultima volta.
7. Ma non credere alla
memoria. Qualcuno guarda con te. Tu avvolgi notte nella matassa del tempo.
Nessun bioccolo di lana, nessun frammento, nessuna stella a spezzare il tuo
blu. Come nero addolcito, ma ancora più profondo, ma ancora più fermo, nessuna
stella a spezzare il tuo blu. Vecchie donne nella cucina che raccontano. Non
raccontano le oscure costellazioni, le cacce sanguinose. Parlano tele dove il
duro si fa morbido, dove il sangue filo, dove il carbone notte, dove notte blu
che non si spezza. No, non credere alla memoria. Qualcuno guarda con te le
poche rotte di filo.
8. E ancora. Chiedi di dire colori. Allora ecco per te l’ultima
senape di boschi, betulle, quando prendemmo terra, alla fine del viaggio. Le
cime sullo sfondo erano bianche, schiuma sulla birra dei boschi. Un vento
costante ghiacciava le facce, ma le foglie mescolate ci inebriavano. Bevemmo
quel bosco come una ricompensa, e solo un bugiardo battezzò quella terra con
l’uva, uva che pure cresceva, rara, inutile, come uno stecco per una nave. Era
lo stesso che mentì chiamando un luogo Terra-Verde, verde come un campo di
grano. Che mentì chiamando un ghiacciaio Manto-Blu, blu come un livido. E chi
ci andò provò l’amaro del ghiaccio. Nessuno però ritornò a Terra-del-Vino,
spaventato dalla menzogna. Quel bugiardo ero io, parola di marinaio, eppure
quel verde era verde come grano: muschi, e continenti di muschi alla deriva, su
gusci di granito. E davvero c’era uva laggiù, ma non per colorare la memoria.
Il vino ci viene dalla Francia, dice il proverbio, la via vecchia è più rapida,
più sicura. Ma il mio cranio era abitato da isole, era scrigno di coste.
9. Quale filo ancora?
Cosa mi chiedi ancora? Con il cotone grezzo hai intessuto un sudario. Allora
intreccia al mio ultimo letto i colori del viaggio: blu oltremare, verde con
blu marino, burro di fattoria, rosso sangue, blu cielo, lana cruda, blu notte,
senape. O lasciali andare, piuttosto, perché il non-colore si prenda la
non-vita. Sento ancora le tue parole mentre la terra mi copre: «Ora il gatto trova un po’ di energia per
fermare il filo con la zampa sudata, mentre il gomitolo rotola via, investendo
formiche, aghi di pino azzurro e fiori di lavanda caduti».
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