Geoanarchia
Geoanarchia
di Matteo Meschiari
A volte ci sentiamo scoraggiati. Da un lato ci chiediamo perché il
mondo della politica e delle multinazionali continui a fingere di fronte
all’evidenza. Dall’altro il popolo che disobbedisce alla logica
capitalista è stanco di discorsi: solo l’azione, più o meno
intransigente, più o meno violenta, può dare la vaga impressione di non
essere tagliati fuori. Ormai stiamo parlando della Terra, perché parole
come “ambiente”, “paesaggio”, “natura” non bastano più a dare l’idea di
una crisi planetaria.
A volte ci si sente scoraggiati. Nell’Ottocento si parlava di
questione sociale. Oggi la questione sociale non può non essere una
questione ambientale. Tutte le farse allestite dai governi del pianeta
per dare l’impressione che in fondo qualcosa si sta facendo, che il
problema sta emergendo anche alla coscienza politica dell’aristocrazia
dominante, ne sono il sintomo: cominciano a cedere su ciò che hanno
tenuto nascosto per almeno quarant’anni. E sembra quasi che adesso il
merito nel sollevare la questione sia loro.
Circa dieci anni fa qualcuno si è inventato un modo nuovo di potare
gli alberi. L’idea era semplice se paragonata ai metodi tradizionali: si
trattava di tagliare i rami sotto la biforcazione. Dal momento che
però, a lavoro finito, ciò che restava era qualcosa di simile a un
attaccapanni, l’inventore del nuovo sistema ha creduto di dover
conservare su ogni ramo potato un singolo rametto, con tanto di foglie,
poche dita sotto il taglio. Tutto aveva sempre l’aria di un
attaccapanni, e ciò che si era irrimediabilmente perduto era l’albero.
Quell’anno, e negli anni successivi, molti alberi potati, nei
giardini privati e pubblici, non hanno superato la primavera. Avevano
troppe poche foglie. Ovviamente. Ma una cosa che era evidente a chiunque
si è ripetuta per centinaia e migliaia di alberi, non solo per un anno,
ma fino a oggi, tra le proteste dei soliti ambientalisti e nello
stupore di gente che la mattina usciva di casa con la macchina sporca di
guano d’uccello (sono troppi, bisogna sfoltire), e poi rientrava a
pranzo credendo di avere sbagliato via. Nel giro di una stagione gli
alberi potati troppo venivano sostituiti con giovani alberi muniti di
cartellino. Il cartellino era vuoto, e non indicava né la specie né
l’impresa che lo aveva piantato.
Quello che mi ha colpito in questa faccenda è che tutto è avvenuto
come se ‘altri’ ne fossero i responsabili. Non importa che un mese fa un
titolo di giornale recitasse: COMINCIATI I RICORSI PER LE POTATURE. Non
ho letto l’articolo, e forse si trattava di una metafora sui tagli alle
pensioni. Il punto è che qualcuno ha fatto, e tutti hanno lasciato
fare. Ma sono certo che nessuno con un filo di buonsenso se la sia
bevuta. Avevano potato a quel modo anche pini e abeti. Era la prima
volta che vedevo potare pini e abeti. E il risultato è a dir poco
surreale. Nessuno che abbia un filo di intelligenza lo farebbe, nessuno
che abbia un filo di intelligenza lo farebbe fare ai suoi alberi.
Eppure…
Per anni ho considerato quelle immagini di alberi potati come il mio
limite a comprendere certe cose. Era come trovarsi di fronte a una
sfinge. Potevi stare ore a cercare la risposta giusta, ma perdevi il tuo
tempo, e l’albero era sempre là, e tu non avevi uno straccio di idea
per alleviare quell’impressione di non-senso. Non bastava pensare che
era tutta una strategia delle imprese del verde. Un po’ come chi fa le
lampadine che si bruciano dopo un certo tempo (sennò chi le compra
più?): i vivaisti fanno crepare con potature vertiginose un certo numero
di alberi, e poi li rimpiazzano, perché un albero dura troppo, così ci
si inventa la sua manutenzione, la sua morte, la sua resurrezione.
No. Non basta pensare a cose del genere, perché se anche fosse (e non
è improbabile), il vero mistero siamo noi, che ci muoviamo solo se ci
toccano il nostro, e molto spesso non ci muoviamo neanche così. Noi, da
un lato abituati a delegare tutto, dal potere al potare, e dall’altro
semplicemente pigri, lasciamo che idiozie palesi si consumino sotto il
nostro naso, con un talento speciale per l’indignazione da poltrona e
giornale.
Solo in questi giorni, senza nessun evento eccezionale, mi sono fatto
una ragione della potatura degli alberi. Il punto è che è esattamente
il genere di cose che fa l’uomo. Più intelligente degli altri mammiferi
superiori, ha battuto i suoi antagonisti biologici quando era ancora un
australopiteco. Tutto andava ancora bene alla fine del Paleolitico, ma
col Neolitico ha imparato a immagazzinare cibo, e da allora non ha mai
smesso di crescere di numero. La potatura è allora un sistema drastico
per eliminare e fare spazio a una nuova produzione: sono in troppi, gli
facciamo fare la guerra, li aiutiamo a ricostruire, con i guadagni della
guerra e della ricostruzione mandiamo in scuole eccellenti i nostri
figli. E le sfumature sono molte: le risorse sono limitate?
Immagazziniamole. Una petroliera naufraga e inquina la costa della
Bretagna? Multiamo la multinazionale. Dobbiamo tagliarci le unghie?
Amputiamo la mano all’altezza del gomito. La mano non ricresce?
Montiamo un laboratorio per la ricerca in protesi umane. Basterebbe solo
un po’ meno di tutto e qualche attenzione in più. Ma il taglio è una
cosa rapida, e dopo si vedrà.
André Leroi-Gourhan era un paletnologo attento, e la sua sensibilità
antropologica gli permetteva di gettare uno sguardo dall’alto sulla
parabola umana. Studiando le abitudini economiche di un piccolo gruppo
seminomade del Paleolitico superiore si era reso conto che nelle
condizioni attuali, per riassorbire il nostro impatto sulla Terra,
dovremmo programmare le politiche di sfruttamento e di consumo
ambientale per un arco di cinquemila anni. Inutile dire che le nostre
preoccupazioni scavalcano a malapena la generazione dei nostri figli.
In tutto questo si riconosce un attaccamento biologico al necessario
che è anche un’aberrazione, come se portassimo in noi i geni della
procreazione illimitata e del malthusianesimo. L’impressione è che il
giro di boa sia fatto, e allora non ci resta che trasferire in formule
solo più ellittiche e feroci il nostro istinto di sopravvivenza. Così
intelligenti e così rozzi! Cose come l’arte e la poesia impallidiscono
di fronte alla paura del precario, eppure il precario è là, e un po’ di
poesia e di arte ci aiutano a credere in qualche alternativa. Sono
invece l’ultima potatura: la coscienza si addormenta in esse e lo
spirito di impresa risorge altrove.
Poesia, arte. Parlo sul serio? Voglio opporre pagliuzze di questo
tipo alla globalizzazione? Ci vuole pensiero diretto, azione diretta, il
resto è romanticismo. Qualcuno poi ammonisce: i voli pindarici non
servono a nulla, adesso c’è bisogno di Bookchin, non di Michelet o
Thoreau. Ci vuole la linea dura, radicale. Come se la poesia fosse un
lusso per borghesi semiaddormentati.
Certo, noi siamo con Bookchin. Ma stupisce sempre un po’ la
difficoltà che si incontra negli ambienti radicali a parlare di terra,
di geografia, di natura in senso pieno (cioè non solo
economico-ecologico). Un po’ come nel comunismo sovietico, quando si
pensava che tutto fosse lotta di classe, ma con una miopia tragica di
fronte ai suoi possibili travestimenti. Michel Ragon, ne La memoria dei
vinti, lo dice bene: si è creduto (e l’errore è stato anche degli
anarchici) che il teatro fosse la fabbrica, con padroni e operai come
attori. E intanto una massa enorme di contadini si confrontava (e si
confronta ancor oggi su due terzi del pianeta) con il problema cruciale
del rapporto con la terra, misero se piegato a una logica di
assoggettamento, in equilibrio autarchico se in ascolto paritario e
‘spirituale’ dell’ambiente.
Ben prima di Leroi-Gourhan, geografi anarchici come Elisée Reclus,
Petr Kropotkin e Moisé Bertoni, interrogandosi sui problemi d’equilibrio
tra sviluppo, benessere e sfruttamento delle risorse, si improvvisarono
etnologi, riconoscendo nei gruppi di Inuit o Guaranì degli esempi
concreti e funzionanti di anarco-comunismo, un modello sociale
perfettamente integrato al contesto di risorse ambientali che lo
ospitava. Pierre Clastres e Murray Bookchin, più di recente ma sulla
stessa scia, hanno preso a testimoni alcuni popoli ‘primitivi’ per
mostrare come non sia poi così utopica una società senza stato. È
evidente che il filtro di lettura del fenomeno etnologico era per tutti
loro quello morale, nel senso che, nonostante la scientificità di metodi
e di intenti, lo scopo ultimo non era la scienza dura, ma la scienza
sociale. Eppure esiste una differenza enorme tra Reclus e Kropotkin da
una parte e Clastres e Bookchin dall’altra. E non tanto nel senso che i
primi hanno anticipato i secondi.
Anzi, forse sarebbe meglio smetterla di dire che Reclus è stato un ecologo ante litteram, o che Kropotkin, nel Mutuo appoggio,
ha avuto intuizioni etnologiche in anticipo di cinquant’anni sulla
ricerca. Bisognerebbe smetterla per due ragioni: la prima è che così li
si incasella in una prospettiva forzatamente evoluzionista (sono lo
stadio di pensiero che ha anticipato e preparato l’attuale ecologia
sociale); la seconda è che, paradossalmente, li si condanna a
un’immobilità reazionaria, nel senso che se hanno anticipato qualcuno
sono anche invariabilmente incollati al loro tempo (tanto vale leggere
chi li ha seguiti ed è più vicino a noi).
John P. Clark o Pier Luigi Errani, preoccupati anche per la crisi
ambientale, hanno provato a riportare alla ribalta il Reclus geografo, e
certamente, a leggere certe sue pagine oggi, ci si può chiedere se c’è
davvero bisogno di scriverne di nuove, e magari meno bene di lui.
Modificando alcune cifre e due o tre cose nel lessico, si potrebbe
ristamparle con successo sotto pseudonimo in una rivista radicale
sull’ambiente. Ma è anche vero che le cose vanno ripetute se non vengono
ascoltate, e vanno ripetute chiedendosi perché non vengono ascoltate.
L’attualità di Reclus, ad esempio, non è solo nei contenuti, nelle
anticipazioni, nella lungimiranza che lo ha guidato. La sua attualità
sta nel fatto che parla un linguaggio più adatto alle nostre orecchie
che a quelle dei suoi contemporanei. Non credo che il marchio di
anarchici abbia nuociuto alla credibilità e autorevolezza di Reclus e
Kropotkin in seno alla comunità scientifica. È vero che il pregiudizio è
ovunque, ma almeno nel loro caso si dovrebbero evitare certi
vittimismi. Di fatto i due geografi erano venerati dai loro
contemporanei, mentre era impossibile far passare il loro anarchismo
come una mera stravaganza. Il punto è che oggi c’è qualcosa in loro che
affascina i lettori del XXI secolo, e che affascinava meno o forse
lasciava indifferenti i loro contemporanei.
Che lo si voglia o no, che ci si senta progressisti e pragmatici,
Reclus e Kropotkin sono due romantici, e non nel senso becero di
idealisti e sognatori, ma di eredi di una tradizione in cui non faceva
scandalo parlare di poesia e scienza come di componenti essenziali della
formazione morale di un uomo. Quello che si respira nei loro testi è
coraggio, abnegazione, qualcosa che almeno in loro non aveva radici solo
nella passione scientifica o solo nella passione politica.
Prendiamo i loro passi solo scientifici o i loro passi solo politici,
e ci diranno molto meno di quei testi in cui, volontariamente, con un
linguaggio coraggiosamente anarchico, hanno confuso i due piani in
un’unica preoccupazione umana e sociale. Ma non basta: il loro è
soprattutto un linguaggio che, secondo l’auspicio di Bakunin, e più di
quanto Bakunin abbia mai saputo fare, era pieno di immaginazione. E non
nel senso di ‘fantasioso’, ‘stravagante’, ma nel senso di quella facoltà
mentale che si appoggia al potere penetrante dell’immagine, un’immagine
vista come strumento per fare pensiero, un pensiero anche razionale,
anche scientifico, anche politico.
È forse questo il punto. Nelle scienze ecologiche, nello studio della
geografia e della biodiversità si sta cercando un nuovo linguaggio che,
senza sostituire matematica e statistica, aiuti nella descrizione di
fenomeni complessi che matematica e statistica non riescono a esaurire.
Questo linguaggio fa ricorso alle immagini, non tanto come metafore, ma
nel senso che poteva dare a ‘immagine’ e ‘immaginario’ Gaston
Bachelard: una potenza maggiore della natura umana, una facoltà tutta
individuale che apre in direzione dell’avvenire, perché carica di un di
più imprevisto, che irradia nel discorso, rischiarandolo, arricchendolo.
Bachelard pensava che la nostra percezione del mondo fosse
condizionata da un grumo interiore di immagini originarie, che ci
portiamo dentro come prerogativa intellettuale della specie. Il mondo
esterno, specie nelle sue componenti materiali elementari (terra, acqua,
aria, fuoco), attiva tali immagini, le porta a effervescenza, le fa
lievitare in una rêverie che è il punto di partenza per ogni percorso
intellettuale, sia esso poetico o razionale. Se la poesia è una catena
non necessariamente causale di immagini, la scienza è una descrizione
linguistica del mondo che impara a fare astrazione dall’immaginario, dal
grumo poetico che dialoga in noi tra inconscio e coscienza. Eppure,
astraendo, in un cammino di pulitura, di setacciamento dalle immagini,
non può prescindere da esse, e anzi ne è fertilizzata, come da un humus
creativo.
Forse i lunghi anni di scientismo tecnologico (che ha spalleggiato
con razionalità la follia capitalistica), hanno lasciato tracce enormi
non solo nel modo di descrivere i fenomeni scientifici, sociali,
politici, ma anche nel modo di percepirli, perché immagini e linguaggio
sono una componente essenziale del nostro modo di vedere le cose. Solo
di recente, e tra i primi proprio certi scienziati (penso a Laborit, a
Mandelbrot), si è avvertito il bisogno di un ripensamento
epistemologico. Dopo la mistica asciuttezza verbale del Positivismo,
insomma, si è capito che per amore di scientificità e di rigore
analitico ci si era lasciati indietro qualcosa, ci si era privati di un
grande potenziale descrittivo ed ermeneutico. Lo stesso che Kropotkin,
Reclus e tutti i loro contemporanei davano quasi per scontato in una
temperie culturale ancora impregnata del grande Romanticismo scientifico
tedesco e inglese.
Anche uno spirito rigoroso come Darwin, che non perdeva occasione di
lamentarsi del suo stile troppo impressionistico, doveva molte delle sue
intuizioni scientifiche a una facoltà di osservazione dei fenomeni che
aveva un corrispettivo esatto nelle sue capacità verbali e, diremmo,
letterarie di descrizione. Quello che sembra perduto oggi, ed è forse in
via di ritrovamento, è proprio un linguaggio per immagini che
riequilibri a livello verbale una visione solo numerica della
complessità. E lo stesso dicasi per la sociologia e la politica, con i
loro linguaggi troppo spesso algebrici, incapaci di immaginazione e,
purtroppo, di sentimento. In questo senso allora c’è forse bisogno di
poesia, in questo senso forse l’azione politica più diretta (cioè la più
urgente a livello di ripensamento linguistico del reale) consiste nel
riappropriarsi con energia di un immaginario poetico individuale e
sociale.
Ecco cosa ammiro in Reclus e Kropotkin. L’esattezza delle loro teorie
sociali, con tutte le ricalibrature del caso, l’intuizione che il
problema sociale è invariabilmente connesso al problema della Terra, al
problema ecologico, non ha valore solo perché la crisi ambientale e lo
smarrimento che ne è derivato hanno reso urgente una rilettura dei
‘padri fondatori’, quasi in un’aura profetica. La loro attualità sta
soprattutto nel fatto che il loro metodo, più che confermare il nostro,
lo sta invece criticando. Ci stanno insomma parlando di un impoverimento
dell’immaginario, di un inquinamento mentale che, in perfetta analogia
con le strategie capitalistiche, sta sostituendo a una facoltà
immaginativa individuale una passività ricettiva, un’abbuffata acritica
di immagini studiate proprio per sostenere l’ideale consumistico, per
instillare la giusta dose di inquietudine sociale (a cui deve seguire il
classico giro di vite reazionario), per addormentare infine nella
quiete di un domani raggiungibile (la casa, la macchina, la pensione),
tenendoci lontani dagli strappi sanguinosi di una realtà dietro
l’angolo.
In un teatro di guerra, oggi, la lotta decisiva è proprio una lotta
di immagini. C’è chi le setaccia e le cucina politicamente per le
riviste e la televisione, e c’è chi con una reflex ammaccata o con un
taccuino e una biro strappa alla realtà un’immagine che è la sola a
riportare la questione ai suoi termini di orrore. Nella lingua accade lo
stesso, e c’è da chiedersi allora se Reclus e Kropotkin non abbiano
qualcosa da dirci anche su come dire le cose: quando facevano politica
non smettevano di essere geografi, quando erano sul campo respiravano di
nuovo concretamente, nei vasti spazi, quell’idea di libertà che in
città rischiava troppo spesso di diventare retorica. Ed è proprio a
contatto diretto con la terra che lo scienziato e il politico hanno
trovato le parole e la sintassi giusta per i loro discorsi sociali.
Sono le immagini di una terra percorsa realmente, a piedi, sono i
paesaggi terrestri che hanno animato quello spirito scientifico e
morale, e che stanno rinsanguando in modo dissidente l’anemico
linguaggio dell’antropologia, della geografia e del pensiero ecologico
contemporaneo.
La geoanarchia che propongo non è solo una riflessione sui modi
libertari e armonici di sostentamento materiale dell’uomo sulla Terra. È
stata e deve essere ancora e soprattutto un metodo, una via cognitiva
che sappia trarre novità e libertà di pensiero dalla Terra: riserve e
campi per la mente. Non è accidentale che Reclus e Kropotkin fossero dei
geografi, non lo è nemmeno per le loro opere anarchiche più teoriche.
Per questo non sono attuali: sono più avanti di noi.
Alla fine dell’Ottocento, il naturalista svizzero Moisè Bertoni parte
per l’America Latina per fondare una colonia anarchica. Il progetto
fallisce ma in Paraguay fonda con la sua numerosa famiglia una comune
dedita alle scienze naturali: botanica, agronomia, geologia, zoologia.
Installa anche una piccola tipografia, “Edizioni ex Sylvis”. Tra i molti
studi agronomici che pubblica in proprio ce n’è uno in cui denuncia il
taglio e l’incendio della foresta a fini agricoli: in lunga durata è
dannoso per le coltivazioni. Ora, osserva Bertoni, sono proprio i
contadini indigeni che praticano questa tecnica distruttiva, mentre i
latifondisti evitano oculatamente ciò che potrebbe danneggiarli
economicamente. La differenza di classe non è solo tra capitalisti e
proletari agricoli. È tra chi ha le conoscenze della terra e chi non le
ha. Quasi una parabola ambientalista.
Mi chiedo allora cosa avrebbe pensato l’agronomo Bertoni della
recente ondata di potature pubbliche e private. Rilevandone l’idiozia,
ne avrebbe cercato le cause. Capitalisti del verde contro proletari dei
parchi pubblici? Non proprio, perché non c’è un giardino di ricchi che
presenti quegli obbrobri, e ancor meno un frutteto da decine di quintali
al giorno. Lì tutto sembra curato come in un parco giapponese. La
risposta che ho raccolto arriva invece dall’operaio che sta pagando un
mutuo trentennale per farsi casa e giardino, o dall’amministratore
comunale che deve far quadrare a tutti i costi il bilancio: “se li poti
molto, poi per due o tre anni non li devi più potare, un bel risparmio”.
Assurdo? Non troppo, se si pensa che tutta l’immaginazione che ci resta
viene allenata per farci risparmiare sul necessario e sperperare nel
superfluo.
Nessun commento:
Posta un commento