Primitivo | Primario
Primitivo | Primario
di Matteo Meschiari
L’arte pensata al di fuori di un ecosistema è astratta. La sua
astrazione può avere senso, può essere coerente, può avere un valore
estetico, ma tagliare i legami con la Terra equivale a tradire una parte
essenziale di noi. Significa escludere un’area del cervello che proprio
sul modello del mondo naturale ha sviluppato la propria ecologia.
Tra cinquant’anni il significato della parola “arte” sarà
probabilmente vicino a quello attuale, ma il significato della parola
“ambiente” sarà radicalmente mutato. Questo mutamento non dipenderà
dalla riflessione filosofica, scientifica o artistica, ma dal successo o
dal fallimento di alcune strategie di mercato su scala globale. Tra
cinquant’anni potremmo chiamare con lo stesso nome un ambiente degradato
per sempre, accettandone l’ovvietà solo perché l’economia di consumo ci
ha preparati a farlo. Prima di inquietarci del “progresso” scientifico
dovremmo preoccuparci dell’appiattimento antropologico che ci viene
venduto con il prodotto.
Ogni prodotto di massa, e tra questi il prodotto artistico, è
imballato in un involucro ideologico che è premessa della sua
accettazione, della sua ovvietà. La riflessione intellettuale o fa o
disfà questo involucro, agisce sull’accettazione o sul rifiuto. In una
realtà sociale in cui la manipolazione del pensiero e la colonizzazione
dell’immaginario sono pratica ordinaria, un’arte che ignora l’ambiente
lavora per la sua distruzione.
Interroghiamoci sugli oggetti di consumo che ci circondano. Ci fanno
vivere nel presente o in un futuro fittizio? Il loro invecchiamento
pianificato ha il solo scopo di imprigionarci in un’idea di tempo che
aiuta le loro mutazioni e banalizza le nostre. Un’arte “senza tempo” o
all’opposto un’arte perfettamente radicata nella storia si adeguano
naturalmente a questa tirannia. Ogni terza via, ogni nuovo paradigma è
solo uno spostamento di frontiera: nuove terre da colonizzare. Il punto,
invece, è pensare il tempo per quello che è, non per quello che
dovrebbe o non dovrebbe essere. E di qui ripensare tutta l’arte.
«La società tecnologica può essere dissolta solo annullando il tempo e
la storia» (John Zerzan). La frase è vera ma non è realistica, perché
non ci dice come fare. Usa infatti un’idea di tempo e di storia tipiche
della società tecnologica, e non ammette alternative. L’esito è una
tautologia, uno scacco sociale e ideologico da cui si potrebbe uscire
solo con la rottura violenta, con l’azzeramento. Ma un ripensamento del
tempo e dello spazio può modificare radicalmente la storia e corrodere
le basi della società tecnologica. L’arte è al cuore di questo
ripensamento.
C’è chi propone un rifiuto radicale di tutta la civiltà
post-paleolitica, la “rivoluzione” neolitica essendo l’inizio del
capitalismo, dell’alienazione, della gerarchizzazione, della fine della
spontaneità. Secondo questo punto di vista, solo un azzeramento violento
potrebbe riportarci a una condizione primitiva. Ma il punto è che un
passo indietro nel tempo è impossibile, perché non si può imporre questo
stesso passo allo spazio che abbiamo modificato per sempre. Lo spazio,
inteso come territorio e come biosfera, ha in memoria tutte le sue
mutazioni: l’unica cosa da fare è cambiarci dentro per non commettere
nuovi errori. Non un passo indietro, dunque, ma un passo intelligente,
per andare verso ciò che è primario.
L’arte svolge un’azione criticabile. La sua forza analogica, il suo
lavoro d’immaginazione, sono all’origine di un’alienazione simbolica che
ci allontana dal reale, dal qui e dall’ora, dal presente. Ma l’arte,
proprio attraverso queste stesse facoltà, può anche avviare una
riscoperta del reale. L’unica arte che conta non è quella che porta la
mente ad acclimatarsi allo stato di fatto, ma quella che aiuta
l’irruzione del reale, cioè dell’essere del mondo e nel mondo.
Immaginazione e realtà non sono antitetiche, come non sono antitetiche
logica e analogia. Comunicano in modo freatico, ciò che conta è essere
nel flusso.
L’immaginazione è indispensabile in ogni processo cognitivo,
artistico, scientifico, politico. L’immagine, prima che un simbolo, è la
spazializzazione di un’idea. Questa posizione mediana tra mente e mondo
rende l’immagine potente, e manipolabile. Se viviamo in un’epoca in cui
l’immaginario è colonizzato da immagini che ci addormentano alla
realtà, solo una decolonizzazione può rallentare e invertire il processo
di reificazione operato dal moderno. Chi invoca il primitivo sta in
realtà cercando il primario, perché il secondo è spesso presente nel
primo. Ma il primitivo ha in sé tutta la dialettica che lo lega alla
modernità, mentre il primario è come uno sguardo a volo d’uccello su
questa dialettica.
L’arte del Paleolitico, degli Inuit, dei ¡Kung, degli Aborigeni
australiani, dei Guarnì, degli Yanomano, dei Mbuti, e di centinaia di
altri popoli non alienati dall’incubo religioso e dal potere, dimostra
che è possibile vivere l’arte come un esercizio anarchico di libertà.
Oggi siamo dissociati dalla natura e l’arte è uno strumento di potere
e una merce di massa, ma ciò non toglie che essa resti in essenza un
modo per essere al mondo. Un tempo si ammetteva come fisiologico il
principio che l’arte fosse uno strumento tra i più affilati per vivere
la realtà. Quest’arte “perfezionista” decade effettivamente con il
Neolitico, e rimane un’esperienza marginale, nel tempo e nello spazio,
del processo di avvicinamento al reale. Ma le sue potenzialità sono
intatte.
Ogni attività umana, come tutto ciò che esiste, è soggetta a
entropia. Una fuga di senso e di energia sembra fatalmente accompagnare
le nostre azioni. Tutto tende alla morte termica, ma questo non ha
impedito alla vita di fare una comparsa luminosa e improbabile. L’arte
si colloca sullo stesso bivio: può contribuire all’entropia oppure
contrastarla, può essere un prodotto del pensiero simbolico ma è anche
una modalità del pensiero in generale, può essere un oggetto frutto di
alienazione ma è anche una via di uscita da noi stessi, può raffreddare
la vita che è in noi ma può attivare delle connessioni mentali
improbabili che ritarderanno la fine. Primario è rendersi conto che
l’arte è primaria perché è in grado di riconoscere ciò che è
fondamentale.
Cos’è fondamentale? La comprensione che il tempo non è reversibile,
che le modificazioni dello spazio non sono cancellabili, che ogni
azione, anche quella che si vuole più gratuita, è per sempre. Il punto è
capire che la nostra mente fa parte di questo ecosistema, lo modifica e
ne è modificata. Un’ecologia naturale non può esistere senza
un’ecologia della mente, e a ogni guasto in natura corrisponde un guasto
nella mente. Prima di cercare le cause esterne della distruzione,
dobbiamo cercare quelle annidate dentro di noi. E la più grave di tutte è
il nostro divorzio dalla Terra.
Ecologia dell’arte non è un’arte ecologica, ma un’arte che aiuta il
manifestarsi del mondo reale in tutta la sua complessità di ecosistema.
Come? Sentendo intimamente che la Terra non è solo un oggetto fuori di
noi, ma è in qualche modo riflessa da sempre nelle nostre modalità
cognitive. Il nostro cervello si organizza nello stesso modo in cui si
organizzano i paesaggi, e la nostra alienazione deriva dal credere che
questo legame diretto e necessario non esiste. “Paesaggio della mente”
non è una metafora, è una metonimia, e l’arte è l’unico punto di vista
di cui disponiamo per riapprendere questa verità.
Analizzare le culture primitive per cui questo era evidente ci
insegna due cose: che un rapporto armonico tra natura e cultura è
possibile, che il paesaggio materiale è la matrice di ogni paesaggio
mentale. Se un tempo mito e paesaggio erano legati, è solo perché il
paesaggio conteneva in sé il proprio mito. Il punto è capire che lo
contiene ancora, almeno fino a quando tutto non sarà irrimediabilmente
danneggiato. I miti contemporanei sono frutto dei paesaggi della
modernità: di quali miti abbiamo bisogno?
L’epoca primitiva ci parla ancora per ciò che ha di primario, ma il
primario è nell’arte primitiva solo perché essa era in grado di
osservare la Terra. L’elemento primario va cercato nella Terra, non
nell’arte, e un’arte che non osserva la Terra è responsabile di una
doppia morte, quella del mondo e della propria.
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