Il Cervo
di Makhno Boucher


Quando l’acqua era nera e il vento la increspava sotto la notte vedevo una lama di selce nel pelo di un animale. Adesso che il fuoco mi tiene sveglio vedo i volti degli altri, l’odore del cibo è nell’aria, qualcuno si è addormentato. Tranne i rumori dell’attimo c’è silenzio. Tuo figlio sta aspettando. Vuole che parli dell’acqua, degli animali che ci abitano come ossa. E tra poco parlerò, allungherò una mano verso il fuoco, farò un cerchio con l’indice e il pollice e sputerò nella cenere. Tra poco farò come sempre, ma questa volta è per te, anima mia. L’acqua era nera anche allora, il vento che la tagliava sotto la notte ce la faceva vedere così, come la fine, e come l’inizio.


La neve ha sparso cenere sui versanti, l’uomo è un cacciatore di idee, solo qualche fiamma scivola sui rami. Vedo le piste degli animali come punti cuciti dal buio, impronte d’erba, nere sulla membrana dei pendii. Sono passati questa notte, mentre tutti dormivano, salendo scendendo attraversando, e sono andati via. Quando sono venuto a cercarti eri sveglio, acqua, vento, seduto al solito posto. Era un mattino come oggi, hai salutato tuo figlio, rami, abbiamo preso il sentiero di destra.

Le foglie non erano gialle, non erano rosse, si muovevano come il sogno che mi hai detto quando credevi di cadere. Cadevi lentamente dalla scarpata ma dicevi che no, non era come volare, perché eri rigido come un ramo in una corrente del cielo, le macchie dell’erba delle pietre delle cose sulle rive si muovevano come si alza e si abbassa nel sonno il petto di un figlio. Non abbiamo mai capito come fanno le foglie, tuo figlio dice racconta, brace che rotola, sappiamo che arrivano e se ne vanno, sbadiglio, ma tu capivi come restano, e non ce l’hai mai detto. Allora continuo. Racconto ciò che so.

Quando ci fu abbastanza luce per guardare là in fondo vedemmo gli altri che si davano da fare. Lasciavano impronte nella neve che diventavano erba. Erano molto lontani.

Sembrano animali.
Ma non sai cosa fanno, dissi.
Puoi seguirli, prenderli con gli occhi.
E dopo che li hai presi?
Li capisci.
Ma non lo sai di preciso.
No, non lo so.
Lo vedi tuo zio?
Sì.
E tua sorella?
Non la vedo.

Ecco, dissi, non sai mai di preciso, e tu ti sei girato verso il masso di mezzo, frana, scarpata, che dovevamo raggiungere. Le nuvole erano state veloci, scavalcarono il crinale. Non portavano neve, solo se stesse, poi via.

La pietra del torrente levigava la notte. Datemi da bere. Ascoltate. È pioggia. Non è neve. Sta ancora piovendo. Il caldo ci porterà. Adesso racconto.

Padre e figlio. Le montagne uscivano dal gelo che avevano dentro. Le ombre si staccavano come slavine, ma più lente, il sole sarebbe arrivato più tardi. Noi eravamo oltre, stavamo scendendo la terza valle, il bosco ci veniva incontro. Prima gli odori in salita. Dopo il rumore dei torrenti, nei suoi vuoti di legno, terre. L’umido dell’erba e il fango della seconda torbiera erano saliti nelle ginocchia, le gambe erano pesanti, pensieri. Pensavamo alle notti di primavera, quando la buona stagione ci lascia e i laghi che si spezzano e le pozze nere di zanzare, notti che ci si gira senza dormire, niente è secco, neanche le parole. Ma era autunno, eravamo felici, volevamo andare avanti. E pensavamo al caldo, ma soprattutto all’inverno, i tronchi sapevano di muschio, un animale era passato di lì. Decidemmo di non cacciarlo, era troppo vicino. Lo avremmo ritrovato nei giorni difficili, sarebbe venuto lui, si sarebbe ricordato che non lo avevamo cercato. Io il padre. Tu mio figlio. Mi ricordo.

Camminammo a lungo. Tra gli alberi. Sui massi coperti di muschio. Ci fermammo a bere, continuammo, camminammo dove le barbe dei rami si allungano, dove la luce è sott’acqua, i pozzi del bosco, i pesci tra i rami, dicevi. Le cose restavano negli occhi anche quando li chiudevi. Poi la luce partì. Accendemmo un fuoco contro un macigno e cominciammo a ascoltare. Parlammo di tua madre, che adesso mi guarda, e parlammo di me.

Sei felice?
Perché?
Sei felice di me?
Certo. Sono felice.
E del resto?
Sono felice di te, dissi.

I rami sulle teste crepitavano, una polvere di corteccia cadeva sulla fiamma e si accendeva, come passi di insetti. Allungammo le gambe per asciugare le ossa. Tu guardavi il fumo, io guardavo il fumo inseguire il tuo sguardo.

Faremo buona caccia?
La caccia è sempre buona.
Anche se non prendiamo niente?
È allora che è più buona.
Anche se poi hai fame?
Anche se poi hai fame.
Dimmi una cosa.
Cosa?

Abbiamo parlato, e le braci erano quelle di adesso, le loro vene pulsavano appena. Al contrario di ora non volevo altra legna. Lasciammo morire il fuoco. Guardammo fino a credere in un ultimo rosso, ma l’ultimo rosso era partito, aveva lasciato un fantasma nel fondo degli occhi, poi anche il fantasma se n’è andato via. Allora ti sei steso al mio fianco e hai sognato qualcosa che non mi hai detto. Al mattino avevi i brividi, ma aperti gli occhi hai sorriso. Certo, avevo detto, sono felice di te.

Al torrente ti ho lavato la faccia. Eri unto di fumo e avevi terra nei capelli. Ti ho chiesto delle ginocchia. Sto bene, hai detto. Va bene, ho detto io, ti credo. Invece le mie ginocchia facevano male, fu meglio sulle colline. Uscivamo. Lasciavamo il bosco per risalire i polmoni delle brughiere, sabbia. Non erano sentieri, ma vuoti e pieni attraversati dall’aria. Guardammo in alto. Il bordo delle frane era verde, l’erba sulla cresta si muoveva, ma secca. Il crinale era una fila di cavalli, il vento girava l’erba, era acqua nel pelo degli animali. Salimmo lungo i coni di frane, guardavi ogni pianta, le piante, vive, morte, i legni portati dalle slavine, i mucchi di sabbia tra i massi, la sabbia, fredda, le felci, i licheni. Guardavi come se non bastasse. Intanto il dorso di terra si torceva nella mia testa, cercava spazio, sceglieva in me il cammino. Trovai una pista, il collo il dorso la coda dei crinali. Cammina piano. Non svegliarli.

Ricorda. Camminavamo tra i sassi e tu che parlavi dei licheni. Non avevo mai sentito una storia così. Dicevi che i licheni non sono uno a uno ma sono tutti assieme, tutti in una volta. Qui, altrove, dove non andremo, un tempo, domani, quando li vedi, quando non ci sei. Eri sempre stato strano ma ti avevo difeso da tutti, anche da tua madre, che ti voleva uguale a sé, o uguale a me. Ma neanche a me assomigliavi. Forse in quel tempo assomigliavi ai licheni. Me li raccontavi mentre andavamo, camminavamo i cavalli di terra, c’ero solo io, anima mia. Amavo le tue stranezze.

Ecco come facemmo. Camminammo lungo il crinale per mezza giornata e quando la luce cominciò a andarsene scendemmo in una valle sassosa dove c’era dell’acqua, un lago di scioglimento, neve. Nel lago non c’era niente tranne il doppio rovesciato delle nubi che scivolava sotto la riva. Bevemmo, mangiammo qualcosa, impilammo qualche pietra. Perché il fuoco non bruci il vento, avevi detto. Faceva freddo. Quando il fuoco si spense guardammo il cielo e ripetemmo gli animali nelle costellazioni d’autunno. L’oca, la mandria di renne, la stella del tuo animale, la mia, e ci addormentammo con il vento che serpeggiava nella cenere. Feci un sogno. C’eri tu e c’ero io, e una bambina di due anni che era uscita dai boschi. Una muta di leoni girava attorno alla bambina come un vortice di fango ocra, lei non aveva paura, ma tu hai detto qualcosa che non si è capito, i leoni hanno lasciato la bambina e sono venuti verso di noi. Poi non c’eri più, e io fronteggiavo il leoni da solo. Ascolta. Perdonami. Nel sogno ho detto il nome del tuo animale. Non volevo che i leoni mi divorassero, infatti sono scomparsi. Lo sai che da sveglio non lo farei mai. Ma quando sei tornato avevi in braccio la bambina, eri triste e non potevi parlare. Allora mi sono svegliato. Ho steso il mio braccio su di te. Dormivi. Un uccello che non avevo mai sentito, ghiacciaio, morena, gridava nelle macchie a valle. Il dorso dei boschi si gonfiava più giù. Ci siamo mossi prima dell’alba.

Lo hai visto per primo. Un’andatura inferma. Era un vecchio che saliva lungo il torrente e sembrava ferito. Si vedeva che era ferito anche da molto lontano. Lo guardammo mentre avanzava e quando fu a un tiro di sasso gli rivolgemmo la parola.

Ci siamo visti?
Non credo, disse lui.
Sei ferito?
Sì.
Hai bisogno di qualcosa?
Ho tutto quello che ho.
Hai fame.
Non mangio da giorni.

Gli lanciammo qualcosa da mangiare perché non voleva avvicinarsi. Anche noi non volevamo che lo facesse. Era ferito, qualcuno lo aveva colpito, la sua storia era solo sua, non volevamo prenderne un pezzo per noi.

Cosa vi devo?
Niente.
Cosa posso fare?
Puoi dimenticare.

Allora addio, e riprese a camminare. Andava senza ragione verso la neve. Il ghiacciaio là in alto era grigio, ossa spezzate, ma l’autunno lo aveva macchiato di neve. Il cielo era basso, terra, e aveva un colore di ossa. Forse nevicava, nevischio, aria. Un crollo di detriti, lontano. Il vecchio sarebbe rimasto lassù.

A sera accendemmo un fuoco.

Credi che sia morto?
Non ancora.

Il ventre del cielo pulsava nelle sue luci. La sua materia era liquido nella testa. L’immagine del vecchio si dissolse e dormimmo senza sogni.

Tuo figlio si è alzato per ravvivare la fiamma. Non c’è così freddo. Questo tempo mi rattrista. La neve arriverà troppo tardi, come da qualche anno, le foglie arriveranno troppo presto, come da qualche anno, gli animali si spostano con altri ritmi, molti non tornano più. Tu cosa pensi? Dovremmo andarcene? Dovremmo seguirli? Li stiamo già seguendo per dove non torneremo?

Lo so. So anche questo. L’occhio del cervo vede tutto. Gli passiamo davanti come braci nel blu, siamo sagome accecanti dentro la notte dei rami. Il suo orecchio sente tutto. Nel rumore intrecciato della foresta sceglie l’erba calpestata dal passo, lo stelo spezzato è come un sasso che rotola. Il naso del cervo sa tutto. In un solo respiro distingue sei odori, ma quello dell’uomo gli brucia, spreme angoscia nei muscoli, lo strappa via, tendini, grasso, come una slavina. Per noi è diverso. Il suo rosso è una macchia di sangue. Di giorno non c’è niente di più forte. Di notte è come il resto, nero nel nero, è perso. E quella notte, la terza del racconto, un cervo adulto si era fermato a guardarci. Era arrivato a due braccia dalla cenere, aveva annusato il nostro respiro. Dormivamo senza sognare, mani fredde, polsi, e una volta che ci svegliammo il nostro sogno fu lui. C’era solo una traccia. Ma una traccia è una parola che non si rimangia. Lo sai tu. Lo so io. Lui non lo sa.



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