L'altro villaggio
L’altro villaggio
di Matteo Meschiari
La
linea della montagna tagliava in diagonale il rettangolo formato dalle linee
parallele delle case ai lati e dalle linee parallele del pavimento e del tetto
del balcone. La diagonale a chiome e a vuoti di chiome separava la costa
alberata dal resto della valle, ma c’era foschia, e il resto della valle era
grigio. A guardare la valle non si vedeva niente, ma gli alberi vicini avevano
contorni come schegge. Nemmeno quelli si vedevano bene, perché il rettangolo
ritagliato dal balcone era diviso in altri rettangoli dalle linee verticali
della ringhiera, da due fili tesi in orizzontale tra i pali che sorreggevano la
tettoia del balcone, e perché le anse serpentiformi di un rampicante dalle foglie
ovali attraversavano e tagliavano a semilune i rettangoli verticali e
orizzontali. In ‘un a destra in alto senza rampicante’ si vedeva un quartiere
di cima calcarea, di fronte c’erano semicerchi o quarti di ellisse che erano
tutto albero o tutto foschia. Alcune strisce verticali a sinistra erano metà
albero e metà foschia, e io me ne stavo seduto sul balcone in uno dei due
tavoli all’aperto del caffè a bere verso le nove di sera campari e vino bianco.
Avevo
sentito per tutta la strada odore di erba bagnata, di fieno e di letame, e
tutti questi odori venivano indistintamente dalle terrazze a prato o a vigneto
che si attraversavano con la mulattiera o dai voltoni bui delle case in pietra
che erano delle stalle e anche l’ingresso ai piani superiori dove la gente
abitava e mangiava guardando la televisione. A febbraio, dall’altro lato della
valle, avevo sentito muggire dentro quei vòlti di pietra una vacca che alla
luce di una lampadina appesa al filo era nocciola come un uccello, a giugno avevo
sentito grugnire qui un maiale dietro una finestra, ma era buio e la televisione
era spenta.
La
luce alle nove a volte è blu e il verde del rampicante è la cosa migliore per
quel blu. Lo sguardo ci sta volentieri anche per non stare nel rosso del
campari e della tovaglia rossa in sintetico che però non ha buchi di sigarette.
Le zanzare non sono molte e l’aria è fresca, anche se si sente la pressione
bassa e il temporale ha già avvolto qualcosa di più di quelle cime calcaree con
cui i vecchi misuravano a pezzi di sole i tempi dei vegetali da lavorare. Sotto
i calcari delle cime c’era l’arenaria permiana lavorata dai ghiacciai
dell’ultima glaciazione, e dappertutto c’erano dorsi di balena in roccia che
dormivano sotto l’humus dei boschi, là davanti, con tutte quelle incisioni
rupestri che sono troppe, e allora meglio le foglie.
Non
solo quella sera, di incisioni rupestri me ne interessavano due o tre, tutte
alci, animali strani scomparsi presto, come i loro cacciatori, entrati nella
valle dopo i ghiacciai e usciti senza starci a lungo per mancanza di selvaggina
di grossa taglia. Non volevano convincersi che la fauna stava cambiando e
piuttosto che adattarsi al Neolitico seguivano le bestie che seguivano a nord
un habitat moribondo, e l’habitat moribondo seguiva il freddo dei ghiacciai in
ritirata, ma i ghiacciai non tornarono più. Pensavo a questo. E me ne stavo a
bere campari e vino bianco perché non c’erano più alci.
Diciamo
allora che quello era un paese straniero e che io ero là perché piuttosto che
adattarmi alle nuove condizioni seguivo quadrupedi dentro di me. Diciamo che la
gente che stava al tavolo accanto a me parlava un dialetto locale che da noi
potrebbe essere un dialetto delle montagne lombarde. Come straniero ero proprio
lo straniero che entra in un caffè e che la gente guarda strano. Diciamo che è
proprio così che devono andare le cose, e che da bere ce n’è comunque per
tutti.
Ero
là da una settimana perché tra quelle montagne c’era da quarant’anni un centro
di studi per l’arte rupestre. Ero là perché chi lo dirigeva mi voleva dare la
direzione delle edizioni e io, che non la volevo, stavo comunque là perché le
montagne mi piacevano e perché la biblioteca del centro mi aiutava a scrivere
degli articoli che non mi importava pubblicare. Era una bella cosa, e visto che
dopo due giorni dal mio arrivo il direttore se ne era andato a Parigi, io ero rimasto
l’intruso notturno di quel luogo, libero di vagare tra le sale o di ignorarle
completamente. Dopo le quattro del pomeriggio, quando le impiegate se ne
andavano, mi trovavo solo con la famiglia dei custodi e mangiavamo prestissimo
parlando del lavoro di un tempo nelle montagne e delle osterie che chiudono una
dopo l’altra con lo spopolarsi della valle. Il figlio della donna che restava a
custodire il centro e che preparava da mangiare aveva tre merli e cinque cardellini
presi dal nido. Li nutriva con una poltiglia di pane e latte che introduceva
senza poesia nei becchi gialli, con uno stecco tagliato a punta di scalpello.
Io restavo a guardarlo e lui guardava gli uccelli, e intanto le nuvole sopra le
montagne scaricavano qualche goccia di pioggia.
Quando
il direttore tornò da Parigi mangiammo assieme e mi tenne lì dopo mangiato a
raccontarmi di come era stato pioniere in ogni cosa e in ogni parte del mondo.
Io ascoltavo e sapevo che aveva fatto molte cose buone, che solo lui avrebbe
potuto fare quelle cose in un mondo generalmente ostile all’intelligenza, ma
avevo in testa anche quello che altra gente nei giorni prima mi aveva detto di
lui. Soldi, certo. Chi ne aveva troppi e chi ne aveva troppo pochi. Lui ne aveva,
e la gente che lavorava per lui non ne aveva. Allora c’è qualcosa in me che si
ribella, anche se so che la cultura non è una democrazia, e che tra tante
merende che ci sono a scuola c’è sempre quella più buona, e raramente è la tua,
a meno che tu non te la prenda. Ma è brutto vedere mescolato il bene e il male
in una sola persona, e mentre ascoltavo pensavo che volevo essere lì e che non
volevo esserci.
Quando
sono rimasto solo sono uscito e ho cercato la mulattiera tra i vigneti e le
sponde di bosco. Era quasi buio ma a me non importava perché andavo a fare una
cosa importante. La sera prima, quella dei rettangoli e del campari, avevo
parlato con la vecchia che teneva il caffè e che in due minuti mi aveva
raccontato che si faceva sei iniezioni di insulina al giorno, anche se non si
vede, e che quelli del governo li strozzano a loro con le tasse e così quando
ha raggiunto l’anzianità chiude il caffè e se vogliono vanno a bere da un’altra
parte. Salivo perché volevo uscire dal primo villaggio e volevo salire al
secondo, dove non c’erano che case vecchie e il maiale al buio dietro la grata
della finestra e il caffè. La vecchia però non c’era quella sera e c’era sua
figlia, così non mi ha mai detto quanto costava la casa che era in vendita là e
che io avevo detto che mi sarebbe piaciuto vedere perché anche se sto
all’estero potevo fare l’estate là e magari raccogliere qualche libro contro
pareti di pietra e stare sul balcone di legno e magari andare proprio al suo
caffè a vedere com’è là tutti i santi momenti dell’anno. Ero salito per sapere
quanto costava una casa che non avrei comprato mai, ma era più importante che
stare al primo villaggio a rimuginare su come dovrebbero andare le cose e
invece non vanno così.
Quando
mi sono seduto al tavolo con la tovaglia rossa in sintetico ero sudato per la
salita e la camicia marrone aveva tracce più scure di sudore. Davanti a me
c’era la stessa cosa dell’altra sera ma era diversa. Non per la luce meno
intensa o per la foschia che dopo la pioggia non c’era più. Era tutta quella
storia di rettangoli verticali e orizzontali e i quarti di ellisse fatti dal
rampicante che non erano più la stessa cosa. Anzitutto le foglie non erano
ovali ma lanceolate e seghettate. Il rampicante era una vite americana e c’era
da chiedersi come sarebbe stato il suo rosso in autunno se fossi stato là, se
avessi preso quella casa in pietra e avessi portato là i miei libri, diciamo.
Poi le linee del rampicante erano troppo anarchiche per chiuderle in una
qualche geometria o in qualche scritto. L’unica cosa che restava era il fatto
che la montagna alberata di fronte a me non si vedeva se non a pezzetti e
ritagli, e il blu col suo verde erano davvero il blu e il verde che amo, ed era
buio, e ormai gli alberi erano quasi neri, e le cime calcaree erano illuminate
da una luna crescente che avrebbe rischiarato il cammino di ritorno.
Questa
volta pensavo ai grandi felini dipinti trentamila anni fa in una grotta
francese, alla foresta Ituri nello Zaire del nord, ai disegni astratti che
vediamo al buio se schiacciamo il bulbo oculare con un dito, a una balena
incisa in una roccia del Gobustan quando il Mar Caspio aveva ancora le balene e
qualcuno le guardavano dall’alto come si guardano gli uccelli da un tetto tra
le case. Le alci se ne erano andate ma io stavo bevendo vino rosso.
Scendendo
c’era una svolta della mulattiera che rasentava un terrazzo d’erba inclinato.
Tra l’erba e il bosco sovrastante vorticavano lucciole verdi come ciliege
acerbe. L’aria era pulita e il vento che veniva dalle cime muoveva il buio del
bosco. Nelle cavità c’erano sempre lucciole, ma sulle siepi c’erano le femmine,
immobili e accese, che erano una buona cosa vedere.
Appennino
settentrionale, giugno 2000
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