di Andrea Pavoni
… ritorno fra le solitudini dell’alta montagna. Lungi dalla marea degli uomini, libero finalmente dalla mania pistaiola, apro di nuovo la mia traccia godendomi la bellezza dei monti. Non invidio più ‘gli altri’.
Hermann Buhl
La storia dello sci è lunga, scandinava e cinese, convergenza di tre vettori (il corpo, la montagna, la neve) in un paio di pezzi di legno paralleli. Storia di graduale appaesamento dell’uomo con il pendio che poi, nel secolo scorso, lascia il passo ad un brusco processo di antropizzazione forzata. Così la montagna è gradualmente disboscata, ricoperta di sistemi di risalita che sopperiscono all’hybris gravitazionale dell’uomo, la ricerca della velocità della discesa che bypassa il sacrificio della salita. La neve è piallata, liscia come asfalto, levigata, lucidata. Di mattina assomiglia a un paradossale green bianco. Di notte, altre visioni. Mostri con cingoli enormi e fari potenti lavorano per ore, nel rumore inaudito, per piallare, dissodare, rendere lo spazio liscio. Nei moderni ski resort la montagna è spianata in un deserto bianco terrificante, spaesamento assoluto, come quello che ti coglie nella nebulosa indistinta di stanchezza, ebbrezza e testosterone degli apres-ski. Lì, per lunghi momenti di confusione, capita di non capire più dove ci si trovi. Avoriaz? Canazei? Sestrière? Ogni spazio è reso simile, immediatamente comprensibile e categorizzabile, sensato e sicuro. Consistentemente con le riflessioni di Lefebvre sulla produzione di spazio del capitale, la montagna è ridotta a una merce misurabile e quantificabile, frammentata, gerarchizzata, omogeneizzata. Un tanto al chilo: altezza, pendenza, centimetri di neve. In questi spazi uniformi si possono aggirare sicuri i viaggiatori del capitale, tute patinate, cappelli idioti, creme solari, urli isterici, musica truzza, telefonate in seggiovia, spritz nei rifugi.
Si badi bene, questo non il solito lamento moralista anti-contaminazionista.
Non c’è nulla di più artificiale del presupporre una Natura inviolata che non
si dovrebbe disturbare. Inoltre, ci vorrebbe una gran dose di indifferenza, o
disonestà, per ignorare l’esaltazione sbalordita che si prova a scendere tra le
decompressioni della Tulot, a prender inesorabilmente velocità
nell’interminabile muro della Paradiso, a scartare dritti dopo un’infinita
esitazione verso le gobbe verticali del Mur Suisse. Qui si tratta piuttosto di
un tentativo di riflettere la distinzione, spesso graduale, raramente netta,
eppure innegabile, tra due certe modalità d’incontrare un territorio.
Appaesamento, ovvero accettazione
ed assunzione di un conflitto, di un attrito, come ben sa lo scalatore che non
percepisce certo la montagna come un qualcosa di intatto ed inviolabile, poiché
la solca con i suoi strumenti e la scalfisce con i suoi chiodi, né tantomeno
come un’amica sicura, poiché sa che da essa può arrivare in ogni momento dolore
e morte, e dunque si assume la responsabilità dei propri rischi. Scalare è
cancellarsi e conservarsi in un incontro in cui le differenze, che la roccia
serba e conserva, son lasciate apparire nel, attraverso il contatto. Non c’è
piano, obiettivo, soggetto. Tutto ciò che la teoria dell’azione sedentaria in quanto
proiezione pone in una categoria strumentale qui diviene essenziale: gesti,
prese, posizioni, un ‘contatto incerto’ in cui ci si sostiene a vicenda, corpo
e roccia, ognuno rispondendo alle asperità altrui (Hennion).
Antropizzazione, al contrario, è
spianamento, dislocazione, distruzione. La trasformazione della montagna in un
grande parco giochi infinitamente replicabile. È in un senso preciso, non
banalmente retorico, il ‘mancar di rispetto alla montagna’ di cui parlava
Edmund Hillary, scuotendo la testa di fronte alla commercializzazione di massa
dell’ascesa all’Everest. È l’occultare un represso che poi inevitabilmente torna,
sotto forma di danno ambientale o sociale, come nell’aumento degli incidenti,
conseguenza inevitabile della de-responsabilizzazione e sradicamento del
rapporto uomo-montagna, del sistematico ignorarne la normatività geologica.
Quando poco tempo fa un guidatore ubriaco, scendendo dal rifugio dell’alpe
del Cermis con la motoslitta, a notte fonda, ha deciso di passare per il muro
dell’Olimpia, perdendo poi il
controllo del mezzo e scaraventando nel dirupo i 7 passeggeri che portava nel
carrello, qualcuno forse per un breve e subito represso istante ha compreso
cosa significasse spaesamento, perdere il rispetto per la montagna,
desertificare.
The sea must be
respected. Me lo ricorda un po’ enfaticamente la padrona dell’hotel che sovrasta
Coldingham Bay, sud di Edinburgo. Sono 14 gradi fuori e dentro l’acqua, onde
alte, irregolari, appesantite dall’inverno. You must listen to the sea, and your body must listen to the sea, continua. Se non riesci a
superare il point break,
continuamente ributtato indietro dalle onde gelide, allora vuol dire che non
sei ancora pronto. Rispettarle, scavalcarle, leggerle, decifrarle. Solo allora
puoi provare a surfarle. Il mare ti costringe a un lento, doloroso, pericoloso
processo di appaesamento. Capire le onde. Divenire con le onde. Apprendere la
tecnica. Ritmo, tempismo, equilibrio, pazienza, coraggio. Non è facile. Ci
vuole tempo. Ecco cosa vuol dire ‘rispetto per il mare’. Non c’è alcuna mistica
hippie. Tantomeno hybris libertaria neo-capitalista. Secondo il solito provocatore
sloveno, il movimento errante del surfista combacia con quello del soggetto del
tardo-capitalismo. Soggetto che si assoggetta allo status quo, rinuncia a
cambiarlo, a contrastarlo, e si limita a surfarlo verso i propri scopi. Libertà
entro condizioni date. Lo sloveno e i suoi amici, che probabilmente non lo
hanno mai sperimentato, comprendono il surfare come categoria astratta di
movimento nello spazio liscio del capitale. Essi ignorano profondamente quanto
il surf sia lontano da questa caricatura. Esso è come il lavorio
dell’artigiano. Non è rinuncia ad agire, a contrastare l’esistente, ma lento
processo di appaesamento, fatto di passi, scatti, pazienza, adattamento,
attesa, decifrazione, azione. Essere inghiottiti dall’ambiente, come dice Liu Bolin,
artista cinese genio del camouflage, al punto che non ho più il lusso di
decidere se essere attivo o passivo. Poiché non si inizia mai, si è già da
sempre in mezzo a. Il mare non si può
spianare, da questo mare non si può sfuggire, e non vi è necessariamente dolce
il naufragare.
Simile è l’appaesamento richiesto a chi voglia surfare la montagna al di
fuori dello spazio liscio in cui è spianata, capitalizzata. Lo snowboard nella
sua essenza originaria incorpora il desiderio di surfare l’acqua farinosa della
montagna, il fuori-pista, la neve fresca. Free-ride.
Appaesamento verticale che rifiuta i limiti ‘naturali’ al movimento umano:
ciaspole per la risalita, tavole per la discesa. Perché se non sei in grado di
salire la montagna allora non meriti di discenderla. Merito qui non è concetto
morale ma materiale. La montagna un mare le cui maree bianche salgono e
scendono durante le stagioni. Surfarla dunque, senza piallature preventive. Con
i suoi rischi. Le valanghe sono il segno che la montagna è ancora viva. I
crepacci il segno della sua tridimensionalità.
In tal senso lo snowboard si pone sullo stesso percorso tracciato dallo sci
alpinismo. Tuttavia esso introduce un paradigma qualitativamente differente. Cinetico.
Immersivo. Galleggiante. Lo snowboard esiste solo ‘in movimento’. Se ci si
ferma bisogna sedersi, abbandonare la tavola, dunque. A differenza dello sci,
lo snowboard non può generare movimento. Non può pattinare. Non può
racchettare. Non può essere oggetto di pratiche di ‘fondo’. Esso non dipende da
un movimento prodotto individualmente, ma dal pendere stesso. È
nell’inclinazione che esiste, sempre in mezzo a, immerso in un elemento a cui
si deve adattare negoziando una coabitazione errante, tracciando una via di
fuga, con stile. Nelle sue modalità corporali, affettive, normative, snowboarding è appaesamento di uomo e
montagna in cui il primo si piega alle pendenze, neve ed asperità della
seconda, li studia, li decifra, li percorre, con infinita pazienza, attenzione,
rispetto, pena la caduta, lo scontro con una roccia, il seppellimento in una
valanga.
Nella montagna piallata, dissodata, tracciata, tutto ciò che è fuori
diventa misterioso, inviolabile, illegale: off-limits.
Inizialmente è questo lo spazio elettivo dello snowboard. Le prime tavole hanno
addirittura la pinna, inutilizzabili in pista, necessariamente fuori-pista. Di
conseguenza, lo snowboard al principio è illegale, temuto, discriminato e
criminalizzato dallo sciatore, insulto alla sua postura precisa, parallela,
binaria. Rifiutando la (e rifiutato dalla) legge comune, lo snowboard produce
una differente normatività, un assemblaggio in cui si mescolano tecnologia,
tecnica, territorio. Entro la pista vigono le tavole della legge sciistica, ove
tutto è almeno in teoria segnalato, spianato, controllato, in una sicurezza
astratta che genera de-responsabilizzazione, al punto che oggi si son dovute portare
le forze dell’ordine stesse, in divisa, dentro le piste, pronte a multare gli
idioti per limiti di velocità e comportamenti pericolosi. Le tavole della legge
sciistica son però ribaltate dalla legge
delle tavole, che allo spaesamento de-responsabilizzante dello ski resort
oppone l’appaesamento complesso e necessariamente rischioso che segue il
territorio, lo studia, lo legge e lo rispetta, consapevole dei pericoli, volto
decifrare i segnali della montagna per evitare che diventi la sua tomba.
Ovviamente questa è solo una parte, una visione della storia. Lo
snowboardista free-ride non coincide certo con lo snowboarder contemporaneo,
gradualmente reintrodotto entro l’alveo della rispettabilità, internalizzato
entro le logiche capitaliste, reso assolutamente mainstream, recuperato nelle pose, negli abbigliamenti e nelle
movenze entro l’ethos totalizzante dell’alternativo di consumo. Oggi lo
snowboardista è ben tollerato dentro le piste in quanto fonte di guadagno
irrinunciabile, e del fuori-pista ha sempre più spesso perso le tracce,
impaziente, de-responsabilizzato. Allo stesso tempo gli sci seguono la lezione
della tavola, divenendo sempre più sciancrati, sempre più corti, sempre più
larghi, sempre più veloci. Fino a render le racchette inutili. Fino a che
snowboardisti e sciatori finiscono entrambi rinchiusi in parchi giochi
demenziali: snow-park, spaesamento assoluto, spazio uniforme per antonomasia,
in cui la montagna scompare nella sua singolarità per divenire pienamente
seriale, parcellizzata, ovunque la stessa, non importa se ci si trovi in
Colorado, nel Brenta, in Giappone, a Dubai. La tavola termina il suo percorso
di appaesamento montano in queste riserve, così come lo skateboard conclude il
suo appaesamento urbano negli skate-park civilizzati, zone di esclusione in cui
scatenare una trasgressione che non trasgredisce più nulla se non se stessa,
esibizionismo autoreferenziale privo di ogni conflittualità. Che snow-park e
skate-park possano essere, e siano spesso, assolutamente divertenti non toglie
che in essi il potenziale provocatorio, nomadico ed errante che tali pratiche
incorporavano è irrimediabilmente sfrondato, sedentarizzato, disattivato, ed in
quanto tale, capitalizzato.
È nella singolarità dell’appaesamento dunque, nel suo irriproducibile corpo
a corpo con il territorio, che sta la divergenza sostanziale tra il nomadismo
errante della forma di vita Pleistocenica ed il nomadismo seriale,
neutralizzato ed innocuo, che solca lo spazio liscio del capitale. Tornare a
pensare il primo significa disattivare la macchina produttiva di senso che
alimenta il secondo, aprendo corpo e pensiero all’incontro con la contingenza
assoluta del territorio.
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