Paleovino | Neobirra




Paleovino | Neobirra
di Matteo Meschiari


Solo paragonando e contrapponendo forme e saperi del vino e della birra, anziché interpretarli separatamente, si può impostare in modo corretto il problema della loro “preistoria”. Concentrarsi infatti sulle più antiche attestazioni documentarie o sulle tracce archeologiche più remote è certamente avvincente, ma rischia di comprimere e appiattire una profondità temporale e antropologica di ben altro rilievo.


Per approcciare il problema si può fare un ricorso infedele alle categorie lévi-straussiane del crudo e del cotto, anche se, per scelta, lo farò a un livello piuttosto epidermico. La verifica andrebbe infatti condotta su  miti e riti connessi al vino e alla birra che qui non permettono nemmeno una rapida evocazione, mentre dovrebbero essere metodicamente inventariati, classificati e analizzati. Lavoro in corso. Quello che faccio qui, invece, è un rapido tentativo di ascrivere alle due categorie sopracitate le materie, le tecniche e le funzioni sociali del vino e della birra, un raffronto indiziario per verificare se nella sincronia contrastiva emergono elementi che permettono di ipotizzare un quadro diacronico, e dunque di esprimere un’ipotesi su una fase arcaica anteriore alle più antiche attestazioni.

Ora, in modo abbastanza agile da verificare, e con una tenuta stringente fino al dettaglio, il vino sembra essere un oggetto culturale “crudo” mentre la birra pertiene più coerentemente al “cotto”. Non mi dilungherò in un catalogo e non produrrò una tabella sinottica che rischierebbero di far inacidire la freschezza del discorso, ma mi limiterò a evocare in modo molto schematico alcuni elementi nodali. Noteremo così che, in modo sistematico e quasi infallibile, crudo e cotto, naturale e artificiale, semplice e composito, elementare e complesso, caratterizzano rispettivamente gli universi del vino e della birra, ovviamente nella loro invariante tradizionale e prima delle moderne tecnologie.

Anzitutto le materie prime: uva e grano. Per quanto vi sia chi sostiene la sua origine asiatica, e in particolare indiana, l’uva esiste in Europa fin dal Paleolitico. La Vitis vitifera silvestris cresce spontanea, abbarbicandosi ai tronchi e ai rami degli alberi. Per essere fruita pienamente non richiede coltura intensiva e abitudini stanziali. La raccolta da una singola pianta è relativamente abbondante ed è ottenuta con poco sforzo. Se il frutto viene usato per ricavarne il succo e non per il consumo diretto, il rapporto quantitativo tra liquido e solido resta comunque alto. Il vino deriva poi in modo semplice e diretto dalla pigiatura dell’uva e di norma non richiede additivi. I fermenti sono contenuti nella buccia del frutto e la fermentazione avviene in natura, talora già direttamente sulla pianta.
Per quanto riguarda la birra, i cereali sono presenti allo stato selvatico già nel Paleolitico, ma è col Neolitico che vengono portati e sistematicamente usati in Europa. La loro produzione, per avere un qualche effetto sostanziale, deve essere intensiva, protratta e laboriosa, e implica conseguentemente uno stile di vita stanziale. La birra non utilizza solo un sottoprodotto cerealicolo, come il pane o il malto, che richiedono una fase di cottura, ma ha bisogno di additivi come l’acqua e, nelle birre che potremmo definire “moderne”, il luppolo e il lievito. La fermentazione non è spontanea ma indotta, e non è agevolmente controllabile. Empiricamente, in origine, era ottenuta e incrementata introducendo miele o frutta fermentata nei tini, oppure utilizzando contenitori usati per conservare frutta, o infine tramite reinoculo, cioè aggiungendo birra già fatta in birra da farsi.

Già da questo primo confronto si nota che l’universo della birra è più articolato e complesso, ma l’opposizione è palese anche sotto altri aspetti, come quello della contiguità tra materie prime e processo produttivo. Tradizionalmente l’azienda vinicola sorge infatti nei pressi del vigneto, il viticoltore è anche produttore, il legame tra la terra e il prodotto finito è cioè stretto e diretto. Lo stabilimento di birra invece non sorge quasi mai nelle adiacenze del campo d’orzo, al contrario della malteria che lo lavora. Questa cesura implica almeno un trasporto di materie lavorate. Il vino poi è prodotto contestualmente alla vendemmia, solo in una precisa stagione dell’anno. Si inserisce quindi in una temporalità ciclica e cosmologica. La birra, con la conservazione dei cereali, è invece sottratta alla produzione stagionale ed è fabbricata tutto l’anno. Si emancipa così dalla circolarità del tempo cosmico e aderisce a una temporalità tipicamente umana e al tempo stesso “carnevalesca”. Questo rapporto di prossimità o di distacco dalla terra di origine, ovviamente, solleva problemi di ordine simbolico, ad esempio nell’opposizione tra rustico e urbano, per non parlare della percezione identitaria, perché sappiamo molto bene che il topos è indissociabile dal genos. Si pensi allora allo sciovinismo del vino in opposizione all’afflato apolide della birra...

Entrando però in merito alle tecniche di produzione, va detto che il mosto era ottenuto tradizionalmente attraverso una tecnica che potremmo definire “nuda e cruda”, cioè pigiando l’uva scalzi, e questo avveniva generalmente all’aperto, una vera e propria con-fusione tra corpo e materia che instaurava una condizione certamente ricercata di esposizione e disordine. La birra invece, in tutte le sue fasi, richiede l’uso di strumenti di brassage usati in un contesto chiuso, veri e propri utensili iperculturali che servono a interporre una distanza fisica e simbolica tra uomo e prodotto lavorato. Che separino il corpo crudo dal forno che brucia o dal liquido in putrefazione, la loro funzione è quella di proteggere l’uomo dall’aggressione del disordine e il prodotto dalla contaminazione fisiologica. Orgia e controllo, dunque, e anche baccano e silenzio, se si pensa alle rumorose feste dell’uva da un lato e alle prime fabbriche monastiche di birra dall’altro. Ed è proprio l’elemento sonoro che aiuta a uscire da una superficialità intuitiva per individuare il corto circuito strutturale che è al nocciolo di questo sistema di simmetrie inverse. Perché il baccano non è semplicemente e passivamente consustanziale al disordine, ma serve a significare la comparsa di una discontinuità sociale.

Forse è a partire da qui che possiamo cominciare a spiegare la più vulgata catena di opposizioni tra vino e birra. Nonostante il primo sia caratterizzato da un processo crudo, anticulinario e orgiastico e la seconda da un processo cotto, sofisticato e isolante, ciò nondimeno assistiamo a una brusca inversione di segno nella funzione sociale. Un po’ alla rinfusa: élite vs massa, nobile vs volgare, costoso vs cheap, tavola vs strada, qualità vs quantità, ebbrezza vs ubriachezza, messa vs carnevale, testa vs ventre, meditazione vs sballo, silenzio vs rumore, densità vs leggerezza, asciuttezza vs gonfiore, fino all’archetipo-cliché per eccellenza del sangue e dell’urina, con tutte le possibili declinazioni (fisio)simboliche. Guardando più da vicino il processo produttivo, notiamo però che l’inversione di segno è già contenuta in nuce: mentre nel vino la fermentazione naturale avviene all’inizio del processo e poi viene bloccata culturalmente attraverso il travaso aerobico, nella birra la fermentazione come processo naturale arriva per induzione solo in un secondo tempo. Mentre il vino nasce cioè dalla terra muovendo progressivamente verso la cultura e verso una socialità verticale, la birra comincia il suo percorso nel contesto squisitamente culturale della lavorazione cerealicola, ma sembra riavvicinarsi poi alla natura e a una socialità orizzontale. Varrebbe la pena osservare qui per inciso che i vini fermentati in bottiglia, bianchi o rossi, non alterano la tenuta del sistema ma anzi la rafforzano, dato che proprio il loro essere frizzanti, “mossi”, li destina a una funzione sociale borderline di brindisi e di disimpegno festivo molto diversa da quella riservata ai più seriosi vini fermi.

L’archeologia ci informa che la crescita controllata delle uve risale al 6000 a.C. mentre la domesticazione dell’orzo e del frumento rimonta all’8000 a.C. Tracce di acido tartarico, che indica con certezza la presenza di prodotti a base di uva, sono state ritrovate nella Mezzaluna fertile in giare di terracotta del IV millennio a.C., mentre sedimenti di birra in giare egizie di età predinastica risalgono a metà tra il VI e il V millennio a.C. Quasi tutti i ricercatori sono concordi nel dire che la birra è venuta prima del vino, e quasi certamente è vero in termini di produzione “industriale”. Ma la riflessione condotta fin qui intorno a modi e tempi delle materie prime come a modi e tempi del processi produttivi, lascia pensare che la scoperta del vino sia anteriore all’invenzione della birra. Se poi torniamo a considerare gli itinerari procedurali e socioculturali del vino e della birra e la loro simmetrica e opposta inversione di segno, è legittimo chiedersi se non si sia in presenza della spia sincronica di una discontinuità diacronica.


Non possiamo infatti eludere il problema: in quale tipo di società un oggetto culturale, il vino, diventa il marcatore di un passaggio dal crudo al cotto e, vice versa, in quale tipo di società la birra raccoglie la funzione significante del bisogno di reinoculare la selvatichezza naturale in un sistema preordinato di regole?  Forse la stessa identica e unica società, che in un movimento di sistole e diastole si territorrializza e deterritorializza ad infinitum. Ma questo è vero nelle società complesse, e soprattutto nell’idea di società moderna che ci siamo procurati. Torniamo invece ai fatti essenziali della preistoria. Il vino e la birra nascono nel passaggio dalle culture paleolitiche a quelle neolitiche, e gli scenari sociali di questa complessa transizione sono rigidamente due: piccoli focolai di agricoltura intensiva in un vasto continente di cacciatori-raccoglitori. Risulta abbastanza spontaneo pensare che miti e riti del vino e della birra siano invenzioni di una civiltà neolitica che da un lato ricorda il proprio passato paleolitico e dall’altro lo reinocula in sé per la sua indispensabile funzione “carnevalesca”. Ma come Enkidu nell’Epopea di Gilgamesh o i leoni di Assurbanipal a Ninive rappresentano il selvatico preneolitico che viene finalmente addomesticato, così la selvatichezza immediata, non metaforica e non in via seconda del vino sembra evocare una memoria più antica. Il prius logico naturale coincide allora con un prius storico culturale? Siamo in presenza di una o due preistorie? Il vino è preneolitico e la birra è pienamente neolitica? Né l’archeologia né l’analisi delle fonti documentarie ci possono essere d’aiuto, e anche l’antropologia strutturale deve fermarsi qui.



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