Campus
di Francesco Gori

L’anno scorso mi è capitato di trascorrere alcuni mesi alla University of Chicago, per finire la tesi di dottorato.


Fin dal primo contatto con Hyde Park, il campus dell’università, mi sono reso conto che era un habitat insalubre per me, e sono andato a vivere con un cameriere, un ragazzino e un alcolizzato in un appartamento nel quartiere portoricano, a due passi dai six corners, il cuore della città. Ogni giorno mi occorreva un’ora e mezzo per raggiungere il campus con i mezzi. Questo significa, mutatis mutandis, che è il campus a essere lontano un’ora e mezzo da Chicago. Sorge infatti all’estrema periferia sud, separato dal resto della città dal più grande e temibile ghetto nero d’America. Per gli “hydeparkers”, gli abitanti candeggiati del campus, attraversare le lande sconfinate del ghetto è un  po’ come attraversare le miniere di Moria, infestate da orchi e balrog. Per questo non si avventurano quasi mai a Chicago, città di cui hanno una conoscenza per lo più libresca, o basata sul sentito dire. Per la maggior parte del loro tempo se ne stanno rintanati nel campus, che è una cittadella a tutti gli effetti, fornita di tutti i servizi.
Nonostante fossi animato dalle migliori intenzioni, mi sono bastati pochi giorni per capire che non sarei riuscito a sopravvivere nel campus, per questo ho preso casa “fuori”, cioè “dentro” la città, senza un’idea precisa, senza concetto, seguendo solo una sorta di “istinto di sopravvivenza cognitiva”. Di seguito, riporto alcune considerazioni che ho annotato al mio ritorno, per spiegare anzitutto a me stesso il motivo della mia scelta così antieconomica, dato anche che l’inverno il termometro è sceso fino a -40° e tutto si poteva desiderare tranne che starsene un’ora e mezzo a spasso per la città per raggiungere il proprio luogo di lavoro.

Il Campus universitario all’americana limita enormemente l’universo percettivo di chi lo abita. È una rarefazione della molteplicità, una distruzione dell’esperienza, della possibilità stessa dell’evento. Non a caso è un luogo militarizzato, con poliziotti a ogni angolo e con tanto di colonnine SOS lungo le strade per segnalare alla regia del Truman Show ogni anomalia nello spettacolo e chiedere aiuto.
Il campus della University of Chicago è una sorta di overlap teriomorfo tra Harry Potter (nell’architettura) e Truman Show (nella regia). La sensazione di far parte di un reality show è rafforzata dalla presenza ubiquitaria delle colonnine per il soccorso, a cui ricorrere nel caso accadesse qualcosa che rompe la continuità dello show. Il che fa di esso una mortificazione permanente dell’ispirazione, perché incoraggia solo il pensiero lineare, focalizzato sui propri obiettivi – fossero essi anche obiettivi cosiddetti “artistici” e “creativi” – non offrendo alcuno spunto al cosiddetto “pensiero laterale”, che governa i processi creativi.
Occorre sfatare un mito culturale inveterato: la distinzione tra “discipline” creative e “discipline” tecniche sulla quale è basata la frammentazione dei saperi e degli insegnamenti universitari, così come la connotazione sociale delle professioni, è un volgare fake. I concertisti da orchestra, ad esempio, nella maggior parte dei casi sono dei tecnici formidabili che non lasciano alcuno spazio all’improvvisazione e alla creatività comunemente intesa; eppure li chiamiamo artisti, perché così vuole la nostra cultura. Dall’altra parte, gli imprenditori, i dirigenti d’azienda, gli artigiani, gli avvocati, gli economisti, gli ingegneri, etc., che siamo inclini a considerare aridi “tecnici”, sono costantemente portati al pensiero laterale, a improvvisare, a trovare soluzioni creative a problemi inaspettati, a inventarsi nuove vie per svolgere il loro lavoro. La percezione culturale dei ruoli è una convenzione ingessata e spesso completamente errata.
Il campus universitario americano è rigorosamente separato dalla vita della città, con i suoi imprevisti, i suoi pericoli, e suoi innumerevoli eventi spontanei. Esso è progettato per implementare a fondo questo artificio culturale. Tutto lo spettro delle professioni socialmente accettate viene trasformato in discipline d’insegnamento, a cui viene assegnato uno spazio architettonico riconoscibile, tangibile, abitabile. I mestieri diventano discipline teoriche, che diventano luoghi fisici. Il mito culturale della divisione del lavoro si scolpisce nella pietra degli edifici, diventa percettibile col corpo, imprimendosi in maniera indelebile nella cera dell’apparato percettivo di chi vi abita. La messa in scena è così pervasiva da non essere visibile, e si finisce inavvertitamente per crederci. La nostra mente – e con essa i nostri pensieri, le nostre opinioni e le nostre ideologie – è il prodotto del paesaggio in cui si è formata ed è quotidianamente immersa. Matteo Meschiari ha elaborato un’antropologia generale a partire da quest’idea, la “teoria della mente paesaggistica” (LMT, Landscape Mind Theory). Intervenire sul paesaggio e sull’architettura significa ipso facto intervenire sul paesaggio cognitivo di chi lo abita, ridisegnarne la mente riprogrammandone i canali percettivi. Come diceva il vescovo di Berkeley, “esse est percipi”, l’essere coincide col percepire, non solo l’essere degli oggetti che ci circondano, ma anzitutto e primariamente il nostro stesso essere di individui percipienti. Gli spazi architettonici, dunque, non si limitano a offrirci un riparo dalle intemperie, ma sono dispositivi percettivi e in ultima istanza dispositivi ontologici, oltre che ideologici: creando il nostro spazio percettivo definiscono anche i contorni del nostro essere e contribuiscono in maniera decisiva anche alla formazione delle nostre credenze.
Il campus universitario, creando un paesaggio percettivo omogeneo, non è uno spazio neutro, ma un dispositivo culturale, ideologicamente orientato. Dal punto di vista semiologico esso è a tutti gli effetti un medium, vale a dire un supporto materiale che veicola delle informazioni, come le pagine di un libro o la tela di un quadro. E come tutti i media, la sua azione è tanto più persuasiva quanto meno è visibile la sua natura mediatica: quando la cultura riesce a occultare i propri media – i supporti, gli artifici di cui si avvale per trasmettersi – la si prende per natura, per fatto incontrovertibile, per legge cosmica e immutabile. È questo il principio di ogni fascismo: occultare i propri mezzi per spacciarsi per natura. Tutte le informazioni mediate si espongono al filtro critico di chi le riceve: una notizia su un giornale contiene sempre due messaggi, il fatto narrato + il giornale su cui compare, con il suo orientamento, la sua politica editoriale, il suo linguaggio, il suo target di lettori. È questa una legge intrinseca della comunicazione. I cosiddetti mass media, in questo senso, sono sempre onesti, per il fatto stesso che si presentano come media, vale a dire come cultura, offrendo al pubblico la possibilità di esercitare la propria autonomia. Molto più subdoli sono i media criptati, che ci forniscono informazioni – vale a dire interpretazioni, per loro stessa essenza opinabili – contrabbandandole come fatti naturali, incontrovertibili. Se è facile riconoscere un giornale o un canale televisivo come medium, molto più arduo è riconoscere i cripto-media che popolano il nostro paesaggio quotidiano, i dispositivi percettivi che ci inoculano informazioni senza concederci di attivare il firewall del pensiero critico. Uno di essi è il campus universitario.   
All’interno del dispositivo-campus tutte le discipline e le possibili carriere vengono livellate e indirizzate forzosamente nell’unico canale possibile del pensiero lineare.  E questo a discapito di ciò che accade in aula. Talvolta alla University of Chicago mi è capitato di assistere a seminari entusiasmanti, capaci davvero di rompere gli schemi e di infondere nuova linfa nei miei circuiti cognitivi, purtroppo, però, durava un’ora soltanto, poi uscivo e mi reimmergevo nel “Truman Potter” show del campus, con i suoi palazzi tutti uguali, le sue strade prive di negozi e di eventi, la sua pulizia sospetta, le sue colonnine antipanico, i bus navetta che ti raccattano per strada e ti accompagnano direttamente a casa (!), la sua popolazione omologata di accademici e studenti stressati tanto uguali a se stessi da sembrare davvero delle comparse selezionate da una regia. Il paesaggio percettivo del campus, la sua capacità di stimolazione sensoriale, è di una tale aridità di inibire ogni ispirazione.
L’ispirazione è, tecnicamente, quello che si suole definire un evento: una breccia di inatteso tra le pieghe del quotidiano. Città caotiche e multietniche come New York e Parigi sono stati dei grandi bacini di ispirazione, non solo artistica e letteraria, ma anche scientifica, economica, imprenditoriale, etc. in virtù della loro capacità di ultrastimolazione percettiva, proprio come le giungle primordiali, con la loro varietà di animali, piante, colori, suoni, odori, pericoli. Passeggiando per le loro strade si poteva incontrare chiunque e poteva accaderci di tutto, anche cose spiacevoli. La paura rientrava nella paletta delle emozioni quotidiane, ed entro un certo limite anch’essa è un fattore stimolante, perché tiene all’erta facendoci escogitare comportamenti adeguati e strategie di sopravvivenza. La stessa paura che è anestetizzata dalle colonnine SOS nel campus di Chicago. Il dolore e la follia erano altre cose che s’incontravano per strada: barboni, pazzi, insensati che delirano per le strade, che sbraitano nei parchi e nei tunnel del metro, musicisti e artisti di strada che giocano sulla frontiera delle convenzioni sociali. Anche di tutto ciò non vi è la minima traccia nel campus di Chicago, e sempre meno si trovano anche nelle grandi metropoli un tempo così selvagge.
Nel campus tutte le emozioni divergenti rispetto alla focalizzazione produttiva – la paura, il disagio mentale, il delirio, il disordine, la demenza, ma anche il gioco, l’ironia, il disimpegno – sono state accuratamente sterilizzate in un trionfo della morale puritana orientata allo scopo. Per le strade del campus nessuno passeggia, nessuno erra, vaga, va a zonzo: tutti hanno una meta, un obiettivo, un luogo da raggiungere, un carico di lavoro da svolgere, sia esso anche puramente fittizio, come ingurgitarsi degli astrusi readings per seminari senza capo né coda nelle discipline più esoteriche. Gli studenti non parlano di studio, di ricerca, di passione, ma di lavoro, anche quando l’oggetto del “lavoro” è la poesia di Melville o di Shakespeare o la pittura o il teatro. A Chicago, sia detto per inciso, non si fa teatro, ma “arte drammatica”, perché tutto va preso maledettamente, puritanamente sul serio, anche lo scherzo di un clown.
Ogni mattone del campus, ogni filo d’erba dei suoi pratini all’inglese, ogni caffè delle sue caffetterie standardizzate e autorizzate, è intriso di etica protestante e spirito del capitalismo. Il paesaggio percettivo che ne risulta è quanto di più deprimente si possa immaginare. Provando, in uno slancio di immaginazione sfrenata, a  pensare l’impensabile, mi verrebbe in mente un artista di strada sulla 55esima strada, di fronte alla cupola vetro-acciaio della biblioteca del campus, oppure un barbone, o un corteo studentesco, o un vecchietto che aspetta l’autobus, o un rasta che porta a spasso un cane, o dei bambini che giocano a calcio in una strada secondaria. Fa lo stesso effetto che pensare al papa protagonista di un film porno: è il fuori contesto più stridente che si possa immaginare.

Tutto ciò che è spontaneo ed evenemenziale – tutto ciò che, semplicemente è città o, che è lo stesso, foresta – è stato bandito per sempre dalle strade igienizzate, sterilizzate, candeggiate del campus. Strade grigie, pulite e ordinate, masse disciplinate di studenti, faculty members e personale amministrativo che marciano ordinatamente verso lo scopo cui ciascuno è preposto. Ognuno con una funzione, ognuno con uno obiettivo, che gli penzola davanti al naso come un’invisibile carota.


3 commenti:

  1. beh, considerando che ogni 2 settimane c´é qualcuno ch fa un astrage in un campus americano, le colonnine antipanico mi sembrano una buona idea.....

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  2. Ciao GiovanniB, grazie per il tuo commento. Mi farebbe piacere che tu lo svolgessi, perché tocca un punto molto serio, anzi drammatico, che io ho tralasciato. Qual è la tua riflessione? Ti andrebbe di contribuire con un articolo?

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