La linea d'acqua



La linea d'acqua
di Matteo Meschiari 


Era come scivolare su una rapida. La luce scendeva nello stomaco dell’acqua e il nero ingrigiva. Lo stagno si caricava di riflessi come le penne di un uccello. La luce scendeva, ma i cipressi conficcati nella palude restavano neri, simili a pali dopo un incendio notturno. Poi sentimmo il frullo delle ali. Passarono davanti a noi dove lo stagno si rompeva nell’erba come un tuorlo nel buio. Scendevano sullo schermo dell’acqua. Con un po’ più di luce le avremmo viste sdoppiarsi, diventare otto, dieci, poi posarsi in un suono sfrangiato e tornare cinque, quattro, circondate da anelli di silenzio sempre più larghi, sempre più lenti.



Invece si accorsero di noi e in quattro o cinque U vertiginose provarono a risalire.

John ne intercettò una e tirò.

La linea in salita si spezzò, l’inerzia le fece descrivere in senso opposto un arco leggero e il punto di arrivo fu un pugno attutito nell’acqua.

Lasciai la presa e il cane scrosciò fuori dalla canoa. Quasi affogato di gioia nuotò verso il groviglio galleggiante laggiù, lo riportò al cacciatore.

Good boy.

Lo sparo aveva rotto le acque. Il giorno era là.





Hai qualche minuto?

Sì, disse, cosa devo scrivere?

Annotò alcuni dati per rispondere alle mie domande, poi non chiesi altro e lui continuò a pensare, a annotare.

Camminando lungo la Big Sow Road abbiamo visto un cervo stazionare sulla Short Road. Matteo si è appoggiato alle gambe di un treppiede da appostamento. Dopo aver osservato il cervo (una piccola femmina) per circa 5 minuti, udimmo muoversi nell’acqua un secondo cervo che si avvicinava al primo. La seconda femmina era più grande, ma era schermata dall’erba alta. Aspettammo ancora 10-15 minuti prima che salisse in un punto utile per un tiro scoperto. Il tempo intercorso tra l’avvistamento del primo cervo e il tiro è stato di circa 15-20 minuti.

Al colpo entrambi i cervi sono corsi nel bosco verso la nostra sinistra. Era chiaro che il cervo era stato colpito bene. Aspettammo circa 3 minuti e andammo al punto in cui si trovava il cervo. C’era sangue dai polmoni. Procedemmo nella direzione in cui aveva corso e lo trovammo morto, a circa 30 iarde dal punto in cui era stato colpito.

Il giorno prima non avevo mai tirato, il giorno dopo avevo un cervo per terra. Ero stato io. Era due giorni fa.

John aveva smesso di scrivere.

Un’ora dopo mi toglievo la tenuta mimetica, indossavo pantaloni e camicia di jeans e salivo su una macchina per tornare in Georgia.





            Tra le parole di John scritte sul mio taccuino e i fatti di quella fine dicembre intorno al Savannah River c’è il mio bisogno di raccontare il selvatico.

Raccontarlo è un po’ come occuparsi della bestia che si è uccisa. C’è chi la porta così com’è a macellare e c’è chi si sente responsabile e accetta tutti i se e i dopo del proprio gesto, con il turbamento cruento che ne deriva.

            Capite bene, non voglio dire che raccontare il selvatico è un affare sporco da cui ci si lava le mani, proprio come non ci si deve sentire sporchi a scuoiare e macellare con le proprie mani l’animale che si è cacciato. Voglio dire che per portare la carne a casa bisogna fare tutto in un certo modo, da tirare il grilletto a rendere ai boschi la pelle e la carcassa dell’animale.

            Durante il nostro secondo giorno di caccia abbiamo parlato di queste cose, di come un gran numero di cattivi cacciatori stia facendo male alla caccia e di come un numero troppo limitato di buoni cacciatori sia testimone e depositario di una bellezza che solo raramente prende le vie della parola, del racconto, e raggiunge chi è abbastanza aperto per giudicare certe cose con la propria testa.

Aldo Leopold, Jim Kilgo, Richard Nelson, Ted Kerasote, ad esempio, ma sempre troppo pochi per fare breccia nelle coscienze.

Comunque stiano le cose, il bisogno di raccontare la mia prima caccia al cervo ha a che vedere soprattutto con la luce, l’attesa, con il beccheggio del mirino, con il sottobosco di palme nane attorno al corpo dell’animale steso per sempre tra le foglie.





Siamo partiti da Aiken verso le tre del pomeriggio con due ore di luce davanti a noi.

Il paesaggio di case e campi ritmava il silenzio in modo ipnotico.

Guardavo fuori dal finestrino e aspettavo l’inizio della conversazione.

John non è persona di molte parole, ma una volta lasciata indietro la città, lentamente, con frasi via via più lunghe, comincia a fare quello che solo le vere guide sanno fare: fornire le indicazioni essenziali su quello che ci si accinge a vivere, per prefigurare la scena, e per ridurre le sorprese.

Una specie di lezione indiretta su come le cose dovrebbero svolgersi, con un “noi faremo” che significa “tu devi fare”, ma che proprio nella scelta della forma ti fa sentire parte di un evento già speciale in sé.

Il suo modo di parlare, sempre riflessivo, mai una parola di troppo, mi ricordava il tono riservato e monocorde della mia guida alpina, quando più di vent’anni prima avevo cominciato a frequentare i ghiacciai. Entrambi mostravano una speciale forma di pudore che può essere scambiata per timidezza, ma che in realtà è la principale attitudine dell’uomo che passa molto tempo a contatto con il proprio lato selvatico.

Era una cosa che avevo già notato due anni prima, quando ero uscito a cacciare con lui. Io non avevo il fucile e avevo avuto tutto il tempo per osservarlo.

Ricordo soprattutto l’espressione dei suoi occhi nel tentativo di individuare il cervo nel groviglio del sottobosco al crepuscolo. Un misto di attesa e di acutezza ferina con una punta di freddezza selvatica, lo sguardo da rettile di certi uccelli acquatici.





Vuoi? Mi porse la busta del tabacco.

Misi una presa in bocca e cominciai a sputare.

Non è facile in un buco così piccolo, John disse.

Avevo provato a sputare in una lattina di soda e avevo sbagliato il buco.

No, dissi io, sono abituato ai bicchieri di carta.

Sì, disse lui. E non aggiunse altro per un miglio.

La luce stava cambiando e qualcosa mi diceva che fuori dal furgone avrei avuto freddo.

L’inverno era mite, nei giorni dopo ci sarebbero state le zanzare, ma quel pomeriggio c’era abbastanza freddo per ricordarci che dicembre era alla fine.

Intanto la strada si ispessiva di tratti di bosco.

È bello viaggiare in macchina negli Stati Uniti. Guardare le case e i campi con le vacche che ruminano, o gli alberi che passando via forzando indietro la pupilla. Ma in quei trenta minuti di tragitto ero distratto da altre immagini che si sovrapponevano al paesaggio.

Nella cucina di casa sua John mi aveva mostrato alcune fotografie di cervi in varie posture. Su ognuna di esse mi aveva indicato con il dito dove si trovava il punto giusto per sparare all’animale, dentro una specie di trapezio rovesciato tra il cuore e la spalla e comprensivo dei polmoni.

Le immagini erano in bianco e nero, il che le rendeva più astratte, e quello che mi si era stampato nella memoria era il bianco del pelo all’interno della zampa anteriore. Quel bianco è come un segnale di via libera per cercare il punto esatto nell’animale che si presenta di lato.

Quando è frontale la cosa è più elementare, devi mirare in mezzo al petto. Ma nel libro le fotografie di quel tipo erano rare, e la possibilità di trovarmi in quella situazione mi parve improbabile.

 Il bianco e nero delle fotografie esprimeva bene il mio stato d’animo, l’impressione di essere nella cosa ma come a distanza, come se ad agire fossero gli eventi e io fossi là ad assistere a un me stesso molto semplificato che si accingeva a andare a caccia.

Non sapevo nemmeno se avrei tirato. Non sapevo niente. Era come se la decisione di cacciare presa qualche mese prima mi stesse portando in modo automatico alle reali conseguenze del gesto.

La licenza di caccia di tre giorni. Due fucili sul sedile di dietro. La prova di tiro contro un bersaglio di cinque centimetri a cinquanta passi di distanza.

Docilmente mi lasciavo portare dalle correnti del pomeriggio verso uno spazio non ancora cartografato, come le acque di un fiume che vanno oltre ma che restano sorde a se stesse.



Scendemmo dal furgone lasciandolo in mezzo alla strada sterrata.

La tenuta in cui stavamo per cacciare si chiamava Beech Island Tract, un appezzamento di qualche centinaio di ettari di boschi e paludi sfruttato da una compagnia di legname e affittato al Berryhill Hunt Club.

Nel parcheggio di un distributore di benzina, in una bacheca riservata al club, John segnalò la nostra posizione di caccia su una fotografia satellitare della zona. Poi andò alla stazione di servizio e ritornò con due pacchetti di tabacco.

Tieni, disse.

Prendemmo una strada interpoderale e guidammo in direzione del Savannah River. Qualche centinaio di metri prima delle sponde voltammo a destra, dove una sbarra di metallo gialla e arrugginita chiudeva un accesso alla tenuta.

Sempre in furgone ma a passo d’uomo percorremmo un tratturo erboso chiamato Big Sow Road, poi ci fermammo e ci preparammo a scendere nei boschi.

John mi aiutò a inserire tre colpi calibro 270 nel Ruger M77 appartenuto a Jim Kilgo.

Misi il rifle a tracolla, infilai i guanti, allacciai la lampo della giacca mimetica, aggiustai il berretto, mi incamminai dietro di lui.

Troppo breve.

Troppo breve perché ad appena venti passi dal furgone guardammo a destra in quella che chiamano la Short Road, e al limite del bosco, nell’erba alta, vedemmo una femmina di cervo.

Appoggiati lì, disse John.

C’era un tripode da appostamento che guardava verso la Short Road, perché il corridoio tra i due tratti di bosco era un punto di passaggio di cervi.

Io allungai il braccio sinistro e afferrai una gamba del tripode. Posai il rifle lateralmente contro il tubo di metallo, usando il pollice e l’indice che lo stringeva come appoggio.

Guardai nel cannocchiale. Vidi nero. Mi ricordai che non dovevo tenere l’occhio troppo vicino alla lente. Allora il cannocchiale mi risucchiò laggiù, dove doveva esserci il cervo.

Ma non c’era.

Staccai gli occhi dal cannocchiale e lo cercai. Lo vidi alzare la testa. Vidi  le macchie bianche delle orecchie e quella scura del naso. Cercai un punto di riferimento. Lo ritrovai con il cannocchiale e finalmente lo vidi.

Provai a centrare la testa nell’incrocio del mirino. L’immagine tremolava come se la stessi guardando attraverso uno strato di aria calda.

Staccai l’occhio. Mi voltai verso John. Stava guardando con un binocolo.

Troppo piccolo, disse, forse ne arrivano altri.

Il braccio sinistro comincia a farmi male, dissi io.

John sorrise come per dirmi che non poteva farci nulla, che tutto dipendeva da me, allora decisi di non staccarmi dal tripode.

Ricordo che in quel momento pensai tra sentimenti misti che negli ultimi tre mesi avevo tenuto in braccio mia figlia, e che questo aveva indurito i miei muscoli. Potevo resistere. Ma avevo anche voglia di abbassare il fucile, di dire a John ok, possiamo andare, è ancora presto, non abbiamo neanche camminato nel bosco, forse ne vedremo altri. Forse.

Restai dove ero.

Ricominciai a guardare nel cannocchiale.

Fu allora che sentimmo un tonfo nell’acqua.

Un secondo cervo stava arrivando.

John lo vide molto prima di me. Io sapevo dove guardare ma non lo vedevo. Era tra la strada e il bordo del bosco, tra i rami e l’erba alta.

Strano.

Credevo di vederlo, non lo vedevo, vedevo qualcosa muoversi, nessuna forma precisa, niente, poi qualcosa, forse, poi niente.

Questa volta cercai un punto di riferimento proprio vicino a quel muoversi grigio, un ramo obliquo inconfondibile, e aspettai.

È una femmina più grande, John disse.

Bene, dissi io.

Non sparare finché non te lo dico.

Bene.

Aspetta un tiro scoperto.

Va bene.

Quando il tiro è scoperto tira quando vuoi.

Bene.

Intanto lo avevo visto.

Avevo visto le macchie bianche delle orecchie uscire un pelo sopra l’erba, ma niente muso. Le macchie affondavano. Poi riaffioravano.

Mentre lo immaginavo brucare non sapevo se avrei sparato. Non sapevo niente. La mia incompetenza pesava sul gesto, l’immagine nel cannocchiale tremolava, volevo farlo davvero?

Hai via libera, disse.




Hai un tiro scoperto.




Puoi sparare.




Lo vedo, dissi io.

Il cervo si era mosso leggermente sulla sinistra, verso il centro della strada, dove l’erba era più bassa. Era in posizione frontale, guardava verso di noi, non accennava a fuggire. Vedevo la testa, il petto, mirai proprio dove il giallo dell’erba finiva e dove cominciava il grigio chiaro del pelo, una linea indistinta, come tra veglia e sonno.

Staccai l’occhio ancora una volta. Mi voltai verso John.

Posso?

Certo, disse lui.

Ritrovai l’immagine. Ritrovai il punto tra erba e pelo. Inspirai profondamente, espirai lentamente, feci pressione progressiva sul grilletto.

Il colpo.





            Era fatta.

Ma cosa?

            Ci ho pensato molte volte. E invece di idee complesse mi sono tornate indietro delle immagini.

            Una porta girevole che ti risucchia verso l’animale.

            Il cuore dell’animale che risale lungo la traiettoria della pallottola e ti tinge lo sguardo.

            Uno scambio di posizioni nello spazio: io dove si trova il cervo, il cervo dove mi trovo io.

            Uno specchio in frantumi che il colpo fa ritornare intatto.

            Un tuffo senza un corpo che si tuffa.

            Un colpo di fucile.





            Lo hai preso, John disse.

            Davvero? dissi io.

Avevo visto i due cervi scappare a sinistra nel bosco.

            Sicuro che l’ho preso?

            Sì. Da come si comporta è colpito. Ma aspettiamo.

            Sì.

            Passarono due minuti molto lenti in cui tentai di ricreare nella mente ciò che avevo visto nel mirino.

Avevo visto un punto nell’erba poco sotto il pelo dove avrei dovuto tirare. Avevo visto il mirino beccheggiare. Avevo visto due lampi bianchi fuggire a sinistra. Ma nel momento del colpo, mi resi conto, non avevo visto niente, come se una palpebra scura si fosse abbassata.

            Di solito aspetto più tempo, dieci minuti, John disse, ma sta facendo buio, se vogliamo seguirlo dobbiamo andare adesso.

            Va bene.

            Aspettiamo ancora un minuto però.

            Va bene. Non sapevo come avevo fatto. Era così lontano, così piccolo.

            Andiamo, disse.

            Ok.





            Camminammo molto cautamente, per non fare rumore.

            John mi spiegò che dovevamo cercare il sangue nel luogo in cui era stato colpito, poi seguire le tracce di sangue nel bosco.

            Faceva più buio e il verde si inscuriva.

            Camminammo per 85 passi, lo spazio tra me e il cervo. Poi John si inginocchiò e indicò due foglie.

            C’erano tre piccole macchie di sangue, une delle tre era più rosa e c’era una specie di grumo.

            Sangue dal polmone, John disse.

            Marcò il punto con del nastro colorato e prese una diagonale verso il bosco.

            Fece solo qualche passo, poi si girò all’improvviso annuendo con forza.

            Eccola, disse.

            Feci qualche passo e vidi anch’io.

            Il cervo era steso in una piccola depressione umida, tappezzata da foglie morte. La testa era rivolta nella stessa direzione di quando lo avevo colpito, come se una volta entrato nel bosco si fosse girato verso di noi e infine fosse caduto.

            John gli passò dietro con cautela, si chinò leggermente per guardarlo poi sfiorò l’occhio spalancato con la punta del fucile.

            Il cervo non si mosse, l’occhio non si chiuse.

            Allora John si girò verso di me con un sorriso e un entusiasmo che in lui non conoscevo, e che immagino raro.

            Congratulazioni, disse stringendomi la mano, il tuo primo cervo.

            Dissi uno stupido grazie.

            Bel tiro, aggiunse.

            Davvero? dissi io.

L’animale era morto, era solo a 30 passi dal punto in cui era stato colpito, il colpo lo aveva ucciso rapidamente, senza strascichi. Lo capivo anch’io. Era un buon colpo.

Ho avuto fortuna, pensai.

Avevo immaginato anche quello. Era la cosa che mi spaventava di più. Colpire male l’animale, seguirlo nel bosco della sua sofferenza, finirlo a bruciapelo.

            Davvero un buon colpo, disse John, ho visto raramente un primo colpo così.

            Fortuna del principiante, dissi.

            Fortuna del principiante, rise lui, sei contento?

            Sono contento per me. E per lei, è morta subito.

            Stavo usando il pronome femminile.

            Guardando il cervo, prendendolo di mira, aspettando, ne avevo parlato a John sottovoce, e sempre con il pronome neutro. Ma ogni volta che lui ne parlava  diceva “She”, e proprio prima di tirare anche io avevo detto “She”.

            Per un madrelingua è normale, ma nel mio inglese scolastico aveva la forza dell’eccezione.

            Avevo ucciso una lei.





            Poco dopo ero solo. Erano i miei minuti.

            John era tornato indietro per cercare il furgone e io ero rimasto solo con lei.

            Si è trattato di qualche minuto.

            Non sapevo se dovevo scusarmi.

            Mi sono scusato.

            Scusa se ti ho preso, dissi. E il suono della mia lingua mi parve strano e fuori luogo.

O forse erano le scuse fuori luogo.

            Mi piegai sulla ginocchia e tolsi qualche foglia bagnata che era rimasta attaccata al pelo.

            Accarezzai l’animale e anche attraverso il guanto sentii che era caldo.

            Più che accarezzarlo battei qualche pacca leggera sulle costole, come si fa con un vecchio cane. Sentii i muscoli solidi e spessi.

            Era una cerva di quasi cento libre, di tre anni e mezzo, incinta di due mesi.

            Quando due ore dopo la stavamo macellando, John mi mostrò la placenta e mi chiese se volevo vedere.

            Sì, dissi io. Ma non avevo voglia di vedere. Eppure dovevo. Avevo voluto un cervo? Dovevo prendere tutto quello che il cervo portava con sé, visibile e invisibile, morbido e duro.

            Mi guardai intorno per ricordare il momento.

Le palme nane, verdi come cocci di bottiglia.

Il tappeto di foglie, più scuro e umido nelle depressioni.

L’azzurro delle cortecce. Le radici aeree.

L’odore della terra, del pelo.

John mi lasciò trascinare l’animale per qualche metro, dal luogo in cui era caduto fino alla strada sterrata dove aveva parcheggiato il furgone.

            Troppo veloce. E troppo breve.

            Troppo veloce l’avvistamento, il tiro, la ricerca. Troppo breve il trascinare l’animale, il riportarlo a casa. Due cose che il cervo mi stava regalando per turbarmi, per rendere più complessa l’attribuzione di senso ai gesti e alle emozioni di quel crepuscolo blu.





            Alla casa di caccia appendemmo il cervo e lo aprimmo.

            Togliemmo la pelle.

            Il vapore della carne contro la luce al neon.

            Il grasso caldo sulle mani.

            Il sangue e i tessuti esplosi in una gelatina nera, schiumosa.

            Il getto verde dal rumine da un’incisione involontaria.

            La pompa dell’acqua fredda sulle mani.

            I pezzi di carne scura nel contenitore del ghiaccio.

            La lama sotto l’acqua e il grasso che si gela sulla lama.

            Il rumore della testa che cade nella bacinella di lamiera.

            Il rumore della sega che taglia i garretti.

            L’odore della carne calda. Riuscirò ancora a mangiarla?



           

            L’animale fu diviso in tre parti. Una pronta da mangiare, una da lasciare al macellaio per essere tagliata, una da gettare.

            Quella da gettare includeva la pelle attaccata alla testa, la carcassa, le quattro zampe, le interiora. Sono rimaste tutta la notte nel furgone in attesa di essere rese ai boschi.

            In realtà c’era anche una quarta parte.

            John è un biologo e per ragioni di studio conserva le mandibole destre dei cervi cacciati dal club.

            L’estrazione è stato il primo gesto cruento a cui ho assistito. Un taglio sconcio dalla bocca verso l’orecchio che ha sfigurato il muso.

            L’ultimo gesto cruento è stata la restituzione delle spoglie al bosco.

            Abbiamo rovesciato il contenuto della bacinella di lamiera in una pozza d’acqua scura tappezzata di foglie.

            La testa era completamente intrisa di sangue, la pelle afflosciata contro di essa, la carcassa convulsa, gli zoccoli sparpagliati.

            Quello che era un cervo giaceva proprio sulla linea d’acqua, né dentro né fuori dalla pozza.

            Credo che in quell’attimo mi siano tornate in mente le pratiche sciamaniche di ricomposizione dello scheletro dell’animale, qualcosa che ovviamente è molto più profondo di un atto pietoso verso l’essere ucciso, ma che in fondo è proprio questo, una specie di velo che si prova a stendere su una tristezza infinita.

            Mi ero sentito triste a vedere il taglio lungo la guancia.

            Adesso mi sentivo triste per dovermi separare da un animale che in qualche modo mi apparteneva, e di cui ero responsabile.

            Salimmo sul furgone e senza curare di pulirci le mani mettemmo in bocca un’altra presa di tabacco.

            La sera prima, sulla via del ritorno, nel silenzio profondo che era calato sui nostri gesti, John aveva imprecato tra i denti.

            Cosa c’è? chiesi io bevendo un altro sorso di birra.

            Non ti ho messo il sangue sulla faccia. È la tradizione.

            Lo so, dissi io. E bevvi un altro sorso.

            Ok, disse lui, non hai sangue sulla faccia, ma hai abbastanza sangue sulle mani.

            Era vero.

E quello che era accaduto mi assomigliava.

Perché forse mi è dispiaciuto di quella dimenticanza, ma la mia storia era quella, né più né meno, e senza i suoi vuoti sarebbe stata la storia di qualcun altro.





Ci ripenso, vorrei rispondermi.

Ho trentotto anni, da tre mesi ho una figlia.

Mi chiedo: cosa mi ha spinto a cominciare a cacciare così tardi, a uccidere una femmina di cervo, una madre, in un bosco diverso, lontano un oceano da casa mia?

Quella notte ho pensato a molte cose, ma nessuna aveva a che fare con le idee che mi ero fatto da tempo.

Antropologia della caccia, etica della carne cacciata contro quella che viene dai macelli, legame di sangue che si instaura tra cacciatore e preda…

No. Potevo pensare solo ai fatti del giorno, e i fatti erano immersi in un paesaggio in cui la linea tra bene e male, tra giusto e ingiusto, tra gioia e dolore era una linea d’acqua che forse cambia poco, ma cambia sempre con il vento.

Prima di farlo temevo che avrei esitato, che avrei avuto paura a tirare. Temevo che avrei dormito male, che il cervo sarebbe tornato nei miei sogni a chiedermi perché. Temevo soprattutto di non avere abbastanza pensieri e parole e argomenti per continuare a aderire al reale anche dopo quel tuffo selvatico.

In parte avevo ragione.

Prima di addormentarmi però, lungo la linea d’acqua tra malessere e benessere, ho sentito che la risposta stava arrivando.

Avevo negli occhi l’occhio sempre più spento del cervo, nero e profondo come un pozzo nell’erba grigia. Il sangue che lampeggiava sulle mani, nero anch’esso, rivenire a tratti, ma senza insistenza. Di nuovo il muso morbido, morto, ma ancora così vicino alla vita da sembrare sospeso nell’aria.

La risposta stava arrivando. Ma se è arrivata è arrivata nel sonno, e al mattino era tornata da dove era venuta.

Le cose vanno così.

Ma prima di addormentarmi ero certo di un fatto.

Quel cervo non mi aveva procurato solo carne. Mi aveva fatto suo malgrado un antico ricatto, mi aveva legato al di là del sangue.

Sentivo infatti un’angoscia remota, diffusa.

Avevo voglia di tornare nel bosco, e non era la voglia di terra che conoscevo da sempre. Era un bisogno grave, come quando si medita sul vuoto che lasciano i morti, e sul pieno percorso da inquietudini che si prova quando ti nasce un figlio.

Le due cose non si sovrappongono mai, non si elidono, ma ti lasciano un bisogno di vita che assomiglia a un bosco al crepuscolo attraversato dai cervi.


 Athens (GA), Epifania 2007

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