La sera del nostro arrivo
di Maurizio Corrado

[da Viaggio al Polo]

La sera del nostro arrivo Utàq ha voluto festeggiare. È una specie di capo villaggio, issumatàr, colui che pensa molto, il saggio, diremmo noi, ma anche il nalagàq, il capo, come Pàapa. Il suo è l’iglù più grande, ma stavamo seduti pigiati stretti l’uno all’altro, Utàq in piedi distribuiva da mangiare con generosità tra le grida e le risate, tutti si divertivano un mondo alla luce delle poche lampade che bruciavano grasso di foca, masticavano in continuazione, gli uomini si vantavano delle ultime cacce. Due donne si sono alzate al centro, si sono messe l’una di fronte all’altra tenendosi per le braccia e hanno cominciato a fare versi strani, di gola, ansimi a ritmo, crescendo e abbassandosi, dopo un po’ ho cominciato a riconoscere una specie di melodia fra quei suoni gutturali e mi sono improvvisamente tornate in mente le notti sulla Tara con Juk che ansimava sopra di me. Keinguàk il dottore sembrava estasiato, tutti accompagnavano muovendosi a ritmo, senza mai smettere di masticare e chiacchierare e ridere ad alta voce. Faceva caldo. Qualcuno si è tolto la krulitak rimanendo a torso nudo con indosso solo i nanos, i pantaloni di pelle d’orso, fra le risate generali. Non ho mai visto gente così allegra. Mangiavano e ridevano. Keinguàk fissava una delle due donne che cantavano, mi ha detto che erano sorelle, Tunoq e Qungaq, Grasso di renna e Sorriso, a lui piaceva Sorriso. Aveva scelto apposta l’iglù di Angutisugsuk, l’omonimo, per starle vicino.


La festa diventava sempre più chiassosa, al canto delle due si erano unite altre voci e ricamavano melodie, parevano antiche più della nenia sentita alle Orcadi. Keinguàk era inebriato, io non avevo osato ancora bere il sangue di foca che veniva passato in un recipiente di osso, lui ne andava ghiotto, con le labbra ancora insanguinate nel frastuono che ci circondava mi raccontava di Qungaq che s’infilava alla sera sotto le pelli di caribù completamente nuda e di come lui le si era sdraiato accanto e mentre tutti dormivano si era avvicinato, le aveva sfiorato la pelle, lei dormiva o faceva finta, ma oltre non aveva osato andare e ora mentre ansimava forte abbracciando la sorella la guardava con occhi d’innamorato, il sangue gli colava dalla bocca come colava dal cranio fracassato di Lonn, ma insieme al canto delle Orcadi ormai apparteneva alla vita di un altro, non era neanche più un ricordo, simile alle immagini che si formano nella mente durante un racconto, mi fluttua irreale davanti evocato da quel sangue che Keinguàk asciuga passandosi la manica della krulitak sulla bocca ipnotizzato dall’ansimare delle sorelle che contagia i vicini e si espande nel gruppo che mastica e sussulta a ritmo, anche le risa mi sembrano andare a tempo. Keinguàk mi fissa e mi dice: io lo so chi l’ha ammazzato! io lo so! e Lonn mi appare davanti, urla anche lui a ritmo con gli altri, urla ordini ai pitti arrampicati sulle sartie incuranti delle raffiche di vento con le loro gonne pesanti e il torace nudo tatuato e la memoria ricama mappe sulla loro pelle, mappe del polo, sento la voce di Keinguàk ansimare rivelando che al centro, esattamente al Polo Nord, c’è la Roca Negra, un’immensa roccia nera magnetica, è lei che attrae le lancette delle bussole, è lei che attrae certi uomini, irrimediabilmente, li attira a sé per poi farli sprofondare nell’oceano nero, è della sua materia che è fatto quell’oceano, pietra liquida, quella nella quale stavo per affogare come sprofondo ora fra i corpi pigiati nell’iglù, onde furiose, si passano il cranio di Lonn colmo del suo sangue, Keinguàk sa chi l’ha fracassato e mi guarda fisso, sono stato io, sono stato io! sono stato io? Cerco nella mente ma trovo solo paura e dolore, come una cascata mi si rovescia addosso il fragore del silenzio dei centinaia di giorni passati al buio sull’Erebus e ora è la mia vita che torna, assassinata da quel cranio sul legno del ponte che il mio bastone aveva sfondato, mi sembra di vederlo in mano a Pualuna, si è alzato in mezzo al gruppo, sta con le ginocchia piegate, il corpo in avanti, il bastone è una costola di foca, lo batte contro un piccolo tamburo, il suono è cupo, oscuro, Keinguàk dice che è il qrialùt, pelle di stomaco di cane tesa fra due costole di tricheco e mentre nella mia mente cane e tricheco si fondono in una bestia fantastica, Pualuna comincia a cantare, aya ya ya, ayaya ya ya, si muove dondolando.

Ay! I canti usano la forza e io cerco le parole.
Ecco il canto, ecco il ricordo.
E sono solo io a cantare.


Gli altri intorno prendono il ritmo, l’iglù sembra galleggiare su di un mare di corpi ondeggianti, Pualuna aumenta il ritmo, a ya, ya ya, ansima, le parole sono incomprensibili, arrivano dal fondo nascosto del tempo, il cranio di Lonn pieno di sangue mi arriva fra le mani, bevo, Juk mi fa dei cenni fra le onde dei corpi e nuotando fra braccia e schiene sudate si avvicina, mi si aggrappa e urla: Suona, ragazzo! Suona, Dorapalùk! Suona per gli Inuit! Fisso la costola di renna che batte frenetica sulla pelle di cane, il bastone, l’oboe! In una specie di trance mi alzo, passo fra le onde di carne, cado e affondo fra corpi semi nudi e ancora quella sensazione di soffocamento, annego, annaspo, mi rialzo, esco.

L’aria gelata mi risveglia di colpo. Guardo in alto. Il cielo è giallo. Il sole un uovo arancione immobile sospeso a poche dita dalla banchisa piatta. In una montagna di nuvole il mare si muove sollevando vascelli di ghiaccio traslucido.

Raggiungo l’iglù di Pualuna. Mentre tossisco, già un’abitudine per annunciarmi, penso che è inutile, il vecchio è alla festa, entro e invece eccolo lì, seduto come mi aspettasse. Ha il mio astuccio davanti. Canta. 

Anima mia, dove ti sei nascosta?
Lascia che ti trovi.
Sei salita nelle regioni del cielo?
Sei scesa negli abissi del mare?
Anima mia, dove ti sei nascosta?
Lascia che ti ritrovi qui
su questa terra.


Immagine: Isola degli uomini fiamma, Juan Miguel Almendro


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