Neghentopia





































Neghentopia
di Matteo Meschiari



1.

La tempesta era semplicemente immensa. L’acqua saliva al cielo con la violenza di cento mondi, il cielo la copiava in uno scoppio di venti e vapori. Attaccato alla corda e la corda al fusto di petrolio saltavo per aria e per acqua in una serie interminabile di immersioni, di emersioni, tutte brevi lunghe, brevissime lunghissime, e ogni volta che riuscivo a vedere qualcosa mi chiedevo se ero vivo, se l’aria era vita, la morte acqua, viceversa, il contrario di tutto, per ore per giorni, fino a quando quel poco di me che era rimasto in me si richiuse in un niente di calma, e si spense.

La costa. Mi trovarono morto attaccato alla corda, la corda al fusto di petrolio, sotto un vento molle, in una metropoli di granchi indaffarati attorno al mio corpo. Non proprio morto, non del tutto. Mi hanno preso, mi hanno portato in una tenda, mi hanno curato. Mi hanno dato una matita e un taccuino perché ho la gola bruciata dal sale. Ho scritto, ma loro non capiscono. Forse è la lingua, forse è ciò che dico. Pagina 1, presentazioni: Professor Jonathan Aalin Bogoras, Ministero del Sapere, Sezione Culture e Popoli, Unione degli Stati del Sud. Potevo scrivere cuore fa rima con amore e sarebbe stato lo stesso. Così scrivo solo per me, aspettando di ritrovare la voce, di capire dove sono, che cosa c’è là fuori, chi sono loro, che cosa resta del mondo che conoscevo dopo le bombe H e la tempesta.



2.

Febbre. Ho provavo a stringere la matita tra le dita ma la mano era di gelatina. Casa mia? Mia Moglie? Ore e ore a guardare questo incrocio di pali sopra la testa. La pelle di qualche animale, il legno che la sostiene come uno scheletro, il mondo di fuori che preme come vento contro la tenda che mi contiene, embrione di memoria, un rumore disarticolato sullo sfondo. I ricordi tornano a pezzi, premuti dalle cose che girano qui: la ciotola dell’acqua e la doccia, i bocconi di carne semicruda e il microonde, l’odore insopportabile dei miei piedi laggiù, verso l’entrata, e la colonia nel mobiletto di formica, il fatto che non caco da giorni e che se piscio non so nemmeno dove piscio. E invece, in un laggiù nebbioso, asciugamani, saponi, vita pulita. Che cosa farei se fossi a casa? Che cosa direbbe mia moglie sapendomi vivo, se lei fosse ancora viva? I pali della tenda sono dieci come le dita di una mano ma non s’incrociano come le dita, s’incrociano come il disegno di un bambino che si preoccupa del senso, non del buonsenso. E i pasti sono buoni. Non so che carne è.



3.

Adesso le gambe mi reggono. Sono uscito dalla tenda-placenta. Il rumore era il mare, quel mare che mi ha sputato come un rottame. E anche la costa è un rottame, navi, addirittura case fatte a pezzi, monconi della vita di un tempo. Adesso s’incastrano nella sabbia come ossa in un muro dopo una bomba. La gente sulla spiaggia raccoglie cose che possono servire, legna, pezzi di lamiera. Le cose pesanti restano là. Ci resteranno per sempre. Se pensavano che la costa era bella, adesso non lo è più. Nuove nubi dal mare. Di notte bagliori lontanissimi. Brontolio di esplosioni. Hanno ancora forze da usare? Qualcosa per cui combattere?



4.

Tricheco. Era tricheco la carne. Salgono in lance a motore, li finiscono con un colpo di carabina ma li prendono con gli arpioni, si fanno tirare per ore dall’animale ferito, alla vecchia maniera. L’ho visto mentre li fabbricano. Prendono le balestre dei camion fuori uso, tagliano l’acciaio, lo limano, lo fissano a un remo. Cacciavano in quel modo un secolo fa, ma poi hanno dimenticato. Stanno imitando le pratiche dei vecchi solo perché non hanno alternativa. Le cartucce per le carabine stanno finendo, così hanno reinventato gli arpioni. Forse tra qualche anno smetteranno l’acciaio e useranno l’osso. Forse tra qualche anno non ci saranno più animali da cacciare e non importerà più nulla.

[…]

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