Pescarzo - Antimanifesto







Pescarzo - Antimanifesto

di Matteo Meschiari



La chiusura è la condizione dell'essere-nel-mondo.
G. Deleuze, Le pli, 1988.


In questi giorni mi sono fatto alcune domande, che poi sono le domande che ci facciamo da molto tempo come specie:


Cosa fare di un luogo? Cosa fare in un luogo? Cosa fare con un luogo?

La prima cosa che mi viene in mente è NIENTE.

Niente perché a volte “fare” è un altro modo di avere, di voler avere, avere a tutti i costi.

L’uomo è un essere ipersemiotico, cerca significati ovunque, ha un cervello geneticamente modellato per trovare senso, per inventarlo dove non c’è, per trasmetterlo nei racconti.

Siamo abitati da un flusso narrativo permanente, per ridurre la distanza tra noi e le cose, per addomesticare l'ignoto, per stare al sicuro sulle ginocchia di mamma e papà.

Allora rivediamo le cose. Sono in un luogo.

Non voglio dire il nome, non voglio sapere niente. Sono in un villaggio alpino. Cosa devo farne? Cosa non devo fare?

Entrare nei flussi della memoria? Raccogliere informazioni? Fare un ‘lavoro’? O non piuttosto antimemoria? Immaginazione? Pratiche d’improvvisazione?

Non voglio dare nomi, non voglio informazioni. Niente toponimi. Niente dati. Voglio regredire all’Out of Africa: migrare nell'inconsapevole, nell’ignoto. E non chiamare mai, non sapere niente. Parlare solo di quello che non so.

Out of Africa è dilettantismo, tabula rasa, antitecnica, no tassonomie, no professionalità, pratiche del non avere, essere sempre strenuamente contro la purezza del field recording.

E micropolitica: antropologia ecologica contro antropofagia culturale. Basta col mangiare luoghi, con l’usarli, col farne qualcosa. Basta con l’arte frontale, del corpo a corpo, della cosa-idea e della funzione.

Un’arte minore, invece: miniatura. Visiva, sonora, verbale.

Miniatura: manipolabile, multipla, metonimica. Un utensile portatile, un campo di cattura (di vuoti, di intensità, di silenzi).

Allora, cosa fare a/in un luogo?

Eseguirne una partitura coi passi, suonarne i suoni, immaginarne le immagini.

Osservazione in limine, come un antiprogetto: l’arte è troppo dedita a un ascolto esclusivo, fissato sul fare. Ascolto che esclude. Usare alienante. Invece bisogna pensare a un ascolto inclusivo, per entrare in uno stare ecologico.

Troppo spesso l’artista pensa al suo flusso logorroico. Esercita un potere prensile sulle cose che, per fare equilibrio dentro l’opera, crea molto disequilibrio attorno.

Quello che auguro a chi deve lavorare con un luogo è anzitutto una riflessione sul non-fare.

Il sì e il no vengono da qui.


Pescarzo, luglio 2012.

 

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