La mistica del disincanto
La mistica del disincanto
di Francesco Gori
La mistica del disincanto,
ecco come chiamerei l’ultimo grande rituale messo in scena dalla civiltà a cui
appartengo. In essa, sono state messe a punto liturgie molto complesse per
consumare il rito tribale del conferimento, dell’esercizio e della destituzione
del potere, la cui struttura profonda – quella cioè della cerimonia, dell’invocazione
alle potenze oscure della terra, del patto arcano col grande mistero del cosmo
– è necessariamente coperta. Anzi, è proprio nell’occultamento di essa che
consiste la sua vera mistica. La mistica della secolarizzazione. Il mondo non
va “reincantato”: il mondo è sempre stato e sempre sarà un incanto, o, se
vogliamo, un incantesimo, un sortilegio, un abracadabra, e forse un inganno, ma
sempre un dialogo temerario con le forze arcane della natura e del destino.
Nella modernità, ogni presente storico tende a vedersi con occhio disincantato,
dal momento che la sua prossimità a se stesso non gli permette di riconoscere,
la natura rituale delle proprie pratiche e cerimonie sociali, il loro carattere
essenzialmente “sciamanico”.
Ma poi è venuta l’epoca della consapevolezza e del
Disincanto, quello con la maiuscola, con un nome ed un cognome (Max Weber) e
una storia ben precisa: la maturazione di quel processo millenario che si
chiama Cristianesimo. Per “maturazione” intendo il pieno svolgimento delle sue premesse,
fino, per certi versi, all’autosuperamento. Di esso, e di tutta la filosofia,
la politica, e la scienza sociale. Ma questa immensa narrazione, per grandiosa
che sia, non ha spostato di un millimetro la natura profonda del potere (non
solo politico, ovviamente, ma anche conoscitivo, economico etc.), che è
essenzialmente un patto con le forze arcane del cosmo, così come le città, nate
per difendere l’uomo dalla solitudine, dal freddo, dalle bestie feroci, dalla
paura, dallo Wild, non sono che una pellicola sottile posata sulla natura
selvaggia e misteriosa.
Quella
natura fatta di un tempo non umano: il tempo dell’incuria, dell’abbandono: un
edificio abbandonato verrà presto divorato da forze incomprensibili –
costitutivamente incomprensibili: ci atterriscono anche quando diamo loro una
spiegazione scientifica – l’acqua ed il vento lo sfregeranno, erba, fiori,
arbusti cresceranno in ogni sua crepa, e scaveranno altre crepe, le radici
degli alberi ne scalzeranno le fondamenta. E tutto questo può avvenire anche
nel centro di Parigi, perché la terra si può coprire col cemento, ma il vento e
la pioggia non si possono fermare, e l’universo di cui essi sono portatori. Le
città si mantengono su un equilibrio fragilissimo, strappate alla natura per un
istante, possono sempre ripiombare in essa, e gli uomini lo sanno, nel profondo
lo sanno, ed elaborano riti, riti grandi e meravigliosi, con cui sentirsi degni
degli dei, degni di affrontare il Mistero e di costruire le metropoli, i propri
nidi di carta. Il cerimoniale urbano consiste in un’accurata liturgia di
negazione della natura, del giorno e della notte, del freddo e del caldo, del
vento, dell’incontrollabile. E il potere è quel grande organismo tutto umano
che ci rinsalda nel nostro sogno collettivo: il sogno che nel centro di Parigi
non si è soli in una landa battuta da vento.
Ogni tanto, con un po’ di concentrazione, mi capita di
chiudere gli occhi, magari a Bastille, o sugli Champs Élysées, e mi immagino
come sarebbe quello stesso luogo se non ci fosse quella mano di vernice messa
lì dall’uomo. La pietra dei suoi palazzi, la pellicola d’asfalto su cui
frullano quei gusci di segreta intimità su cui si sposta, le insegne luminose,
le persone, tutte quelle persone così disinvolte, alla moda, sicure, rassicurate
dal grande patto sciamanico con le forze del cosmo che dona loro un altro
istante di piacere. Ogni tanto un terremoto, un incendio, uno tzunami, tanto
per ricordarsi della verità. E poi, di nuovo, la dimenticanza.
Le tribù studiate dagli etnologi non differiscono in nulla,
nella loro struttura rituale profonda, dalle più sofisticate società
capitalistiche. E’ per questo che l’antropologia dovrebbe studiare entrambe
indifferentemente, o meglio, elaborare categorie comuni per analizzarle. Ma c’è
un paradosso: l’antropologia in quanto tale, non è a sua volta che un elemento
della ritualità tipicamente occidentale – la “mistica del disincanto”, come
l’ho chiamata – questo implica che non potrà mai, in linea di principio, darsi
un obbiettivo di oggettività, imparzialità, aprospetticità etc. Del resto, nessuna
scienza umana, per sua stessa costituzione, può realizzare un simile ideale.
L’idea
è abbastanza semplice, anche se difficilmente dimostrabile: pensare il potere,
la politica, la conoscenza, l’arte e l’economia, insomma tutto il complesso della
civiltà, come un insieme di pratiche rituali, evoluzione diretta, anche se
molto stratificata e per questo oggi quasi irriconoscibile, delle pratiche
sciamaniche di dialogo con le forze arcane dell’universo. Che la fisica
quantistica o un quadro di Picasso siano dialoghi con le forze oscure del cosmo
pochi lo metteranno in discussione, più difficile riconoscere che ed in che
modo lo siano anche le città, la Casa Bianca, i distributori di Coca Cola, le
fabbriche, le scarpe alla moda, i romanzi d’appendice, i concerti rock, la
televisione, la psicanalisi, la teoria dei giochi, l’indice NASDAQ, Topolino, e
tutto, tutto quell’incasinatissimo groviglio di fili, intrecci e tendenze che
forma il tessuto della nostra civiltà. Sciamanesimo: di questo si tratta.
Il
cosiddetto “disincanto” non è che una liturgia come le altre, una mistica
sviluppatasi all’interno di determinati gruppi umani, i quali l’hanno ritenuto
uno strumento efficace per relazionarsi (collettivamente, beninteso, quando si
parla di liturgie e riti, ci riferiamo sempre e necessariamente a riti
collettivi) al Grande Mistero. I gruppi umani in questione si sono espansi,
data la loro caratteristica tendenza al dominio ed alla conquista, fino a
costituirsi come una meta-civiltà che passa oggigiorno sotto il brumoso titolo
di “occidente”. Personalmente, amo molto questa parola che non vuole dire
praticamente nulla. Anzitutto, proprio per la sua (in)significanza: tutti gli (in)significanti
di cui ci serviamo abitualmente per comunicare aprono brecce nel linguaggio,
permettono di piegarlo e di farlo riflettere su se stesso. In secondo luogo per
quella vaga presenza di un significato, non certo storico o concretamente
registrabile (il denotatum
praticamente non si dà, se non come entità sufficientemente vasta da essere
pressoché impalpabile), quanto piuttosto etimologico: l’occasum latino da cui deriva, schiude appassionanti orizzonti
ermeneutici sulla sua intrinseca decadenza, sulla sua tragicità, sulla sua
violenza, sulla sua vocazione alla morte, all’annientamento, al Nulla.
* * *
Lo sciamanesimo è la forma di spiritualità più antica di cui si
abbia conoscenza. I metodi sciamanici sono così primari da essere simili in
ogni parte del mondo, in popolazioni mai venute in contatto tra loro, come gli
indios del rio delle Amazzoni, gli aborigeni australiani o le popolazioni
nomadi siberiane, da cui deriva il termine. “Sciamano” significa stregone o viaggiatore. Nella lingua Pali
viene indicato con questo termine colui che è in grado di guarire il corpo e lo
spirito per mezzo dei suoi poteri di comunicazione con le forze della Natura e
dei disincarnati. La pratica sciamanica
non ha né leggi né templi: poggia le sue fondamenta solo sull'incontro diretto con gli Spiriti,
intrecciando inestricabilmente mistica e magia, un incontro che avviene
necessariamente con l’attraversamento in prima persona del dolore e della
malattia, fino alla perdita di sé. Per gli sciamani malattia e sofferenza sono
solo sentieri nella foresta,
dove ci accade di smarrirci ma da cui è anche possibile tornare indietro e il
compito degli sciamani è quello dei cercatori di anime smarrite. In questo senso,
lo sciamanesimo si presenta come la pratica fondamentale, l’assoluto, che
permette una collocazione, un ruolo, dell’uomo nella grande catena degli
esseri, nel cosmo, nel mistero.
Il
Presidente degli Stati Uniti è lo sciamano di quella tribù, il mediatore con le
forze del cosmo. Il fatto che si presenta in maniera apparentemente così
lontana e “disincantata” rispetto ai rituali magici dello sciamano arcaico, non
deve ingannare circa la struttura analoga del loro ruolo rispetto alla
comunità. Prima di ogni modernità, infatti, prima della creazione di qualsiasi mezzo di sostentamento, produzione,
trasporto e comunicazione, viene il medium,
incarnato dalla figura dello sciamano, colui che porta su di sé, e garantisce,
la mediazione tra la comunità umana e l’universo degli spiriti, tra i vivi e i
morti, tra gli uomini e il territorio in cui vivono.
Nel
mediaevo in cui oggi viviamo, il
transito tra cielo e terra, tra umano e non-umano, tra vita e morte non è più
garantito da un singolo medium, ma da
un complesso apparato di media a cui
deleghiamo il patto sciamanico con le forze del cosmo. Un patto che si rinnova
– lo si ricordi o meno – ogni volta che facciamo una telefonata, o saliamo
sull’autobus.
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