Macchie di crescita


Macchie di crescita

di Matteo Meschiari


0. Come un padre che chiama un nuovo figlio con il nome di quello morto, do qui a un’altra morte a parole l’estratto di un monologo sul paesaggio che declino da vent’anni: certe pagine di Tolkien asciugate da presenza umana e ridotte a puro paesaggio, molti ghiacciai camminati, o i taccuini accumulati indimenticati da me e dai compagni di via. Avrei voluto prendermela qui, o altrove, con il Postmoderno post mortem che fa àncora e ancóra discorsi su “transurbanza” e “deambulazioni nomadi”. Ritrovo invece la serenità carsica del duro lavoro rileggendomi in una cosa recente, dove dico di aver camminato dal Po a Parma per argini in compagnia di Campana. Il libro era orfico nello zaino, ma l’idea è che pochi possono scegliersi i propri padri, mentre i troppi si tengono quelli che hanno nei loro mondi in minore poco avventurosi.



1. Alcuni mesi fa per le vie di Palermo, a caccia di quarti spazi che non sapevo ancora nominare, ho inventato (leggi “invenio”) il “quarto spazio” (come il “puro paesaggio”, come le “macchie di crescita”, come “walkscape”, prima che altri li usassero per parlare di sé) e ho capito in che modo avrei dovuto pensare da allora in poi, dopo il paesaggio urbano, quello naturale. Le case sventrate da vecchi bombardamenti erano casse di risonanza di macchine di passaggio, di passi nella notte, di voci che abbanniavano merci, ma soprattutto erano caverne (“caveo”?) moltiplicatrici di immagini. Non si trattava di rattoppare una poetica minimale con ostie di verde residuo, spazi di transito, corridoi o interstizi, con discorsi ben temperati che trasformano una bevuta tra amici in una deriva situazionista o una scampagnata suburbana (ou dans les égouts) in opera d’arte. Il punto era tornare alla radice antropologica del “quarto spazio”, quello che inutile alla gestione pubblica dall’alto o all’okkupazione dal basso, quello che disinteressando architetti e neo-punk, e che resta là senza far niente, non ci fa fare niente, ma si agita ancora come un’ombra di fogliame nel fondo del cranio, dicendo australopitechi lungo fiumi di malachite e cariche di felini nell’amnios paleolitico di una grotta.



2. Image box nelle smagliature dell’urbano, il quarto spazio può fare eco al sé, al bavardage-vernissage intellettuale, alla mancanza di sensibilità per le cose permanenti e fondamentali, oppure, scatola di Pandora, può aprirsi su cose come questa: Aspro preludio di sinfonia sorda, tremante violino a corda elettrizzata, tram che corre in una linea nel cielo ferreo di fili curvi mentre la mole bianca della città torreggia come un sogno, moltiplicato miraggio di enormi palazzi regali e barbari, i diademi elettrici spenti. Corro col preludio che tremola si assorda riprende si afforza e libero sgorga davanti al molo alla piazza densa di navi e di carri. Gli alti cubi della città si sparpagliano tutti pel golfo in dadi infiniti di luce striati d’azzurro: nel mentre il mare tra le tanaglie del molo come un fiume che fugge tacito pieno di singhiozzi taciuti corre veloce verso l’eternità del mare che si balocca e complotta laggiù per rompere la linea dell’orizzonte. Ecco perché poi, ritornando a uno spazio fuori del tempo, verso il paesaggio-natura, troviamo questo: La tellurica melodia della Falterona. Le onde telluriche. L’ultimo asterisco della melodia della Falterona [che] s’inselva nelle nuvole. Non si tratta anche qui, àncora e ancóra, di paesaggio sonoro. Si tratta di scrivere l’illeggibile.



3. La metafora della “lettura” del paesaggio è falsa come ogni metafora ma, come ogni metafora, dice. Il debito sanguigno che si osserva, attraverso la risonanza magnetica, nel cervello di una persona a cui si chiede di leggere, mostra che esiste un’area, la regione visiva ventrale sinistra, che si attiva durante il riconoscimento della parola scritta. Ovviamente quest’area non si è sviluppata assieme alla scrittura, ma esisteva da molto prima, ed è stata riusata per la lettura dei segni. Di fatto è la stessa zona che prima di ogni scrittura serviva (e serve) al ri-conoscimento di volti, oggetti, luoghi, rispondendo a un principio di invarianza che fa astrazione da elementi accidentali e superflui. Visage-paesage, visagéité e paysagéité: noi non vediamo un insieme di tratti fisionomici, ma il volto di una persona, noi non vediamo una somma di tratti topografici, ma un paesaggio. La ripetitività oggettiva dei tratti morfologici di un paesaggio (varianti infinite di tipologie finite) dà l’impressione di una ricorrenza di moduli al di là di dimensione, forma, posizione. L’antropologia della scrittura in cui viviamo ci spinge a leggere un senso nelle forme che impariamo a ripetere e che vediamo ripetersi: scivoliamo in un’attesa di senso ogni volta che riconosciamo ricorrenze, corrispondenze, moduli ripetuti. Facile dire allora che il paesaggio si può “leggere”.



4. Eppure la lettura è arrivata ultima, mentre prima c’era il riconoscere volti, tracce animali, luoghi. Così il paesaggio non è nato nel Rinascimento, ma ha una profondità temporale che è biologica. E per questo, forse, in presenza di un paesaggio, si attiva in noi una specie di memoria operativa abituata a leggere tracce (biosemiotica, geosemiotica) per sopravvivere. Nel paesaggio aleggia come una nostalgia di selvaggina che chiede di essere cercata. Non è più questione di selvaggina, oggi, ma la presunta leggibilità del mondo ha creato nuove forme di selvaggina mentale che portano a cercare nei paesaggi una risposta a una domanda selvatica formulata nella filogenesi, e di cui abbiamo perduto consapevolezza. Dall’altro lato, il processo di stilizzazione del disegno al tratto o delle lettere dell’alfabeto racconta una storia più generale e più antica: la nostra tendenza a ridurre linee complesse a sistemi elementari (animali stilizzati, segni detti astratti, ideogrammi, lettere), facoltà attiva che anche di fronte a un paesaggio stimola, prima ancora che una lettura, una scrittura ottica a partire da una semplificazione dei tratti. Scrivere l’illeggibile, appunto.



5. Così anche per la melodia dei sedu(/i)centi paesaggi sonori: non una fumosa confusione tra sintassi del paesaggio e organizzazione melodica, o tra spazi di suono e suoni di spazio. Ma un incontro tra ritmi: quello delle crescite del paesaggio e quello del passo ominide via dall’Africa. Camminare in un paesaggio anziché contemplarlo da fermi è il modo più diretto per capire che si tratta di un insieme dinamico. Questa dinamicità non è né somma né confusione, ma interazione, cioè agire reciproco secondo correlazioni simultanee. In un paesaggio queste relazioni si instaurano a vari livelli e su scale differenti, formando sistemi che a loro volta sono in relazione gli uni con gli altri.  Gli intrecci sono osservabili su diversi livelli (fisico, morfologico, biologico, temporale...) e su scale diverse (micropaesaggio, macropaesaggio...), ma in realtà l’intreccio è uno solo, e si dirama in molte direzioni e molte dimensioni. Esiste però un tratto pertinente, capace di sussumere gli altri senza confonderli (cioè tutti gli altri possono essere immaginati come sue qualità peculiari): il movimento. Gli attributi fondamentali del movimento sono l’intensità e la durata, intensità e durata che nei loro intrecci si organizzano in “figure”. I rafforzamenti e gli indebolimenti dell’intensità sono connessi alla loro durata e la loro organizzazione in figure dipende dalle variazioni di intervalli dopo i quali ha inizio il rafforzamento o l’indebolimento. Se dunque si osserva un paesaggio concentrandosi sull’intreccio di movimenti che lo caratterizza, si può dire che i suoi intrecci hanno un’organizzazione ritmica. Le figure ritmiche che ne derivano non sono mai infinite, e sono caratterizzate da un numero, da un’altezza e da un’intensità. Tali figure possono essere considerate come le invarianti del paesaggio.



6. Parlare di organizzazione ritmica non equivale a dire che il paesaggio è fornito di una ritmicità visibile. Non si tratta del ritmo dell’alternarsi ritmico dei rami di un albero, ma del ritmo di crescita di cui i rami sono solo una traccia. Nel paesaggio è ritmico il modo di accadere, non il suo mostrarsi. Movimento e tempo si incontrano e producono figure ritmiche, e noi percepiamo le tracce di movimento di queste figure. Tracce di movimento, o macchie di movimento, o “macchie di crescita”. Possiamo immaginare a questo punto una sorta di oceano di liquidi a vischiosità variabile che rispondono in modi e tempi diversi a sollecitazioni dinamiche di varia intensità e durata. Le correnti creano onde, ciascuna delle quali si configura al proprio interno come un disegno ritmico di liquidi. La sommità delle onde si solleva fino a toccare un cielo assorbente, che resta macchiato in modi sempre nuovi e diversi. Questo cielo è l’universale sensibile dell’uomo, ciò che noi percepiamo in base a forma, colore, massa e movimento. Le macchie invece sono il paesaggio, e l’oceano di liquidi ciò che un tempo era genericamente chiamato Natura. Ecco allora le macchie di crescita: il soggetto logico è “crescita”, cioè un movimento complesso e relazionato, mentre le “macchie” sono il limite di visibilità di questa crescita complessa, sono il residuo in superficie di dinamiche profonde. Il nesso sintattico tra i due termini (“di” anziché, ad esempio, “in”) suggerisce che la crescita, il movimento, le figure ritmiche preesistono alle macchie stesse (come un verso ritmico preesiste al verso linguistico che lo invera), alle realizzazioni individuali e parziali, un po’ come le strutture dissipative di Prigogine, o la “struttura che connette” di Bateson, o la grammatica generativa-trasformazionale di Chomsky.



7. Altrove avrei detto che queste macchie di crescita possono aiutare a pensare non solo il paesaggio ma ogni altra realtà complessa (un processo di paeggificazione epistemologica, o di paesaggificazione ermeneutica, o di paeggificazione della teoria), ma qui è il nesso con il camminare che mi preme. Perché oggi camminare è andare da A a B, ma quando si seguivano le piste della selvaggina camminare era una lista di “qui” intensi che allacciavano in via metonimica la traccia dell’animale e l’animale assente. È qui tutta la differenza tra una camminata-performance (sport, arte, diporto) e una camminata-paesaggio, un “fare walkscape” in cui è l’azione, non il discorso speculativo-descrittivo-autocelebrativo, che conta. E quello che conta è soprattutto lo scopo. Se il paesaggio si organizza in figure ritmiche, allora si tratta di camminare le sue macchie per mettersi in sintonia con le sue crescite, per conoscere (mito?) e ripetere (rito?) con il corpo-uomo il corpo-paesaggio che inseguiamo come preda da almeno un milione di anni.



8. Il resto è stato detto, e come un figlio nuovo che prende il nome di quello vecchio, ogni pagina sul paesaggio continua ad allungare la speranza di vita di un discorso che magari oggi fa vincere concorsi o appalti, ma che tra una ventina d’anni sarà il Discorso del sì e del no del nostro sopravvivere. Così, parola finale, chi già sta lavorando per quel giorno, più che parlare dei paesaggi e del camminare, è bene che cammini-paesaggi: l’ultimo asterisco della melodia.




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