Farla finita, ricominciare





























Farla finita, ricominciare
di Matteo Meschiari 

Il cielo era grigio ardesia e dopo poco un vento forte ha cominciato a piegare gli alberi e a staccare le foglie seccate dall’arsura estiva. I due ippocastani erano quasi spogli, i ricci verdi pendevano dai rami come parti che nessuna chioma copriva più. Infine è arrivata la pioggia, pesante e obliqua, calda sulla pelle e poi fredda sui vestiti bagnati. Verso le sette prima di sera faceva quasi freddo, o almeno sembrava freddo dopo mesi di caldo implacabile.

Non so cosa sia stato. Forse l’odore della terra bagnata, l’erba secca che è diventata paglia umida, il vento che illimpidiva la linea del Crinale, la luce di fine agosto e di fine estate quando qualcosa dell’autunno ti si insinua negli arti come una pace illusoria, dopo la febbre che invece ti ha già ucciso. Non so. Non era un gran periodo per me e per chi mi conosceva. Forse il caldo ci aveva cambiati, forse il freddo non ci avrebbe riportati mai più al cuore giovane dei nostri propositi. E intanto giravo in quella casa, in quel giardino, su quella collina, in quell’angolo degli Appennini che era stato tutto, e che adesso stava per diventare niente.

Ho cominciato col salire le vecchie scale, ho guardato il cotto rosso sotto le scarpe, stavo per voltare a sinistra, nel corridoio, ma la stanza dei nonni aveva le finestre spalancate. L’aria si ingolfava dentro, fresca, crepuscolare, nessun odore stantio di creme o medicine o lenzuola troppo pulite o poco pulite. Era una stanza che, per una volta, il fuori visitava a suo piacere: campi appena dissetati, rami di alberi, il blu carta da zucchero del Crinale, appena intravisto tra le chiome magre e sovrapposte. Sono entrato. Non poteva esserci nessuno, ma ho guardato lo specchio dell’armadio ai piedi del letto, come per sbirciare nell’unico angolo morto in cui poteva annidarsi l’imbarazzo della mia effrazione: nessuno. Allora entro davvero, mi affaccio a ciascuna delle tre finestre, guardo e respiro, mi resta sotto le unghie una calma che subito se ne va. Respiro. Guardo. L’aria è finalmente fredda.

Dopo di quella, altre stanze, una dopo l’altra, tutte leggermente resistenti alla mia intrusione, come se le tele di ragno dei ricordi altrui cercassero di scoraggiarmi. Quella dei miei, quelle degli zii che vengono qui sempre meno, soprattutto la camera che era stata mia, e che adesso, essendo la più vicina alla stanza dei nonni, ospitava la donna slava che si prendeva cura di loro. Era camera mia, lì ci avevo scritto ogni estate, avevo letto per ore, mi ero ubriacato con malvasia secco a notte fonda, nel silenzio della campagna, lì avevo pianto piccole disgrazie e carezzato progetti troppo grandi. Era camera mia, e adesso ci dormiva un’utilissima stampella umana, un accento sbagliato, una donna che mai avrei sognato stendesse il suo corpo stagionato sul materasso dei miei fuochi di ragazzo.

E a ogni stanza una finestra. Gli alberi, e quella linea blu del Crinale, troppo spezzata per essere ricostruita nella mente, frammenti di acquerello stracciato, vetrata infranta attraversata dal convolvolo, qualcosa di meno di un’idea. Eppure il vento, l’odore di terra, la luce così struggente... È stato nella stanza dalle finestre chiuse, là in fondo al corridoio, che ho capito. Non mi era mai piaciuta quella stanza, ma mi affascinava, per quei suoi mobili un po’ troppo imponenti, per quell’odore di fiori secchi invisibili, perché era di uno zio che accampava silenziosi diritti su tutto. Sono entrato e ho acceso la luce, ho guardato gli oggetti intoccati da tempo, le fotografie. Mia zia a vent’anni, mia zia e mio zio a vent’anni abbracciati sulla scogliera, in quei jeans a zampa d’elefante di quarant’anni fa, mia cugina immobilizzata in un passo di danza, bella e dallo sguardo già così vecchio, mio cugino a dieci anni, la peluria bionda sul collo, nessun segno a anticipare il niente senza nulla dei suoi anni a venire di ragazzo qualunque. Ed è là che ho capito. In quella stanza ho capito che tutto era passato, che anche i ricordi avevano smesso di parlare. L’ho accettato senza avvilirmi troppo, ma ci ho visti tutti morti, un’eredità di oggetti, un presente di fotografie senza nome.

Sono sceso in giardino. Ho intuito i contorni della collina, ho cercato di farmi un’idea della linea degli Appennini. Gli Appennini... Dopo una stagione intensa in cui dicevo ‘Appennino’, ho ripreso a sgranare quell’identità unica in un plurale impersonale, che non ha più traccia di sogni o mitologie, che può riposare, morto anch’esso, nell’oggettività di nuda pietra, di terra mai grassa, di legno troppo umido, di acqua poco limpida. Ho dato un’ultima occhiata al giardino, e l’ho fatta definitivamente finita con l’ipocrisia della memoria. Ho deciso senza molto sforzo di non starci più. Mi faceva troppo male, ecco, mi lasciava tracce di un’illusione che aveva bisogno di un’amicizia o di un amore per continuare a esistere. Un’amicizia o un amore radicati a questa terra. C’erano stati, adesso non c’erano più.

Ottantotto erano gli anni che compiva mia nonna. Sulla tavola troppe cose salate e molte dolci, una specie di merenda a invadere la cena, una cosa senza ora né forma, così perfetta per adattarsi a persone inadatte le une alle altre, a discorsi che non si incollavano tra loro, alla vecchiaia che mescolava voglia di farla finita e di ricominciare. Mia nonna mangiava pasticcini uno dietro l’altro, come una bambina, lo sguardo appannato, la faccia così magra, svuotata, e quell’inutile golosità di vita, ancora, ancora così forte e cieca da farle cercare un boccone dopo l’altro il fondo dolce di un vassoio semivuoto. E la pioggia scrosciava contro i vetri stuccati male, che ronzavano alle folate di vento, un vento viola, un cielo meno grigio di prima, squarci di un azzurro profondo che sapeva già di sere di settembre. E la netta sensazione di aver varcato per l’ultima volta la soglia di una camera che non è più la tua, che nessuno ti renderà mai più.

Momenti così si staccano dalla vita come una merenda che celebra qualcosa, ma in cui tutto è così dannatamente simbolico che non ti sembra possibile crederci a pieno. Sono momenti che assomigliano alla sequenza di un video di cui devi scrivere i sottotitoli in assenza dell’audio: vai d’immaginazione, e scivoli inevitabilmente in un eccesso di senso. Sei così concentrato a cogliere il significato che ne produci a ogni pretesto, ogni dettaglio sembra un pezzo irrinunciabile, e intanto perdi il tessuto necessario dell’insignificante, del casuale, dell’inutile, che invece ha tanta parte nel sostenere le poche cose che un senso ce l’hanno davvero. Il sottotitolo di questa mia estate? Perdita, smarrimento, fine. Detto così suona tragico. E invece mi sono lasciato scivolare addosso settimane di occhi puntati al soffitto, di schiena bagnata di sudore incollata alle lenzuola, di contemplazione svogliata della svogliatezza. Ho assistito passivo alla morte annunciata di un amore, alla fine di un amicizia, ho sentito che da sotto quella schiena incollata alle lenzuola il mio passato scivolava via come sabbia bagnata ripresa onda dopo onda dal mare-assenza. Ho pianto con la sua schiuma, mi sono asciugato al suo vento del largo, e ne sono uscito lavorato come un legno spiaggiato, bianco come un osso, coperto di cristalli che nel fuoco possono dare riflessi verdi alle fiamme, piccole aurore boreali sopra un calore che si dissolve lentamente sotto le stelle dell’Atlantico. Momenti come questi ti parlano con una voce troppo tragica per crederci fino in fondo. Ma tu ci credi, perché solo così puoi farla finita, puoi ricominciare.

Ho ricominciato da un portico di legno dipinto di bianco in una vecchia cittadina della Georgia. Il gracidare delle rane degli alberi riempiva la notte umida del sud, una luna gialla e alonata scricchiolava dietro le chiome d’inchiostro. Mi sono immaginato compagnie di uomini a cavallo, sbandati, banditi, idealisti sudisti alla ricerca di polli da arrostire. Ho visto i loro campi casuali tra boschi lunghi migliaia di anni, profondi un continente, l’azzurro della notte sul cuoio delle selle nell’erba. Ho visto i Cherokee smettere di danzare, e i loro antenati di trentamila anni fa scendere dalla Beringia e popolare una terra così vasta da essere misurata solo a catene montuose e a migrazioni di bestie. Ho visto il Potomak annuvolato di zanzare e Shavanna sposare l’Atlantico. Ho visto. E dietro le spalle avevo una casa addormentata, e dietro i vetri il grande totem di una testa di kudù nello studio che era appartenuto a James Kilgo.

C’è sempre stato uno scrittore a guidare i miei riti di passaggio. White in una stanza a Digione, Gaspar e Artaud in una stanza a Parigi, James Kilgo di qua e di là dall’Atlantico, in una stanza ad Athens e poi nel vecchio centro di Modena. Mi sono attaccato ai loro testi solo per avvicinare quello che l’uomo poteva dirmi su un momento preciso della mia vita: avventura, umanità, delirio. E adesso lealtà. Quella lealtà che impari a conoscere quando un vecchio amico ne diventa privo, quella che impari a tue spese per aver tradito la fiducia della donna che amavi, quella di cui avresti bisogno se sei uno scrittore e guardi in faccia ciò che non hai ancora scritto. Lealtà. James Kilgo, lo so per certo, è stato leale verso gli amici, verso Jane e verso la sua scrittura. Una lealtà fatta di accenti del sud e di sogni Africani, di lunghe cacce al cervo e lunghe poste al pensiero dei più selvatici Profeti del Libro. Quella lealtà verso la vita che, se ce l’hai, non puoi dimenticare nemmeno nella perdita, nemmeno nella perdita della vita.

Dalla finestrella del bagno di questa mia casa modenese, tra i tetti e le antenne, tra bucati stesi e impalcature di restauri di chiese, lontano, tremolante di luci la sera, verdognolo al mattino molto presto, violetto e vaporoso al crepuscolo, invisibile nei giorni di afa o di nebbia, si vede l’Appennino. L’Appennino, di nuovo al singolare. Infatti è solo un frammento, e non voglio sfilacciarlo in un plurale destinato a scivolare via. Non voglio nemmeno trattenerlo: per ricominciare bisogna prima farla finita. No, non voglio ridurlo a un ciottolo da portare nella tasca della giacca, o farne foglia di castagno che secca tra le pagine di un libro, e che traborda perché in fondo è troppo grande per un libro, e allora si sbriciola, e comunque conserva solo autunno e fibre morte. Quell’angolo d’Appennino, semplicemente, è al singolare perché adesso è solo mio, non è più legato a nessuna amicizia e a nessun amore. Anche lui è un legno straccato. Ha attraversato l’Atlantico, è passato nella corrente delle isole, ha sorpassato Bimini e Cuba, e Hemingway non era più là per raccoglierlo e arderlo. Così è ripartito sulle onde ed è arrivato a una strana isola americana, piena di maiali selvatici e di somari e di paludi.

So che James Kilgo avrebbe voluto scrivere di quell’isola. Pensava a una qualche impresa. In una conferenza letta e mai pubblicata ha detto qualcosa in proposito che mi si è acceso in testa come un falò sulla spiaggia. Più o meno diceva che da quando aveva visto quel luogo così selvaggio avrebbe voluto dargli forma e dignità letteraria, avrebbe voluto trovare il modo per farlo esistere anche in un altro ordine di cose. Kilgo sapeva che la natura ha bisogno dei poeti come i poeti hanno bisogno della natura, ma il cancro gli ha impedito di realizzare quel sogno. Io mi sono immaginato quel libro intitolato col semplice nome dell’isola, un po’ come il Walden di Thoreau. Ho visto le pagine irte di cespugli e attraversate da tracce di animali, pagine polverose di uccelli marini e sbocconcellate qua e là dagli alligatori, pagine leali verso le cose, verso la gente e verso te stesso. Davvero un buon libro, insomma. Credo proprio che il mio pezzo di Appennino mi aspetti laggiù, su quell’isola di cui non ricordo il nome.

Modena, agosto 2003

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