1.1 Paradigma Pleistocene
(un manifesto cognitivo, non un proclama primitivista)




























1.1. Paradigma Pleistocene

di Matteo Meschiari, Maurizio Corrado, Francesco Gori


Tra civiltà e apocalisse, tra decadenza e progresso, c’è un’isola-che-non-c’è, un “prima” e un “dopo” che spaventa o che inspiegabilmente attrae. Gli storici lo chiamano Preistoria, gli ambientalisti Wilderness, i filosofi Utopia, ma più che uno spazio nel tempo o un tempo nello spazio è un modo di vedere il mondo per intuizioni, per lampeggiamenti, un sistema incoerente di visioni e d’idee che aiuta a pensare l’adesso-qui. Questo “Paradigma Pleistocene”, da Giordano Bruno a Paul Shepard, da Lascaux a Keith Haring, attraversa in modo trasversale il pensiero scientifico, filosofico, religioso, emerge nell’arte e nelle abitudini alimentari, e si riassume in un’idea indimostrabile: noi siamo chi eravamo, fatti per muoverci e per stare fuori, siamo memoria genetica e incarnazione attuale dell’uomo del Paleolitico, i nostri gesti, i nostri processi cognitivi sono abitati dai suoi. Mobilità, leggerezza, manualità, ricerca dell’essenziale, materiali primari, comunità, racconto: le tracce di questa presenza visionaria nella cultura ufficiale sono ovunque, sono positive, sono necessarie, per sopravvivere al bordo di ogni mappa, per immaginare qualcosa al di là del muro. 


Quasi certamente lasceremo ai nostri figli e ai figli dei nostri figli una Terra peggiore della nostra. Quando si pensa a un mondo peggiore non bisogna pensare alla caduta dell’Occidente in mano ai barbari, ma alla caduta degli ecosistemi terrestri come li abbiamo conosciuti fin qui. Per fare fronte al collasso l’uomo svilupperà tecniche di sopravvivenza ali­mentare, ambientale e sociale, ma non è detto che sarà in grado di re­sistere. Perché la tecnica non serve a niente senza una mente in grado di affrontare con coraggio e ispirazione le privazioni e le perdite che ci attendono.


Fanatismi religiosi o filosofie dello spirito non potranno funzionare a lungo. Invece, se si deve pensare a qualcosa di veramente efficace, tornano in mente i cacciatori-raccoglitori degli ecosistemi artici e su­bartici di 40.000 anni fa. Certamente avevano sviluppato tecniche di sopravvivenza basate su strumenti e competenze ecologiche perfetta­mente adeguati al loro ambiente di vita, ma quello che li ha davvero salvati dalla glaciazione è stata la loro capacità di produrre immagi­ni.


Io sto fuori e mi muovo. Come Homo sapiens abbiamo avuto questo comportamento per 200.000 anni. Poi circa 12.000 anni fa è iniziata una lenta trasformazione di abitudini, abbiamo cominciato a usare coltivazione e allevamento per procurarci il cibo e grazie soprattutto all’agricoltura siamo diventati sedentari. Questo ha portato in un tempo relativamente breve alla nascita dei primi insediamenti stabili, poi alle città e a quello che chiamiamo civiltà.


L’agricoltore possiede, accumula, e deve difendere quella che è diventata la sua vera essenza. L’agricoltore è ciò che possiede, il cacciatore è ciò che conosce. I beni del cacciatore fanno parte del suo essere. I beni dell’agricoltore sono altro-da-sé, sono fuori dal suo corpo, altrove, e quindi asportabili, deteriorabili, necessitano di difesa e confini. Per il sedentario la mobilità diventa sinonimo di perdita e pericolo. Il cacciatore, invece, porta con sé il proprio campo.


La mezzaluna fertile è la culla della nostra civiltà, il tempo e il luogo da cui proviene la nostra cultura. È là che ebbe luogo la rivoluzione neolitica, l’unica autentica rivoluzione all’origine della nostra tradizione, rispetto alla quale ogni successivo sviluppo della storia non è che una nota a piè di pagina. Lo è l’Egitto lo sono i Fenici, lo è la civiltà Minoica, lo è la Grecia, lo è Roma, lo sono gli stati-nazione lo sono gli Stati Uniti. La mezzaluna fertile è l’occidente, dai Sumeri agli Egizi, passando per la Siria, la Giordania e Israele-Palestina.


La mezzaluna fertile è il luogo da dove tutto proviene, dove gli uomini hanno smesso di vagare per le boscaglie per stanziarsi, cominciare a coltivare la terra, e quindi sviluppare gli insediamenti urbani, le città, i palazzi, le opere di ingegneria, scrivere, dedicarsi alle attività di ozio, sviluppare la cultura. La mezzaluna fertile, però, non è il luogo da dove proviene l’uomo, ma il luogo da cui proviene la civiltà, la cultura “moderna”, che nasce appunto come agri-cultura.


L’uomo però viene dalla caccia e dalla raccolta. Dalla selva, dal nomadismo. Così è stato per milioni di anni. L’agri-cultura è una parentesi di passaggio nella storia dell’umanità, e oggi è in crisi, sta declinando, sta svanendo. Lo vediamo nelle nostre vite: sempre meno, oggi è possibile, e ha senso, essere sedentari. Gli uomini del futuro sono nomadi. Gli uomini del presente sono semi-nomadi, o meglio semi-stanziali, sono parzialmente, frammentariamente insediati. Eppure qualcosa di permanente e primario ci abita. In opposizione alla “culture” bisogna cominciare a pensare una “hunture”, che non è una cultura della caccia, ma un insieme di strategie cognitive “venatorie” che ancora possediamo, che esistono come prassi e paradigma nel nostro modo di orientarci tra le cose.


Torniamo indietro, a quel nocciolo primario. Ciò che chiamiamo arte preistorica, e che certamente era tutto fuor­ché arte nel senso che noi diamo a questa parola, non era una sovra­struttura intellettuale o un gioco gratuito elaborato e coltivato in un eccesso di tempo libero. Era invece la prima e più efficace tecnica di sopravvivenza mai escogitata per resistere alla crisi ambientale, mol­to più degli arpioni d’osso o dei vestiti di pelliccia.


Le immagini visibili nelle grotte di Lascaux o Chauvet sono quasi sempre animali, ma animali che solo di rado sono rappresentati in scene di vita vissuta. Al contrario, si tratta di esseri estratti e astratti dal loro contesto etologico, collocati a galleggiare in un gene­rico liquido amniotico, senza terreno, senza paesaggio, in un fuori senza spazio e senza tempo che li rende più simili a idee di ani­mali che non ad animali in carne e ossa. Si tratta delle prime vere u-topie mai rappresentate dall’uomo, immagini di un mondo da cui lui, volontariamente, sembra autoescludersi.


Altre immagini e altre utopie: per la Bibbia il passaggio all’agricoltura è siglato con un omicidio, con l’assassinio di un pastore, Abele, da parte di un agricol­tore, Caino. Il suo nome deriva dalla radice knh, possedere, ed è connesso con kna, invidiare. Caino è necessariamente un assassino, un bugiardo, un prodotto della necessità dell’avere “di più” insita nell’agricoltura e assente nell’es­sere del cacciatore/pastore/nomade i cui averi coincidono con le sue capacità, conoscenze o con possedimenti mobili come gli animali. È significativo notare come a Caino sia attribuita anche la fondazione di una città, (Genesi, 4,17) la prima città che compare nella Bibbia e forse la prima città in assoluto. Quindi nella Bibbia il primo agricoltore e il primo fondatore di città (e, continuando con i primati, il primo proprietario e il primo fratricida) coincidono in una figura sola. Costruire e coltivare, chiudere e controllare, si mostrano come espressione di una medesima volontà, due facce della stessa medaglia, e vengono rappresentati come innaturali, sono atti contro natura che richiedono una giustificazione, un sacrificio cruento.


La crisi della civiltà può essere tracciata a livello geo-politico. È in corso una guerra mondiale, una guerra di civiltà che non ha niente a che vedere con lo scontro tra civiltà, una guerra civile-mondiale, come la definisce Schmitt, la guerra interna alla civiltà agraria che viene dalla mezzaluna fertile. E dov’è il teatro di questa guerra? Come non accorgersene? Nella mezzaluna fertile, naturalmente: Iraq, Siria, Giordania, Israele-Palestina, Egitto. Troppo evidente per essere notato, come la lettera rubata di Poe. La mezzaluna fertile è il luogo in cui si sta consumando la guerra civile mondiale, la guerra interna alla civiltà, e cioè alla agri-cultura, divenuta mondiale, e sedentaria. Mentre l’origine siamo noi, è qui, è il tuo corpo che hai dimenticato su quella poltrona. Gesù dice a Lazzaro: “alzati e cammina (lazzarone)!”  La civiltà, l’agri-cultura, è una società di lazzaroni, di dormienti, di macchine.


Certamente nell’arte paleolitica si trovano anche immagini di umani. Ma sono segnate da una inspiegabile fragilità tecnica, come nell’im­possibilità per l’uomo di vedersi chiaramente, frontalmente, in modo compiuto. Questi balbettii lasciano invece spazio a un glorioso be­stiario preistorico, limitato nelle specie ma sovrabbondante nel nu­mero, che è stato reso con grande perizia realistica, con minuzia di dettagli, con fermezza. A guardarlo è come assistere allo spettacolo di un’umanità che, osservando un mondo di soli animali, sta contem­plando al tempo stesso la propria assenza.


L’utopia spaziale della grotta è una specie di “come se” narrativo: “come sarebbe il mondo senza di noi?”, “come sarebbe se noi fossi­mo uguali a loro?”, “come sarebbe se loro fossero come noi?”. L’ani­male diventa la nostalgia di una semplicità atemporale perduta, che ha alimentato il sogno dell’anello di Re Salomone, i miti aborigeni di una connivenza perduta con gli animali, il dawinismo utopico della presunta purezza delle società animali, l’animalismo emotivo e quel­lo giuridico, la traduzione antropomorfa dell’animale in bambino da compagnia o in antagonista ultimo dentro una plaza de toros. Una no­stalgia che è molto più antica del guasto industriale, dei sensi di col­pa postmoderni, così antica anzi da poterla immaginare all’origine stessa dell’essere Sapiens.


La nostalgia è la costruzione di un’altra storia che oppone il potrebbe essere all’essere. Un esercizio del possibile, come i sogni notturni, i voli sciamanici, l’arte, il racconto, la schizofrenia Ma la nostalgia, quando costruisce un “come se” utopico, è soprattutto il terreno del totalmente Altro. Quello che ci dice l’arte preistorica è che l’alterità dei filosofi e degli antropologi nasce ab origine come alterità animale. Il primo grande vero altro-da-me è stato l’animale. Ma l’animale di­pinto o graffito, per il suo galleggiare fuori dallo spazio e dal tem­po, per il suo liquido u-topico, era anche un Altrove.


Sono molti i segni che il ciclo si sta chiudendo: 1 La guerra nella mezzaluna fertile; 2 Il progressivo riaffermarsi del nomadismo; 3 Il ritorno delle tavolette, da quelle  dei Sumeri ai tablet; 4 la trasformazione estrema del surplus agrario in virtualità finanziaria, la smaterializzazione definitiva della ricchezza. Il ciclo si sta chiudendo, stiamo tornando ai Sumeri e poi, alla foresta. E’ Babilonia lo stadio attuale, l’ultimo, prima della grande catastrofe e del ritorno della Wilderness sulla Terra. Come ha osservato Hakim Bey, “la fine del Moderno non significa un ritorno al Paleolitico, ma un ritorno del Paleolitico”.  Il Pleistocene è il nostro destino, cacciatori nomadi saranno i nostri pronipoti. Liberi, forse. Ma il Pleistocene, soprattutto, è ciò che comincia adesso.


Pensiamo all’esperienza in una grotta profonda. La luce vacillante, l’eccesso di umidità, la mancanza di ossigeno, l’incertezza dei punti di riferimento, il disorientamento percettivo. E pensiamo al fatto che l’immagine dell’animale era integrata al supporto roccioso, ne sfrut­tava i volumi e i contorni per mettere in rilievo volumi e contorni del­la figura. L’animale era la pietra che inglobava, era la grotta da cui emanava, era la spazialità disorientante che si portava dietro. L’alteri­tà per l’uomo del Paleolitico era prima di tutto un Altrove, un pae­saggio in forma animale che l’uomo non avrebbe camminato mai, se non in sogno.


Poi Utopia, Alterità e Altrove hanno cambiato di segno. L’inizio della coltivazione dei cereali ha portato con sé alcuni dettagli che cambieranno definitivamente il corso della storia. Non era pensabile abbandonare il granaio, che può essere considerato la prima vera architettura sociale, stabile, riconosciuta. Quindi la soluzione era costruire luoghi in cui abitare intorno a quel nuovo elemento che garantiva la disponibilità di cibo e rappresentava la prima ricchezza materiale. Questa è l’origine dei villaggi stanziali e delle prime città del Medio Oriente. Ed è l’origine dell’Altro come antagonista, e di un Altrove come promessa di riscatto.


Nell’estate del 2008, a Uelen, nella peni­sola della Chukotka, dei cacciatori locali di balene tornano a riva con la preda. Contravvenendo a regole sociali millenarie, anziché distri­buire a tutti la carne, specie ai più poveri, decidono di metterla in vendita. La gente è incredula, pensa a manovre del governo centrale, parla di vergogna. Non quella che dovrebbe spingere i cacciatori a ri­credersi, ma quella che i poveri provano adesso sentendosi ancora più poveri, quella che il giovane nutre verso i vecchi e verso gli spiriti degli antenati traditi. La balena però è stata messa in vendita per ra­gioni molto semplici: i cacciatori hanno bisogno di soldi, per procra­stinare il loro debito cronico verso alcuni Russi che vendono loro un distillato micidiale, ricavato da acqua, lievito e zucchero.


Cosa lega l’utopia di una grotta paleolitica e la fine del mutuo appog­gio presso una comunità autoctona dello Stretto di Bering? Cosa lega l’animalità, l’alterità e l’altrove al microcapitalismo inquinante, alle ragioni della vergogna sociale e alla disparità di fatto? Anche la storia dei cacciatori Chukchi è la storia di un “come se”, non tanto perché può far pensare a come sarebbe il mondo del buon selvaggio se il ca­pitalismo non l’avesse raggiunto, ma perché la piccola storia della fine di un mondo è in realtà la storia della fine del mondo, è quel “senza di noi” che attende l’umanità quando il resto del pianeta soc­comberà nella crisi ambientale, economica, sociale, sapienziale.


La hunture, l’antica conoscenza dei cacciatori nomadi, è stata riposta in arcana dopo l’affermazione di Babilonia. Conoscere gli arcana, senza rivelarli, è oggi il nostro compito attivo. Non rivelare significa non volgarizzare, non commercializzare, ma non “non divulgare”. Comunicare gli arcana a un maggior numero possibile di persone, ma per via diretta, da individuo a individuo, oralmente, nel gesto, nella presenza. La scrittura non può comunicare gli arcana. La scrittura registra le osservazioni che facciamo a Babilonia, le ordina, le classifica, ma non ci dà accesso agli arcana. La scrittura ci fornisce però le chiavi per la divinazione, disponendo nel cosmo della pagina i segni dell’anaciclosi storica. La scrittura è la premessa necessaria per la divinazione. Come tale, è un elemento fondamentale dell’addestramento, che verrà abbandonato solo al momento giusto, quando non sarà più necessario, come le rotelline dalla bici di un bambino. Ma noi questo non lo vivremo. Per quanto ci riguarda, la scrittura sarà ancora tra i nostri doveri.


La scrittura può condurre sulla cresta da cui si contemplano gli arcana, ma non li realizza. Gli arcana si vivono, non si scrivono. La verità non è una conoscenza, un’informazione, la verità non si può scrivere, ma si danza. Essere la verità, questo è l’insegnamento da consegnare ai nostri figli perché lo tramandino ai nostri pronipoti.


Ogni storia di un allora e di un altrove è sempre una storia del qui e dell’ora. Più che riflettere sul prima e sul dopo, o sui diversi gradi del lontano, occorre pensare a quello che accade oggi qui da noi, e al mondo che stiamo per consegnare alle prossime generazioni. Bisogna farlo non tanto perché riflettere potrebbe cambiare le coscienze, per­ché potrebbe convincere i molto-troppi ad accettare il buon senso, la decrescita, il rispetto, e quindi invertire in extremis un andamento or­mai irreversibile. Bisogna farlo perché se i tempi saranno duri dob­biamo munirci fin da ora di strumenti per resistere dentro, coltivan­do forza e tenerezza sufficienti per non perderci.


Nella cultura mobile i rapporti avvengono in qualcosa di simile a una distesa omogenea attraversata da percorsi e costellata da punti significanti. Il modello di comportamento del cacciatore, antico e contemporaneo, è il medesimo, cambiano gli strumenti. Consideriamo come distesa omogenea il mondo, vero terreno d’azione del cacciatore contemporaneo, le piste sono quelle che fisicamente percorre con vari mezzi, automobile, treno, aereo. I punti significanti sono i luoghi in cui staziona, luoghi privilegiati come la propria casa, l’albergo, i luoghi di lavoro, di incontro, di svago. Questo è il paesaggio fluido nel quale si muove il cacciatore contemporaneo. È un paesaggio che sembra avvicinarsi a quello di un luogo omogeneo e opaco, attraversato da vie e cosparso di oasi, punti significanti di relazione.


Il problema è allora poetico e politico. Non servirà a niente reinventare l’e­conomia e la società se non avremo coraggio. E il coraggio, come ci insegnano le grotte del Paleolitico, è sempre in un “come se”, è nel­l’inventare storie che funzionano come uno specchio delle differenze, proprio come l’animale dipinto era il riflesso anomalo del cacciatore che lo contemplava. È di queste immagini che abbiamo bisogno, e di cui avremo bisogno sempre di più per rimanere attaccati al meglio di noi stessi. Ma per cercare queste immagini bisogna uscire nel fuori, bisogna lasciare i vecchi paesaggi culturali e ideologici, ed entrare nudi in uno spazio fuorilegge, fuori steccato, fuori dogma.


In tutte le società industriali lo sviluppo ha avuto lo stesso effetto: ognuno è inserito in una trama di dipendenza da prodotti e beni standardizzati al cui bisogno viene costantemente educato. È in atto una progressiva sostituzione di tutto ciò che non è negoziabile con beni e servizi industriali. La dipendenza da merci e bisogni preconfezionati ha sostituito la capacità di ideare e costruire le proprie soluzioni, è avvenuto un mutamento importante: sono cambiati i desideri. La libertà non è più desiderabile.


Si può allora resistere immaginando utopie, non quelle escapiste o dei parchi naturali dell’anima, ma quelle del qui e dell’ora, che fun­zionano come specchi critici, come invenzioni di quell’inutile che sal­va la mente quando tutto sembra perduto. L’utopia che serve ha a che fare con la Terra che stiamo perdendo. Immaginarla, camminarla, far­la entrare nelle logiche del pensiero non ci eviterà il peggio davan­ti a noi. Ma ci permetterà di fare esercizio di resistenza, di conoscen­za e di memoria, cose di cui avremo bisogno, e di cui avranno biso­gno i nostri figli.


C’è una concezione del mondo che vede nel divenire il destino comune a tutto ciò che esiste. Intorno a quel filo rosso che lega Eraclito, Bruno, Bergson e pochi altri tra i filosofi, ma molti altri tra mistici, musicisti e artisti, si troveranno argomentazioni, indizi e approfondimenti utili al nuovo cacciatore mobile contemporaneo. Va detto che quella del divenire non è affatto una condizione comoda, tutt’altro, implica un distacco costante e inevitabile da ciò che amiamo e da ciò a cui ci abituiamo, una continua rimessa in discussione che può risultare lancinante e spossante, è un cammino fatto di continue morti e resurrezioni, implica essere e non avere, ci vuole forza, volontà, desiderio. Cervello, gambe e occhi sempre aperti.


Hybris prometeica: voler dominare intellettualmente il mondo, prevedendone la catastrofe, spiegandone le cause, comprendendone le ragioni, dimostrandone l’inevitabilità. Saggezza dionisiaca: imparare a dominare se stessi conoscendo il proprio corpo. Imparare a danzare. Divenire sciamani. Svegliarsi. Ed essere primari, non primitivi. Pleistocene non Preistoria. Paleolitici oggi, non domani. Apocalisse ieri, non davanti a noi. 

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