Cormac McCarthy - La strada























La strada di Cormac McCarthy ha vinto il “Pulitzer 2007”, mentre il “Nobel 2007” a Doris Lessing dimostra che i grandi premi hanno un significato molto politico e poco letterario. Nel caso di McCarthy, il “Pulitzer” è quasi un mistero, perché la sua scrittura è politicamente scorretta, molto maschile, in certi casi quasi misogina, dunque poco adatta alle preoccupazioni pudiche del comitato dei “Nobel”. Ma in realtà il “Pulitzer 2007” non è un mistero: è un premio autentico, conferito per la grandissima qualità letteraria del libro, e conferito soprattutto con intelligenza, perché arriva a McCarthy per un’opera che si stacca in qualche modo dalla sua produzione precedente.



La strada o Meridiano di sangue: immagino già nei prossimi anni la discussione tra i partigiani dell’uno o dell’altro, tra quelli che considerano McCarthy il più grande in assoluto. Anche io lo considero il più grande, assieme a Melville, Hemingway e Faulkner (recitano così anche le quarte di copertina… ), e tra i due libri ho scelto La strada, per alcune ragioni che esporrò qui, forse male, forse nell’agitazione, ma per ragioni che sono le stesse per cui vorrei che un vero amico lo leggesse. La strada è una storia lineare, quasi senza flashback, senza slittamenti di piani e di prospettiva, è un racconto in cui fabula e intreccio coincidono smentendo l’imperativo romanzesco. Anche lo stile, sempre molto potente, è schiacciato, asciugato, senza i grandi affreschi epico-barocchi di Meridiano di sangue. Sembra che questa volta McCarthy abbia voluto desertificare ancor più la scrittura, la storia, il paesaggio, è come se i deserti tra Messico e Texas non gli bastassero più, ci voleva qualcosa di più definitivo, di irreversibile. Siamo dunque nel postapocalisse nucleare. Un padre cerca di sopravvivere per far sopravvivere il figlio, anche se sa che il futuro non esiste più. I due umani attraversano un mondo calcizzato, vetrificato, senza foglie d’erba, con alberi neri e stecchiti come pali del telegrafo. L’aria piena di cenere è ovunque, come ovunque sono i pericoli, e le carcasse di case, di auto, di uomini. I pericoli vengono dalla fame, dalla mancanza di acqua non contaminata, da bande di sopravvissuti assassini, dalla perdita della speranza. In tutto questo il padre e il bambino sono attaccati a una strada, pericolosamente, necessariamente, come al cordone ombelicale di una Terra morta. Quella strada non possono lasciarla, perché li guida verso est, verso il mare, e anche perché oltre quella strada non c’è niente, tranne materia grezza inattraversabile. È però sulla strada che si fanno gli incontri peggiori, sempre uguali, sempre inumani, con dei “cattivi” capaci delle peggiori atrocità, quelle a cui McCarthy ci ha abituato nei suoi violentissimi libri. Padre e figlio avanzano comunque, trovano il mare, ma su quel mare c’è solo il mare, nient’altro, solo la fine della storia. Perché La strada è tutta qui, è solo se stessa, senza metafore, e con un epilogo senza remissione che rovescia il cervello e l’anima come un guanto. Davvero, il libro è tutto qui. O meglio, la storia. Perché il libro è Il vecchio e il mare di questi anni, di anni in cui letterariamente e umanamente vengono al pettine i nodi di un Postmoderno che è morto, assieme alla sua stucchevole ironia, l’11 settembre di qualche anno fa. La strada è insomma il libro che personalmente aspettavo da una ventina d’anni, è il libro che ho letto in una notte calma, mentre mia figlia e la madre di mia figlia dormivano di sopra. È il libro che in quella calma fuori dal mondo mi ha lacerato e commosso come mi accadeva solo da ragazzo: sono salito in camera, mi sono allungato vicino alla carne della mia carne come un sopravvissuto, come un padre destinato a morire ma ancora vivo, e ho ringraziato Dio, gli dei, me stesso, il caso, di essere ancora là e di avere un cuore caldo e pulito di umanità a pochi centimetri dal mio. Basterebbe questo per leggere il più bel libro in prosa degli ultimi anni. Ma La strada è anche il libro che oltre a tutto il resto mi ha fatto credere di nuovo, oggi, alla potenza della parola. Mi sono detto che se vivo in un tempo in cui qualcuno come McCarthy scrive, allora non posso lamentarmi di attraversare un’epoca di epigoni e di nani. I grandi ci sono e, come sempre, come da sempre, ci indicano “la strada”, proprio qui, proprio ora. Per una volta, insomma, non si tratta di parlare di stile o di scrittura, ma di una parola-racconto potente e ultima come quella del cacciatore che, attorno al fuoco di volti e di silenzi, dice la preda e il predatore di sempre, dice le cose che contano su tutto il resto: viaggiare, sopravvivere, amare. Il libro è arrivato in Europa da pochi mesi, in Francia non è ancora stato pubblicato, ma anche da noi, come in America, diventerà (immagino) un magnete di discussioni tra i lettori attenti. Le ragioni sono molte, la più forte delle quali è che si tratta di un libro che assomiglia a un tremendo testamento collettivo: una Terra distrutta, un’umanità irredenta, un padre e un figlio che sono l’ultimo nocciolo di luce nelle tenebre vittoriose. Uno specchio non tanto di quello che saremo continuando a depredare il pianeta, ma uno specchio di quello che siamo già, abitati da una fame di roba che ci ha già portato alla perdizione, che ha già tirato fuori il peggio di cui siamo capaci come specie. Leggendo La strada si avverte da subito questo azzeramento severo del tempo e della Storia. Padre e figlio vivono in una specie di Paleolitico prossimo venturo, sono i portatori del fuoco, e McCarthy accende qua e là spie evidenti per additare questo corto circuito temporale tra futuro e passato, per mostrare come il presente, il nostro presente ignaro e autocompiaciuto, sia portatore in sé dell’inizio e della fine, del Tutto e del Niente, della luce e del buio. Perché il solo errore che si potrebbe fare leggendo questo libro è di scambiarlo per una “favola avveniristica dalla pregnante carica metaforica”, come direbbero i venditori di cultura. Di avveniristico invece non c’è niente, semplicemente McCarthy ha scelto il dopobomba perché aveva bisogno di un deserto ultimo in cui far scomparire l’inessenziale, le distrazioni, il troppo umano. I frammenti di paesaggio, più che parlare dell’apocalisse, parlano di una crosta terrestre aliena, di un mondo minerale acido morto tagliente come un grosso asteroide, di una Terra altra che non ci ha “rigettato”, ma che semplicemente continua a rimuovere le sue lente marmellate geologiche senza di noi. Personalmente ci sento molte cose, dalla critica sociale de La macchina del tempo di Wells fino a autori che probabilmente McCarthy non ha letto, come il Juan Liscano di Fundaciónes, autori che come lui proiettano l’uomo in un Fuori così totale solo per obbligarci a relativizzare la nostra presenza qui e ora sulla Terra. Nel libro, l’ansia della ricerca del cibo che ormai, a meno che non si vogliano mangiare altri umani, è il cibo in scatola trovato in vecchie dispense scampate al saccheggio, è il qui e l’ora della nostra fame di oggetti di consumo, è il Niente che avremo di fronte al Tutto dei supermercati che abbiamo, ed è il Niente interiore rispetto al Tutto che avremmo potuto avere. L’insistenza di McCarthy sul cannibalismo dei pochi sopravvissuti, da cui solo il padre e il figlio non sono toccati, va più in là delle atrocità che la sua penna sa evocare come paesaggi in distanza. Si tratta, ancora una volta, non di una facile metafora filosofico-ambientalista sull’uomo che divorando il pianeta sta divorando se stesso, ma della constatazione disincantata che l’autodistruzione è codificata in noi come un fatto “naturale”, e che le eccezioni sono eccezioni senza sbocco. Una specie di antropologia negativa, per criticare il concetto di Storia e la sua retorica tronfia, per sgonfiare la P di Progresso, e per salire sempre più in basso verso gli archetipi primordiali della specie (alcune scene di notturni, di sogni cattivi, di gioia semplice andrebbero custodite come icone di arte rupestre di un Pleistocene a venire. Sono frammenti che con la loro bellezza disperata battono il corpo dell’anima come una saga islandese). Ma questo annullare il tempo, questo portarci in un futuro anteriore e in un passato remoto per parlare dell’eterno presente della sconfitta umana, non è il vero cuore del libro. Non questa volta. Leggendolo si vedrà che la forza delle pagine è anche in questo aprirsi a mille interpretazioni, ma credetemi, a McCarthy non interessa, a lui non importa scrivere per parabole. Quello che davvero conta per lui è la storia d’amore tra un padre e un figlio, una storia ancora più centrata sulla paternità proprio perché la madre, annichilita dalla mancanza di futuro, abdica alla propria maternità, nega alla radice il mito stucchevole della dea-madre, e se ne va, scompare nella sua tenebra solipsistica lasciando marito e figlio a se stessi. Resta allora l’essenziale, restano due uomini, uno grande e uno piccolo, legati da un vincolo ancestrale, patrilineare e fraterno, un vincolo che ha valore nonostante tutto. Il nulla che circonda i due uomini è la notte su una fiamma d’acciarino: se la fiamma si spegnerà, la sua bellezza è l’unica cosa che avrà contato in questo mondo. Ecco perché leggere La strada: non perché è un classico assoluto, o perché ci mette in guardia dalle patologie della specie, o perché è scritto in modo magistrale, ma perché contro ogni tendenza attuale, che lo si creda o no, e per ragioni che vanno ritrovate in noi, ci racconta che essere padri è la chiave della salvezza.

Matteo Meschiari

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