La linea d'acqua
di Matteo Meschiari
Era come scivolare su una rapida. La luce scendeva nello stomaco dell’acqua e il nero ingrigiva. Lo stagno si caricava di riflessi come le penne di un uccello. La luce scendeva, ma i cipressi conficcati nella palude restavano neri, simili a pali dopo un incendio notturno. Poi sentimmo il frullo delle ali. Passarono davanti a noi dove lo stagno si rompeva nell’erba come un tuorlo nel buio. Scendevano sullo schermo dell’acqua. Con un po’ più di luce le avremmo viste sdoppiarsi, diventare otto, dieci, poi posarsi in un suono sfrangiato e tornare cinque, quattro, circondate da anelli di silenzio sempre più larghi, sempre più lenti.
Invece si accorsero di
noi e in quattro o cinque U vertiginose provarono a risalire.
John ne intercettò una
e tirò.
La linea in salita si
spezzò, l’inerzia le fece descrivere in senso opposto un arco leggero e il
punto di arrivo fu un pugno attutito nell’acqua.
Lasciai la presa e il
cane scrosciò fuori dalla canoa. Quasi affogato di gioia nuotò verso il
groviglio galleggiante laggiù, lo riportò al cacciatore.
Good boy.
Lo sparo aveva rotto
le acque. Il giorno era là.
Hai qualche minuto?
Sì, disse, cosa devo
scrivere?
Annotò alcuni dati per
rispondere alle mie domande, poi non chiesi altro e lui continuò a pensare, a
annotare.
Camminando lungo la Big Sow Road abbiamo visto un cervo
stazionare sulla Short Road. Matteo si è appoggiato alle gambe di un treppiede
da appostamento. Dopo aver osservato il cervo (una piccola femmina) per circa 5
minuti, udimmo muoversi nell’acqua un secondo cervo che si avvicinava al primo.
La seconda femmina era più grande, ma era schermata dall’erba alta. Aspettammo
ancora 10-15 minuti prima che salisse in un punto utile per un tiro scoperto.
Il tempo intercorso tra l’avvistamento del primo cervo e il tiro è stato di
circa 15-20 minuti.
Al colpo entrambi i cervi sono corsi nel bosco verso la
nostra sinistra. Era chiaro che il cervo era stato colpito bene. Aspettammo
circa 3 minuti e andammo al punto in cui si trovava il cervo. C’era sangue dai
polmoni. Procedemmo nella direzione in cui aveva corso e lo trovammo morto, a
circa 30 iarde dal punto in cui era stato colpito.
Il giorno prima non
avevo mai tirato, il giorno dopo avevo un cervo per terra. Ero stato io. Era
due giorni fa.
John aveva smesso di
scrivere.
Un’ora dopo mi
toglievo la tenuta mimetica, indossavo pantaloni e camicia di jeans e salivo su
una macchina per tornare in Georgia.
Tra
le parole di John scritte sul mio taccuino e i fatti di quella fine dicembre
intorno al Savannah River c’è il mio bisogno di raccontare il selvatico.
Raccontarlo è un po’
come occuparsi della bestia che si è uccisa. C’è chi la porta così com’è a
macellare e c’è chi si sente responsabile e accetta tutti i se e i dopo del
proprio gesto, con il turbamento cruento che ne deriva.
Capite
bene, non voglio dire che raccontare il selvatico è un affare sporco da cui ci
si lava le mani, proprio come non ci si deve sentire sporchi a scuoiare e
macellare con le proprie mani l’animale che si è cacciato. Voglio dire che per
portare la carne a casa bisogna fare tutto in un certo modo, da tirare il
grilletto a rendere ai boschi la pelle e la carcassa dell’animale.
Durante
il nostro secondo giorno di caccia abbiamo parlato di queste cose, di come un
gran numero di cattivi cacciatori stia facendo male alla caccia e di come un
numero troppo limitato di buoni cacciatori sia testimone e depositario di una
bellezza che solo raramente prende le vie della parola, del racconto, e
raggiunge chi è abbastanza aperto per giudicare certe cose con la propria
testa.
Aldo Leopold, Jim
Kilgo, Richard Nelson, Ted Kerasote, ad esempio, ma sempre troppo pochi per
fare breccia nelle coscienze.
Comunque stiano le
cose, il bisogno di raccontare la mia prima caccia al cervo ha a che vedere
soprattutto con la luce, l’attesa, con il beccheggio del mirino, con il
sottobosco di palme nane attorno al corpo dell’animale steso per sempre tra le
foglie.
Siamo partiti da Aiken
verso le tre del pomeriggio con due ore di luce davanti a noi.
Il paesaggio di case e
campi ritmava il silenzio in modo ipnotico.
Guardavo fuori dal
finestrino e aspettavo l’inizio della conversazione.
John non è persona di
molte parole, ma una volta lasciata indietro la città, lentamente, con frasi
via via più lunghe, comincia a fare quello che solo le vere guide sanno fare:
fornire le indicazioni essenziali su quello che ci si accinge a vivere, per
prefigurare la scena, e per ridurre le sorprese.
Una specie di lezione
indiretta su come le cose dovrebbero svolgersi, con un “noi faremo” che
significa “tu devi fare”, ma che proprio nella scelta della forma ti fa sentire
parte di un evento già speciale in sé.
Il suo modo di
parlare, sempre riflessivo, mai una parola di troppo, mi ricordava il tono
riservato e monocorde della mia guida alpina, quando più di vent’anni prima
avevo cominciato a frequentare i ghiacciai. Entrambi mostravano una speciale forma
di pudore che può essere scambiata per timidezza, ma che in realtà è la principale
attitudine dell’uomo che passa molto tempo a contatto con il proprio lato
selvatico.
Era una cosa che avevo
già notato due anni prima, quando ero uscito a cacciare con lui. Io non avevo
il fucile e avevo avuto tutto il tempo per osservarlo.
Ricordo soprattutto
l’espressione dei suoi occhi nel tentativo di individuare il cervo nel
groviglio del sottobosco al crepuscolo. Un misto di attesa e di acutezza ferina
con una punta di freddezza selvatica, lo sguardo da rettile di certi uccelli
acquatici.
Vuoi? Mi porse la
busta del tabacco.
Misi una presa in
bocca e cominciai a sputare.
Non è facile in un
buco così piccolo, John disse.
Avevo provato a
sputare in una lattina di soda e avevo sbagliato il buco.
No, dissi io, sono
abituato ai bicchieri di carta.
Sì, disse lui. E non
aggiunse altro per un miglio.
La luce stava
cambiando e qualcosa mi diceva che fuori dal furgone avrei avuto freddo.
L’inverno era mite,
nei giorni dopo ci sarebbero state le zanzare, ma quel pomeriggio c’era
abbastanza freddo per ricordarci che dicembre era alla fine.
Intanto la strada si
ispessiva di tratti di bosco.
È bello viaggiare in
macchina negli Stati Uniti. Guardare le case e i campi con le vacche che
ruminano, o gli alberi che passando via forzando indietro la pupilla. Ma in
quei trenta minuti di tragitto ero distratto da altre immagini che si
sovrapponevano al paesaggio.
Nella cucina di casa
sua John mi aveva mostrato alcune fotografie di cervi in varie posture. Su
ognuna di esse mi aveva indicato con il dito dove si trovava il punto giusto
per sparare all’animale, dentro una specie di trapezio rovesciato tra il cuore
e la spalla e comprensivo dei polmoni.
Le immagini erano in
bianco e nero, il che le rendeva più astratte, e quello che mi si era stampato
nella memoria era il bianco del pelo all’interno della zampa anteriore. Quel
bianco è come un segnale di via libera per cercare il punto esatto nell’animale
che si presenta di lato.
Quando è frontale la
cosa è più elementare, devi mirare in mezzo al petto. Ma nel libro le
fotografie di quel tipo erano rare, e la possibilità di trovarmi in quella
situazione mi parve improbabile.
Il bianco e nero delle fotografie esprimeva
bene il mio stato d’animo, l’impressione di essere nella cosa ma come a
distanza, come se ad agire fossero gli eventi e io fossi là ad assistere a un
me stesso molto semplificato che si accingeva a andare a caccia.
Non sapevo nemmeno se
avrei tirato. Non sapevo niente. Era come se la decisione di cacciare presa
qualche mese prima mi stesse portando in modo automatico alle reali conseguenze
del gesto.
La licenza di caccia
di tre giorni. Due fucili sul sedile di dietro. La prova di tiro contro un
bersaglio di cinque centimetri a cinquanta passi di distanza.
Docilmente mi lasciavo
portare dalle correnti del pomeriggio verso uno spazio non ancora cartografato,
come le acque di un fiume che vanno oltre ma che restano sorde a se stesse.
Scendemmo dal furgone
lasciandolo in mezzo alla strada sterrata.
La tenuta in cui
stavamo per cacciare si chiamava Beech Island Tract, un appezzamento di qualche
centinaio di ettari di boschi e paludi sfruttato da una compagnia di legname e
affittato al Berryhill Hunt Club.
Nel parcheggio di un
distributore di benzina, in una bacheca riservata al club, John segnalò la
nostra posizione di caccia su una fotografia satellitare della zona. Poi andò
alla stazione di servizio e ritornò con due pacchetti di tabacco.
Tieni, disse.
Prendemmo una strada
interpoderale e guidammo in direzione del Savannah River. Qualche centinaio di
metri prima delle sponde voltammo a destra, dove una sbarra di metallo gialla e
arrugginita chiudeva un accesso alla tenuta.
Sempre in furgone ma a
passo d’uomo percorremmo un tratturo erboso chiamato Big Sow Road, poi ci
fermammo e ci preparammo a scendere nei boschi.
John mi aiutò a
inserire tre colpi calibro 270 nel Ruger M77 appartenuto a Jim Kilgo.
Misi il rifle a
tracolla, infilai i guanti, allacciai la lampo della giacca mimetica, aggiustai
il berretto, mi incamminai dietro di lui.
Troppo breve.
Troppo breve perché ad
appena venti passi dal furgone guardammo a destra in quella che chiamano la
Short Road, e al limite del bosco, nell’erba alta, vedemmo una femmina di
cervo.
Appoggiati lì, disse
John.
C’era un tripode da
appostamento che guardava verso la Short Road, perché il corridoio tra i due
tratti di bosco era un punto di passaggio di cervi.
Io allungai il braccio
sinistro e afferrai una gamba del tripode. Posai il rifle lateralmente contro
il tubo di metallo, usando il pollice e l’indice che lo stringeva come
appoggio.
Guardai nel
cannocchiale. Vidi nero. Mi ricordai che non dovevo tenere l’occhio troppo
vicino alla lente. Allora il cannocchiale mi risucchiò laggiù, dove doveva
esserci il cervo.
Ma non c’era.
Staccai gli occhi dal
cannocchiale e lo cercai. Lo vidi alzare la testa. Vidi le macchie bianche delle orecchie e quella
scura del naso. Cercai un punto di riferimento. Lo ritrovai con il cannocchiale
e finalmente lo vidi.
Provai a centrare la
testa nell’incrocio del mirino. L’immagine tremolava come se la stessi
guardando attraverso uno strato di aria calda.
Staccai l’occhio. Mi
voltai verso John. Stava guardando con un binocolo.
Troppo piccolo, disse,
forse ne arrivano altri.
Il braccio sinistro
comincia a farmi male, dissi io.
John sorrise come per
dirmi che non poteva farci nulla, che tutto dipendeva da me, allora decisi di
non staccarmi dal tripode.
Ricordo che in quel
momento pensai tra sentimenti misti che negli ultimi tre mesi avevo tenuto in
braccio mia figlia, e che questo aveva indurito i miei muscoli. Potevo
resistere. Ma avevo anche voglia di abbassare il fucile, di dire a John ok,
possiamo andare, è ancora presto, non abbiamo neanche camminato nel bosco,
forse ne vedremo altri. Forse.
Restai dove ero.
Ricominciai a guardare
nel cannocchiale.
Fu allora che sentimmo
un tonfo nell’acqua.
Un secondo cervo stava
arrivando.
John lo vide molto
prima di me. Io sapevo dove guardare ma non lo vedevo. Era tra la strada e il
bordo del bosco, tra i rami e l’erba alta.
Strano.
Credevo di vederlo,
non lo vedevo, vedevo qualcosa muoversi, nessuna forma precisa, niente, poi
qualcosa, forse, poi niente.
Questa volta cercai un
punto di riferimento proprio vicino a quel muoversi grigio, un ramo obliquo
inconfondibile, e aspettai.
È una femmina più
grande, John disse.
Bene, dissi io.
Non sparare finché non
te lo dico.
Bene.
Aspetta un tiro
scoperto.
Va bene.
Quando il tiro è
scoperto tira quando vuoi.
Bene.
Intanto lo avevo
visto.
Avevo visto le macchie
bianche delle orecchie uscire un pelo sopra l’erba, ma niente muso. Le macchie
affondavano. Poi riaffioravano.
Mentre lo immaginavo
brucare non sapevo se avrei sparato. Non sapevo niente. La mia incompetenza
pesava sul gesto, l’immagine nel cannocchiale tremolava, volevo farlo davvero?
Hai via libera, disse.
…
Hai un tiro scoperto.
…
Puoi sparare.
…
Lo vedo, dissi io.
Il cervo si era mosso
leggermente sulla sinistra, verso il centro della strada, dove l’erba era più
bassa. Era in posizione frontale, guardava verso di noi, non accennava a
fuggire. Vedevo la testa, il petto, mirai proprio dove il giallo dell’erba
finiva e dove cominciava il grigio chiaro del pelo, una linea indistinta, come
tra veglia e sonno.
Staccai l’occhio
ancora una volta. Mi voltai verso John.
Posso?
Certo, disse lui.
Ritrovai l’immagine.
Ritrovai il punto tra erba e pelo. Inspirai profondamente, espirai lentamente,
feci pressione progressiva sul grilletto.
Il colpo.
Era
fatta.
Ma cosa?
Ci
ho pensato molte volte. E invece di idee complesse mi sono tornate indietro
delle immagini.
Una
porta girevole che ti risucchia verso l’animale.
Il
cuore dell’animale che risale lungo la traiettoria della pallottola e ti tinge
lo sguardo.
Uno
scambio di posizioni nello spazio: io dove si trova il cervo, il cervo dove mi
trovo io.
Uno
specchio in frantumi che il colpo fa ritornare intatto.
Un
tuffo senza un corpo che si tuffa.
Un
colpo di fucile.
Lo
hai preso, John disse.
Davvero?
dissi io.
Avevo visto i due
cervi scappare a sinistra nel bosco.
Sicuro
che l’ho preso?
Sì.
Da come si comporta è colpito. Ma aspettiamo.
Sì.
Passarono
due minuti molto lenti in cui tentai di ricreare nella mente ciò che avevo
visto nel mirino.
Avevo visto un punto
nell’erba poco sotto il pelo dove avrei dovuto tirare. Avevo visto il mirino
beccheggiare. Avevo visto due lampi bianchi fuggire a sinistra. Ma nel momento
del colpo, mi resi conto, non avevo visto niente, come se una palpebra scura si
fosse abbassata.
Di
solito aspetto più tempo, dieci minuti, John disse, ma sta facendo buio, se
vogliamo seguirlo dobbiamo andare adesso.
Va
bene.
Aspettiamo
ancora un minuto però.
Va
bene. Non sapevo come avevo fatto. Era così lontano, così piccolo.
Andiamo,
disse.
Ok.
Camminammo
molto cautamente, per non fare rumore.
John
mi spiegò che dovevamo cercare il sangue nel luogo in cui era stato colpito,
poi seguire le tracce di sangue nel bosco.
Faceva
più buio e il verde si inscuriva.
Camminammo
per 85 passi, lo spazio tra me e il cervo. Poi John si inginocchiò e indicò due
foglie.
C’erano
tre piccole macchie di sangue, une delle tre era più rosa e c’era una specie di
grumo.
Sangue
dal polmone, John disse.
Marcò
il punto con del nastro colorato e prese una diagonale verso il bosco.
Fece
solo qualche passo, poi si girò all’improvviso annuendo con forza.
Eccola,
disse.
Feci
qualche passo e vidi anch’io.
Il
cervo era steso in una piccola depressione umida, tappezzata da foglie morte.
La testa era rivolta nella stessa direzione di quando lo avevo colpito, come se
una volta entrato nel bosco si fosse girato verso di noi e infine fosse caduto.
John
gli passò dietro con cautela, si chinò leggermente per guardarlo poi sfiorò
l’occhio spalancato con la punta del fucile.
Il
cervo non si mosse, l’occhio non si chiuse.
Allora
John si girò verso di me con un sorriso e un entusiasmo che in lui non
conoscevo, e che immagino raro.
Congratulazioni,
disse stringendomi la mano, il tuo primo cervo.
Dissi
uno stupido grazie.
Bel
tiro, aggiunse.
Davvero?
dissi io.
L’animale era morto,
era solo a 30 passi dal punto in cui era stato colpito, il colpo lo aveva
ucciso rapidamente, senza strascichi. Lo capivo anch’io. Era un buon colpo.
Ho avuto fortuna,
pensai.
Avevo immaginato anche
quello. Era la cosa che mi spaventava di più. Colpire male l’animale, seguirlo
nel bosco della sua sofferenza, finirlo a bruciapelo.
Davvero
un buon colpo, disse John, ho visto raramente un primo colpo così.
Fortuna
del principiante, dissi.
Fortuna
del principiante, rise lui, sei contento?
Sono
contento per me. E per lei, è morta subito.
Stavo
usando il pronome femminile.
Guardando
il cervo, prendendolo di mira, aspettando, ne avevo parlato a John sottovoce, e
sempre con il pronome neutro. Ma ogni volta che lui ne parlava diceva “She”, e proprio prima di tirare anche
io avevo detto “She”.
Per
un madrelingua è normale, ma nel mio inglese scolastico aveva la forza
dell’eccezione.
Avevo
ucciso una lei.
Poco
dopo ero solo. Erano i miei minuti.
John
era tornato indietro per cercare il furgone e io ero rimasto solo con lei.
Si
è trattato di qualche minuto.
Non
sapevo se dovevo scusarmi.
Mi
sono scusato.
Scusa
se ti ho preso, dissi. E il suono della mia lingua mi parve strano e fuori
luogo.
O forse erano le scuse
fuori luogo.
Mi
piegai sulla ginocchia e tolsi qualche foglia bagnata che era rimasta attaccata
al pelo.
Accarezzai
l’animale e anche attraverso il guanto sentii che era caldo.
Più
che accarezzarlo battei qualche pacca leggera sulle costole, come si fa con un
vecchio cane. Sentii i muscoli solidi e spessi.
Era
una cerva di quasi cento libre, di tre anni e mezzo, incinta di due mesi.
Quando
due ore dopo la stavamo macellando, John mi mostrò la placenta e mi chiese se
volevo vedere.
Sì,
dissi io. Ma non avevo voglia di vedere. Eppure dovevo. Avevo voluto un cervo?
Dovevo prendere tutto quello che il cervo portava con sé, visibile e
invisibile, morbido e duro.
Mi
guardai intorno per ricordare il momento.
Le palme nane, verdi
come cocci di bottiglia.
Il tappeto di foglie,
più scuro e umido nelle depressioni.
L’azzurro delle
cortecce. Le radici aeree.
L’odore della terra,
del pelo.
John mi lasciò
trascinare l’animale per qualche metro, dal luogo in cui era caduto fino alla
strada sterrata dove aveva parcheggiato il furgone.
Troppo
veloce. E troppo breve.
Troppo
veloce l’avvistamento, il tiro, la ricerca. Troppo breve il trascinare
l’animale, il riportarlo a casa. Due cose che il cervo mi stava regalando per
turbarmi, per rendere più complessa l’attribuzione di senso ai gesti e alle
emozioni di quel crepuscolo blu.
Alla
casa di caccia appendemmo il cervo e lo aprimmo.
Togliemmo
la pelle.
Il
vapore della carne contro la luce al neon.
Il
grasso caldo sulle mani.
Il
sangue e i tessuti esplosi in una gelatina nera, schiumosa.
Il
getto verde dal rumine da un’incisione involontaria.
La
pompa dell’acqua fredda sulle mani.
I
pezzi di carne scura nel contenitore del ghiaccio.
La
lama sotto l’acqua e il grasso che si gela sulla lama.
Il
rumore della testa che cade nella bacinella di lamiera.
Il
rumore della sega che taglia i garretti.
L’odore
della carne calda. Riuscirò ancora a mangiarla?
L’animale
fu diviso in tre parti. Una pronta da mangiare, una da lasciare al macellaio
per essere tagliata, una da gettare.
Quella
da gettare includeva la pelle attaccata alla testa, la carcassa, le quattro
zampe, le interiora. Sono rimaste tutta la notte nel furgone in attesa di
essere rese ai boschi.
In
realtà c’era anche una quarta parte.
John
è un biologo e per ragioni di studio conserva le mandibole destre dei cervi
cacciati dal club.
L’estrazione
è stato il primo gesto cruento a cui ho assistito. Un taglio sconcio dalla
bocca verso l’orecchio che ha sfigurato il muso.
L’ultimo
gesto cruento è stata la restituzione delle spoglie al bosco.
Abbiamo
rovesciato il contenuto della bacinella di lamiera in una pozza d’acqua scura
tappezzata di foglie.
La
testa era completamente intrisa di sangue, la pelle afflosciata contro di essa,
la carcassa convulsa, gli zoccoli sparpagliati.
Quello
che era un cervo giaceva proprio sulla linea d’acqua, né dentro né fuori dalla
pozza.
Credo
che in quell’attimo mi siano tornate in mente le pratiche sciamaniche di
ricomposizione dello scheletro dell’animale, qualcosa che ovviamente è molto
più profondo di un atto pietoso verso l’essere ucciso, ma che in fondo è
proprio questo, una specie di velo che si prova a stendere su una tristezza
infinita.
Mi
ero sentito triste a vedere il taglio lungo la guancia.
Adesso
mi sentivo triste per dovermi separare da un animale che in qualche modo mi
apparteneva, e di cui ero responsabile.
Salimmo
sul furgone e senza curare di pulirci le mani mettemmo in bocca un’altra presa
di tabacco.
La
sera prima, sulla via del ritorno, nel silenzio profondo che era calato sui
nostri gesti, John aveva imprecato tra i denti.
Cosa
c’è? chiesi io bevendo un altro sorso di birra.
Non
ti ho messo il sangue sulla faccia. È la tradizione.
Lo
so, dissi io. E bevvi un altro sorso.
Ok,
disse lui, non hai sangue sulla faccia, ma hai abbastanza sangue sulle mani.
Era
vero.
E quello che era
accaduto mi assomigliava.
Perché forse mi è
dispiaciuto di quella dimenticanza, ma la mia storia era quella, né più né
meno, e senza i suoi vuoti sarebbe stata la storia di qualcun altro.
Ci ripenso, vorrei
rispondermi.
Ho trentotto anni, da
tre mesi ho una figlia.
Mi chiedo: cosa mi ha
spinto a cominciare a cacciare così tardi, a uccidere una femmina di cervo, una
madre, in un bosco diverso, lontano un oceano da casa mia?
Quella notte ho
pensato a molte cose, ma nessuna aveva a che fare con le idee che mi ero fatto
da tempo.
Antropologia della
caccia, etica della carne cacciata contro quella che viene dai macelli, legame
di sangue che si instaura tra cacciatore e preda…
No. Potevo pensare
solo ai fatti del giorno, e i fatti erano immersi in un paesaggio in cui la
linea tra bene e male, tra giusto e ingiusto, tra gioia e dolore era una linea
d’acqua che forse cambia poco, ma cambia sempre con il vento.
Prima di farlo temevo
che avrei esitato, che avrei avuto paura a tirare. Temevo che avrei dormito
male, che il cervo sarebbe tornato nei miei sogni a chiedermi perché. Temevo
soprattutto di non avere abbastanza pensieri e parole e argomenti per
continuare a aderire al reale anche dopo quel tuffo selvatico.
In parte avevo
ragione.
Prima di addormentarmi
però, lungo la linea d’acqua tra malessere e benessere, ho sentito che la
risposta stava arrivando.
Avevo negli occhi
l’occhio sempre più spento del cervo, nero e profondo come un pozzo nell’erba
grigia. Il sangue che lampeggiava sulle mani, nero anch’esso, rivenire a
tratti, ma senza insistenza. Di nuovo il muso morbido, morto, ma ancora così
vicino alla vita da sembrare sospeso nell’aria.
La risposta stava
arrivando. Ma se è arrivata è arrivata nel sonno, e al mattino era tornata da
dove era venuta.
Le cose vanno così.
Ma prima di
addormentarmi ero certo di un fatto.
Quel cervo non mi
aveva procurato solo carne. Mi aveva fatto suo malgrado un antico ricatto, mi
aveva legato al di là del sangue.
Sentivo infatti
un’angoscia remota, diffusa.
Avevo voglia di
tornare nel bosco, e non era la voglia di terra che conoscevo da sempre. Era un
bisogno grave, come quando si medita sul vuoto che lasciano i morti, e sul
pieno percorso da inquietudini che si prova quando ti nasce un figlio.
Le due cose non si
sovrappongono mai, non si elidono, ma ti lasciano un bisogno di vita che
assomiglia a un bosco al crepuscolo attraversato dai cervi.
Athens (GA), Epifania 2007
Athens (GA), Epifania 2007
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