Geofanie. La Terra postmoderna - 2015




Geofanie. La Terra postmoderna. Roma, Aracne  2015.


Il Grande Paesaggio


Una decina di anni fa stavo camminando per le vie di Avignone, un luogo importante per la storia del paesaggio perché, alto tra le case, bianco per la neve o per le frane calcaree, si intuisce come un’idea il profilo del Monte Ventoso. È lì che Petrarca, salendo per pura cupiditas videndi, avrebbe “inventato”, a detta di alcuni interpreti, la categoria estetica del paesaggio, cioè una Terra contemplata per se stessa, nella sua bellezza priva di allegorie. Camminavo dunque per Avignone ed ero con un amico editore, quando a un tratto gli ho chiesto: «chi sono oggi in Francia i poeti che parlano della Terra?». Così su due piedi Francis Combe (è questo il nome dell’editore) non è riuscito a rispondere, ma qualche mese dopo ha pubblicato un articolo in cui girava la domanda al pubblico francese: ammettendo che in generale sono pochi gli autori contemporanei che mettono al centro la Terra, Combe faceva un appello ai lettori, chiedeva se conoscessero qualcuno o se fossero loro stessi quel tipo di poeta. Che io sappia, in questi dieci anni, le cose non sono cambiate e l’appello non ha avuto risposte, ma forse il panorama non è così arido, a cominciare dallo stesso Combe che, oltre che editore, è anche poeta. Nel suo Cévennes (1985), ad esempio, faceva eco e quasi controcanto al Petrarca del Ventoso:

Sono salito infine al Mont Lozère.
I prati di vento, le torbiere muscose, le graminacee ingrate e i ciuffi di nardo.
       Nella collisione delle correnti d’aria, in mezzo all’erica viola per il freddo, sono salito infine sul poggio calvo,
       E là, in questo paese già da tempo ritirato dal mondo
       Ho posato la mano sul collo di un caos di pietre, l’amnesia della roccia, la mandria silenziosa dei macigni solubili
       Sono loro i testimoni
       della salita dello gneiss,
       del sollevamento del quarzo,
       della migrazione della mica e del feldspato tra strati di notte,
       della rivolta dei megaliti inalberati da tempo dal vento, dalla neve e dalla pioggia.
       Allora ho voluto
       abbracciare il corso del silenzio
inaugurare la respirazione delle creste
tallonare i talloni del cielo
costruirmi un orizzonte di metri cubi di ossigeno
e ho camminato
tra le picee, nel mormorio infantile dei mirtilli, la leggenda dei torrenti,
E ho sentito, profondamente sepolto, sotto i miei piedi, il rumore continuo del minerale.
Poi ci siamo seduti
E abbiamo diviso un po’ di pane e di formaggio duro.

Torneremo in Francia. Passiamo invece all’Italia, dove c’è un autore che ha rappresentato la punta della scrittura paesaggistica in un Paese che si è inventato come paesaggio ancor prima che come nazione. Penso a Francesco Biamonti e al suo Le percept de nature dans la poétique contemporaine (2001), una conferenza importante e poco conosciuta:


Tutto cambia con il XX secolo: la natura diventa indifferente, lontana, e sprofonda in un disordine cosmico. […] Tutta la letteratura esistenzialista è attraversata da questa concezione di una natura che non significa più niente, che non è altro che un “correlativo oggettivo” dello stato d’animo dell’uomo. E con essa, tutta la linea ligure e quella della costa francese del Mediterraneo, dove la natura fornisce degli oggetti che servono a stabilire lo stato d’animo di chi guarda. Questo miscuglio d’emotività umana e di dati naturali comincia con Cézanne. Con Cézanne la natura diventa non solo il “correlativo” dello stato d’animo del pittore, ma anche il fondamento dell’emozione stessa. C’è questa oggettività dell’emozione che si trasmette alle cose, tracciando al tempo stesso una sorta di autoritratto.[…]Bisogna restare attaccati a qualcosa della natura che, in qualche modo, diventa un’ancora, una speranza di salvezza. Non so come spiegare questo ritorno alla natura nella letteratura contemporanea, questo ritorno del mondo. Al di là delle fedi religiose e delle fedi politiche, al di là delle ideologie, resiste questo carattere primordiale della terra nell’avventura umana. […] La durezza della pietra torna nella letteratura […]. Se volete che il vostro personaggio viva, fate che sia libero. La libertà e la verità della natura, della terra, sono i soli terreni di esplorazione che restano allo scrittore.

La frase è carica di destino. Anche se in modo indiretto e non troppo cosciente, l’incontro tra discipline diverse sembrava aver preparato il terreno per un “ritorno” della Terra in letteratura. Un ritorno? Se ritorno c’è stato l’esperienza si è conclusa già prima di cominciare. La Terra, che credevamo stabilizzata in un’immagine razionale, che sapevamo parto laborioso di un lungo transito dal mito alla scienza, aveva cominciato a pulsare e a deformarsi di nuovo. Per tentativi, per assaggi periferici, qualcuno stava provando a reinventarla, trovando nelle sue forme in rilievo una spinta molto antica e molto attuale. Questa tettonica dell’immaginario viaggiava su assi precisi: epos, cosmografia, corpo come misura del mondo. Qualcosa di cruciale, se si pensa che l’ecologia della mente è un riflesso nell’individuo e nel gruppo di ciò che in scala evolutiva è stato il lento ed efficace adattamento della specie agli ambienti preistorici. Ma il flusso si è bloccato, e qualcosa di diverso ha preso il sopravvento.

La Terra postmoderna, perché è di questo che si tratta, è stata molto più di una vaga intuizione e molto meno di un paradigma condiviso. Per quanto all’osservatore contemporaneo sembri attiva e vitale, in realtà è stata un’alba abortita: voltandoci indietro per guardarla, quello che vediamo è la storia di una parentesi geografica, un’invenzione dello spazio che è rimasta schiacciata tra la Terra moderna e il Mondo globalizzato, una strana effimera alchimia tra poesia e scienza, come la storia di due fiumi che hanno corsi distinti ma che procedono nella stessa direzione. Disegnare la geografia delle terre che stanno in mezzo, quella specie di Mesopotamia mentale che è la patria della cultura occidentale, è un lavoro intellettuale in parte già fatto in parte impossibile da fare. Quello a cui si può ambire ragionevolmente, invece, sono delle ricognizioni a breve raggio, per cercare di capire qualcosa, per disegnare un itinerario e cominciare a orientarsi.

In questo libro-lampo intendo allora additare una pista che sto seguendo da qualche tempo, e che riguarda una fase piuttosto fertile e piuttosto sconosciuta dell’immaginario terrestre. Il mio itinerario va in Italia, in particolare in Liguria, in Bretagna, fa una puntata in un’America Latina che non esiste ancora, e va a finire nei deserti di tenebra e luce della penisola arabica, magari con una puntata estrema in Irlanda. L’idea è che dopo due secoli di Romanticismo più o meno travestito e dopo quarant’anni di avanguardie vere e meno vere, è esistita una linea carsica di poeti che ha reintegrato la Terra in letteratura, una Terra molto concreta e insolitamente lontana dai simboli e dalle metafore ai quali ci eravamo abituati. Tutto questo, vorrei metterlo in luce, dipende da un rapporto confidente, mai dialettico, mai antitetico, che il poeta ha con la geografia e la geologia, ma soprattutto dipende da un modo più o meno implicito di relazionarsi con l’idea di mappa.

Il Postmoderno, lo sappiamo, è ossessionato dalle mappe, anche se quasi sempre si tratta di oggetti fisici e mentali concepiti e usati in maniera molto poco cartografica: rigettando e criticando la cartografia come scienza del governo e della guerra, l’intellettuale postmoderno ha usato il mapping come bandiera, come l’urgenza di un ritorno a un pensiero spazializzato e a una tensione cosmografica. Il moltiplicarsi nel secondo Novecento di mappe immaginarie e di esplorazioni artistiche della cartografia, alcuni tentativi di contaminare la storia e l’analisi letteraria con la riflessione epistemologica dei geografi e con la mappa come metodo ermeneutico, la geofilosofia di Deleuze e Guattari, le geodeambulazioni da Guy Debord a Gary Snyder, l’etnocartografia e la counter cartography, sono fenomeni che ci parlano di un movimento di vasto respiro, declinato in versioni intellettuali e pop, documentato, studiato, mediatizzato, e che oggi sembra godere ancora di ottima salute. Ma non è di questo che voglio parlare.

La mia idea, invece, è che il Grande Paesaggio che ossessiona in modo trasversale approcci e discipline, che si definisce e assottiglia in migliaia di libri e interventi critici, che tracima come metafora-metonimia nella cultura del quotidiano e del contemporaneo, è stato per qualche tempo un paradigma di pensiero potenzialmente operativo ma, con una tempestiva appropriazione da parte delle accademie, è stato subito riassorbito in categorie contemplative, simboliche, estetiche. Da modello inferenziale per interpretare la realtà a realtà (an)estetizzata riducibile a un logo, da arena per un nuovo immaginario geografico a wunderkammer en plein air. Il fatto è che, abbagliati dal Grande Paesaggio, stiamo perdendo la Terra. E non solo la Terra con la maiuscola, quella delle cosmologie, quella ambientalista, ma la terra dei paesaggi radicali, fatti di roccia e ghiaccio, la terra nuda delle grandi migrazioni, percorsa da animali selvaggi e da popoli nomadi.

Hemingway diceva che i cattivi poeti scrivono poesia epica. Forse intendeva l’epica del sangue e del territorio, o forse andava più in là, e criticava i cuori stanchi che hanno bisogno del Tempo Grande per simulare una grandezza che non avranno mai. Esiste però un’epica che non somiglia a niente, se non al vagabondaggio picaresco, senza gloria e senza storia, di un gruppuscolo quasi invisibile di poeti della Terra. Questi geoanarchici camminanti hanno cantato pietre di frana e tende di pelle, e un giorno ci hanno lasciato com’erano venuti, con poche tracce dietro di sé e senza passare il testimone.

Da qualche tempo cerco un passaggio a Nord-Ovest tra noi e loro, tra rete globale e sentiero. Forse si tratta di immaginare un’Isola della Tartaruga sotto l’America attuale, come ha fatto Gary Snyder. Forse è proprio questa la cattiva poesia di cui parlava Hemingway. Ma se ha un senso cominciare a mappare questa avventura delle idee e della parola non è per fare storia (o geografia) della letteratura o per riguadagnare alla poesia un ruolo centrale nella riflessione ecologica. Piuttosto è questione di studiare la specificità di un immaginario geografico, certamente anomalo, contingente, episodico, ma che nel laboratorio della parola poetica ha trovato per una breve stagione qualcosa da dire, qualcosa che andava al di là della poesia: una visione delle cose, forse, e una pausa al progressivo disincanto.

[continua...]

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