“Hunture”. La svolta paleolitica




“Hunture”. La svolta paleolitica 
di Francesco Gori
 



La cultura a cui apparteniamo ha avuto origine circa diecimila anni fa con la cosiddetta “rivoluzione neolitica”, che ha prodotto la nascita dell’agricoltura, la creazione dei primi insediamenti urbani e ha portato alla comparsa della scrittura, attorno al 3200 a.C. La nostra “culture”, insomma, è fin dal principio inseparabile dall’ “agriculture”, di cui è espressione diretta: coltivazione della terra, stanzialità, inurbamento, sviluppo della tecnica, scrittura, archiviazione (del grano, delle informazioni, della memoria), infatti, costituiscono nel loro complesso l’orizzonte dell’agri-cultura, dalle prime comunità stanziali del neolitico all’odierna civitas globale.




Come mostrano numerosi segni, però, la civiltà agraria a cui apparteniamo, successivamente divenuta civiltà industriale (secondo il medesimo principio della produzione di un surplus: prima di grano nei granai e poi di capitale nelle banche), sembra oggi avviata verso l’esaurimento del suo ciclo storico. Dopo dodicimila anni di consolidamento, la superficie della civiltà stanziale si sta incrinando, lasciando trapelare tra le sue crepe nuove forme di vita nel segno della mobilità, della frammentazione e della disseminazione, per scelta e/o per necessità. Se, infatti, le genti del sud e dell’est del mondo sono costrette a un’esistenza da profughi, in fuga permanete dalla guerra, dalla fame e dalla siccità, anche nei paesi ricchi del nord e dell’ovest, a seguito della deindustrializzazione e delle continue rivoluzioni delle tecniche di comunicazione, nuove modalità di lavoro e di socialità stanno spingendo porzioni crescenti della popolazione a una incessante ri-localizzazione per (in)seguire percorsi di formazione, aspirazioni lavorative, relazioni sentimentali. La “società liquida” di cui parlava Bauman si sta così avviando verso un ulteriore stato di rarefazione, assomigliando sempre più a una nube gassosa, un “cloud”, come nella nuova frontiera del digitale, in cui tutte le informazioni vengono stoccate in una “nuvola” (apparentemente) impalpabile, compresi il nostro lavoro, i nostri affetti, il nostro impegno politico, portando anche gli abitanti dei paesi ricchi, per una via opposta, a una condizione di semistanzialità, se non di nomadismo incipiente.



“Semistanzialità” e “nomadismo” possono essere utilizzati per descrivere, rispettivamente, le condizioni materiali e mentali in cui vive quello che – con un inconsapevole ossimoro – si è soliti chiamare il “cittadino globale”. Il suo modo di abitare non ha niente dell’autentico nomadismo (quasi nessuno vive in tenda, spostandosi stagionalmente), ma si definisce nella forma della semistanzialità: di appartamento in appartamento, di città in città, di lavoro in lavoro, a intervalli anche molto brevi, di pochi mesi. Un fenomeno come il successo commerciale di Ikea, ad esempio, non avrebbe potuto affermarsi in un mondo puramente “agri-culturale”, imperniato sulla stanzialità e sul vincolo tellurico: se siamo disposti a vivere in appartamenti anonimi, arredati con un mobilio cheep e standardizzato, è perché presto ce ne andremo da un’altra parte; e spesso conviene lasciare tutto, o buttarlo via, che affrontare i costi di un trasloco, magari da un continente a un altro. Siamo così condotti alla mente del cittadino globale, che è invece nomade, gassosa, inafferrabile, perennemente proiettata in un altrove comunicativo, lavorativo, relazionale, sentimentale. Per questa ragione, se il nostro abitare ha la forma del catalogo Ikea, il nostro immaginare, pensare, sognare ha assunto i contorni dei social networks digitali, che nel giro di pochissimi anni sono diventati la “piazza” in cui tutto (e quindi, in definitiva, nulla) accade. Da questo punto di vista, Ikea e facebook, in sé, non sono idee né buone né cattive, ma idee che incontrano lo spirito del tempo, che lo assecondano, che pettinano la storia per il verso del pelo. La loro genialità, semmai, consiste nel fatto che vengono percepite come indispensabili, presentandosi come la soluzione a un problema che, di fatto, non fanno che alimentare: il dimorare del cittadino globale, il suo radicamento in un luogo, è andato distrutto e Ikea gli fornisce in cambio di pochi spiccioli la possibilità di arredare la sua solitudine, il suo tessuto sociale è stracciato e i media sociali gli fanno lampeggiare la spia della chat ogni volta che si sente perduto. In questo senso, Ikea e facebook sono il bypass cardiopolmonare che tiene in vita il cittadino globale nel deserto della sua esistenza, facendo battere il suo cuore e pompando aria nei suoi polmoni, dandogli l’impressione di essere situato, di avere una presenza, un corpo, un luogo, di fare parte di qualcosa.



Lo sradicamento, la mobilità fisica e mentale, la proiezione costante in un altrove, vissuto o immaginato, che sgretola l’attimo presente in un pulviscolo di esistenze chimeriche, è la forma del tempo attuale. Il nostro qui e ora. Il qui e ora del pianeta Terra. È lo sradicamento, infatti, il denominatore comune tra i sogni di libertà della borghesia ingorda del nord-ovest e l’esistenza raminga dei popoli del sud-est, che trascinano le loro radici recise in una migrazione senza posa. Una mostra-installazione organizzata nel 2008 dal documentarista Raymond Depardon e dall’urbanista e filosofo Paul Virilio presso la Fondation Cartier di Parigi è riuscita a cogliere con perspicuità questo fenomeno, restituendolo visivamente all’interno di uno spazio espositivo. Terre natale, Ailleurs commence ici: è questo il titolo, le due parti del quali sono riferite al contributo dei due curatori. Al pian terreno la “terra natale” di Depardon: due documentari su popoli radicati nel loro territorio, che ancora parlano lingue antiche e quasi estinte, e praticano i mestieri dei padri dei loro padri, le cui tradizioni sono minacciate dall’alzarsi della marea della globalizzazione. Nel seminterrato, invece, si scende con Virilio negli inferi dell’ “l’altrove che comincia qui”, sia esso l’ “alienazione digitale” dei sofisticati nord-occidentali, che non appartengono più a nessun luogo ma sono “chez eux” soltanto nello spazio virtuale dei loro circuiti telematici, della loro posta elettronica e dei loro profili online; o, ben più drammaticamente, l’erranza senza meta dei popoli-fantasma del sud-est del mondo, costretti a fuggire di miseria in miseria. In particolare, l’eterno altrove di queste donne e questi uomini senza nome e senza più storia, “altri” perfino a se stessi, è restituito da due videoinstallazioni di grande impatto, una delle quali mostra, in uno schermo circolare, i numeri dei flussi migratori, sconvolgenti sia per la loro entità (le proiezioni parlano di “un miliardo di migranti” per il 2040) che per la loro rapidità.



Dopo dodicimila anni la nostra (agri)cultura letterata, basata sulla stanzialità, l’inurbamento e la scrittura, sta completando il proprio ciclo, dando vita a nuove modalità di nomadismo, di memoria visiva e di oralità: non solo la sofisticata neo-oralità dei nord-occidentali telematici, ma anche l’inevitabile analfabetismo dei popoli erranti del sud-est. Cos’è dunque l’oltre della cultura? Cosa viene “dopo” il neolitico girando a ritroso la ruota della storia? Il pleistocene superiore, la lunga era in cui homo, attraverso una lentissima evoluzione, ha fissato il proprio corredo genetico e le proprie abilità cognitive. Da un punto di vista biologico-evolutivo, infatti, si può dire che la storia non è finita con Napoleone, con Auschwitz e con la Bomba, con la caduta del muro di Berlino, o con l’11 settembre, ma quando homo ha lascito l’erranza della sua vita nomadica di cacciatore-raccoglitore, nel corso della quale ha sviluppato tutte le sue capacità cognitive e motorie, per cominciare a condurre un’esistenza stanziale, sviluppando l’agricoltura, e da lì tutte le altre tecniche “urbane”, dall’architettura alla scrittura. Quello dell’inurbamento e dell’alfabetizzazione, però, non è un progresso lineare ascendente, senza battute d’arresto, ritorni e ricorsi storici. Ne è prova il nostro presente storico che, pur situandosi al culmine della civilizzazione e dell’inurbamento, sembra condurre fuori dal cerchio concettuale dell’ “(agri)culture” – stanzialità, inurbamento, letteratura – per aprire a nuove forme, più o meno coatte, di nomadismo, de-localizzazione e oralità. Per questo a partire dalla seconda metà del secolo scorso antropologi, primatologi, biologi e filosofi hanno comunicato a concepire il Paleolitico non più come un’era sepolta nella nostra preistoria, ma come una superficie di proiezione sorprendentemente fertile per pensare l’avvenire della nostra specie, sempre più protesa verso modalità di abitare lo spazio, il tempo e le relazioni che ha in sé qualcosa di avveniristico e di arcaico al contempo. Se, da una parte, infatti, la rivoluzione digitale, l’incremento vertiginoso dei trasporti, la nascita di nuove professionalità e il collasso delle tradizionali istituzioni politiche, sociali, religiose, educative e culturali, ha prodotto una mobilità lavorativa, geografica, cognitiva e relazionale senza precedenti nella storia documentata; dall’altra, queste nuovissime modalità di esistenza, rompendo il vincolo con la terra instauratosi all’inizio dell’era neolitica, riportano l’eco di un’umanità arcaica, errante, che percorreva le vastità del pianeta sostentandosi con la caccia e la raccolta. Una svolta critica, quella “verso il paleolitico”, che il pensatore libertario Peter Lamborn Wilson, al secolo Hakim Bey (quello delle “zone temporaneamente autonome”, per intenderci), ha condensato in una formula: “la fine del Moderno non significa un ritorno al Paleolitico, ma un ritorno del Paleolitico”. 



Hakim Bey non è l’unico intellettuale ad aver concettualizzato una simile svolta, le cui tracce si possono ritrovare nei luoghi più insospettati della cultura del secolo scorso. Uno di questi è l’opera di Aby Warburg, storico dell’arte e padre dell’iconologia moderna, il quale tenne nel 1923 una conferenza sulla popolazione semistanziale degli indiani Hopi, che aveva avuto modo di conoscere in un viaggio giovanile. All’epoca Warburg era ricoverato da anni in una clinica psichiatrica, affetto da un forte disturbo bipolare, e pronunciò la conferenza di fronte al personale e ai pazienti della clinica per dare prova di aver riacquistato le sue facoltà mentali. In quella circostanza, anziché tentare di dimostrare di essersi reintegrato nelle forme dell’agri-cultura a cui apparteneva, egli si identificò con gli schemi cognitivi degli indiani, mostrando come il “bipolarismo”, considerato sintomo patologico dalla scienza psichiatrica, costituisse invece la forma universale con cui gli uomini, “in ogni epoca e in ogni cultura”, si relazionano con l’universo circostante mediante immagini e simboli. Come ha osservato l’antropologo Carlo Severi, “lo studio delle immagini condusse Warburg all’esplorazione di fenomeni psichici di ordine generale, legati all’esercizio di un pensiero visivo nell’uomo, e non soltanto all’interpretazione dell’arte europea”; un pensiero visivo che si orienta nel cosmo mediante la costituzione di schemi simbolici basati sull’identificazione di coppie polari (commestibile | velenoso, utile | dannoso, buono | cattivo, amico | nemico, etc.).



Come è noto, sul finire degli anni ’60 il maestro di Severi, Lévi-Strauss, definì “pensiero selvaggio” questa modalità cognitiva legata alla sensibilità e all’istinto, che opera per via sinottica e analogica piuttosto che per via logico-sequenziale: un sapere capace di stabilire nessi e inferenze istantanee, di ricostruire per via congetturale eventi passati, di fare previsioni basate sull’esperienza, di interpretare sintomi e indizi, e di recuperare la memoria culturale attraverso l’oralità, stabilendo rapporti di somiglianza tra serie distinte (come avviene, nel totemismo studiato Lévi-Strauss, tra specie animali e clan umani). Alla luce della breve ricostruzione (proto)storica, possiamo proporre un’altra denominazione di questa forma mentis avveniristica e arcaica, riprendendo quello che Carlo Ginzburg negli anni ’80 ha chiamato il “paradigma venatorio” dei cacciatori-raccoglitori del pleistocene superiore: hunture, in alternativa al pensiero logico-discorsivo della (agri)culture e alla sua dialettica assimilante. È la “hunture” semiologica e non la “culture” ontologica, infatti, il “paradigma del pleistocene”, grazie al quale i nostri progenitori sono riusciti a sopravvivere di caccia e raccolta per millenni di erranza nell’era glaciale, decifrando tracce e tramandandosi storie. Una forma di pensiero che appartiene tanto alla nostra preistoria quanto al nostro avvenire, così come il paleolitico sembra profilarsi – almeno in senso metaforico – come il tempo verso cui è avviata la tarda modernità: cos’è infatti, lo stadio successivo, dopo la modernità liquida, se non la postmodernità gassosa, sradicata da qualsivoglia territorio, smaterializzata, nomade?  



Situata contemporaneamente al di qua e al di là della “agri-culture” neolitica, la hunture del pleistocene si presenta come un pensiero del “come”, non una scienza del “che cosa”, un sapere che non può essere scisso dal sentire e dall’individuo che sente, dalla sua capacità di orientarsi nello spazio, di leggere i segni, di interpretare le tracce, di prendere decisioni in prima persona; un sapere che è sempre un sapere “di qualcuno”, come la maestria del macellaio dell’apologo taoista, che non consuma il suo coltello perché taglia nel vuoto tra fibra e fibra, tra ossa e legamenti. Un sapere vuoto, dunque, “sapere di non sapere”, sapere del vuoto, conoscenza della “via” di cui non si può parlare né scrivere, ma che si può soltanto mostrare con un gesto e tramandare singolarmente, da individuo a individuo. 



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