La mistica del disincanto





La mistica del disincanto
di Francesco Gori

Era il 2008, avevo 24 anni e non avevo mai letto una riga sullo sciamanismo. All’epoca mi trovavo a Parigi, dove passavo le giornate a zonzo per la città in cerca di ispirazione per scrivere la mia tesi di laurea. A un certo punto mi uscì questo pezzo, non so da dove arrivasse, e dove volesse andare, ma mi attraversò da parte a parte e si conficcò nella carta come una freccia, dove è rimasto a lungo dimenticato. Mi è tornato alla mente solo diversi anni dopo, passeggiando per i colli bolognesi innevati assieme a Matteo, e ascoltando le sue visioni giovanili di una Parigi pleistocenica, glaciale, primordiale. Anch’io avevo visto qualcosa del genere…




La mistica del disincanto, ecco come chiamerei l’ultimo grande rituale messo in scena dalla civiltà a cui appartengo. In essa, sono state messe a punto liturgie molto complesse per consumare il rito tribale del conferimento, dell’esercizio e della destituzione del potere, la cui struttura profonda – quella cioè della cerimonia, dell’invocazione alle potenze oscure della terra, del patto arcano col grande mistero del cosmo – è necessariamente coperta. Anzi, è proprio nell’occultamento di essa che consiste la sua vera mistica. La mistica della secolarizzazione. Il mondo non va “reincantato”: il mondo è sempre stato e sempre sarà un incanto, o, se vogliamo, un incantesimo, un sortilegio, un abracadabra, e forse un inganno, ma sempre un dialogo temerario con le forze arcane della natura e del destino. Nella modernità, ogni presente storico tende a vedersi con occhio disincantato, dal momento che la sua prossimità a se stesso non gli permette di riconoscere, la natura rituale delle proprie pratiche e cerimonie sociali, il loro carattere essenzialmente “sciamanico”.

Ma poi è venuta l’epoca della consapevolezza e del Disincanto, quello con la maiuscola, con un nome ed un cognome (Max Weber) e una storia ben precisa: la maturazione di quel processo millenario che si chiama Cristianesimo. Per “maturazione” intendo il pieno svolgimento delle sue premesse, fino, per certi versi, all’autosuperamento. Di esso, e di tutta la filosofia, la politica, e la scienza sociale. Ma questa immensa narrazione, per grandiosa che sia, non ha spostato di un millimetro la natura profonda del potere (non solo politico, ovviamente, ma anche conoscitivo, economico etc.), che è essenzialmente un patto con le forze arcane del cosmo, così come le città, nate per difendere l’uomo dalla solitudine, dal freddo, dalle bestie feroci, dalla paura, dallo Wild, non sono che una pellicola sottile posata sulla natura selvaggia e misteriosa.

Quella natura fatta di un tempo non umano: il tempo dell’incuria, dell’abbandono: un edificio abbandonato verrà presto divorato da forze incomprensibili – costitutivamente incomprensibili: ci atterriscono anche quando diamo loro una spiegazione scientifica – l’acqua ed il vento lo sfregeranno, erba, fiori, arbusti cresceranno in ogni sua crepa, e scaveranno altre crepe, le radici degli alberi ne scalzeranno le fondamenta. E tutto questo può avvenire anche nel centro di Parigi, perché la terra si può coprire col cemento, ma il vento e la pioggia non si possono fermare, e l’universo di cui essi sono portatori. Le città si mantengono su un equilibrio fragilissimo, strappate alla natura per un istante, possono sempre ripiombare in essa, e gli uomini lo sanno, nel profondo lo sanno, ed elaborano riti, riti grandi e meravigliosi, con cui sentirsi degni degli dei, degni di affrontare il Mistero e di costruire le metropoli, i propri nidi di carta. Il cerimoniale urbano consiste in un’accurata liturgia di negazione della natura, del giorno e della notte, del freddo e del caldo, del vento, dell’incontrollabile. E il potere è quel grande organismo tutto umano che ci rinsalda nel nostro sogno collettivo: il sogno che nel centro di Parigi non si è soli in una landa battuta da vento.

Ogni tanto, con un po’ di concentrazione, mi capita di chiudere gli occhi, magari a Bastille, o sugli Champs Élysées, e mi immagino come sarebbe quello stesso luogo se non ci fosse quella mano di vernice messa lì dall’uomo. La pietra dei suoi palazzi, la pellicola d’asfalto su cui frullano quei gusci di segreta intimità su cui si sposta, le insegne luminose, le persone, tutte quelle persone così disinvolte, alla moda, sicure, rassicurate dal grande patto sciamanico con le forze del cosmo che dona loro un altro istante di piacere. Ogni tanto un terremoto, un incendio, uno tzunami, tanto per ricordarsi della verità. E poi, di nuovo, la dimenticanza.

Le tribù studiate dagli etnologi non differiscono in nulla, nella loro struttura rituale profonda, dalle più sofisticate società capitalistiche. E’ per questo che l’antropologia dovrebbe studiare entrambe indifferentemente, o meglio, elaborare categorie comuni per analizzarle. Ma c’è un paradosso: l’antropologia in quanto tale, non è a sua volta che un elemento della ritualità tipicamente occidentale – la “mistica del disincanto”, come l’ho chiamata – questo implica che non potrà mai, in linea di principio, darsi un obbiettivo di oggettività, imparzialità, aprospetticità etc. Del resto, nessuna scienza umana, per sua stessa costituzione, può realizzare un simile ideale.

L’idea è abbastanza semplice, anche se difficilmente dimostrabile: pensare il potere, la politica, la conoscenza, l’arte e l’economia, insomma tutto il complesso della civiltà, come un insieme di pratiche rituali, evoluzione diretta, anche se molto stratificata e per questo oggi quasi irriconoscibile, delle pratiche sciamaniche di dialogo con le forze arcane dell’universo. Che la fisica quantistica o un quadro di Picasso siano dialoghi con le forze oscure del cosmo pochi lo metteranno in discussione, più difficile riconoscere che ed in che modo lo siano anche le città, la Casa Bianca, i distributori di Coca Cola, le fabbriche, le scarpe alla moda, i romanzi d’appendice, i concerti rock, la televisione, la psicanalisi, la teoria dei giochi, l’indice NASDAQ, Topolino, e tutto, tutto quell’incasinatissimo groviglio di fili, intrecci e tendenze che forma il tessuto della nostra civiltà. Sciamanesimo: di questo si tratta.

Il cosiddetto “disincanto” non è che una liturgia come le altre, una mistica sviluppatasi all’interno di determinati gruppi umani, i quali l’hanno ritenuto uno strumento efficace per relazionarsi (collettivamente, beninteso, quando si parla di liturgie e riti, ci riferiamo sempre e necessariamente a riti collettivi) al Grande Mistero. I gruppi umani in questione si sono espansi, data la loro caratteristica tendenza al dominio ed alla conquista, fino a costituirsi come una meta-civiltà che passa oggigiorno sotto il brumoso titolo di “occidente”. Personalmente, amo molto questa parola che non vuole dire praticamente nulla. Anzitutto, proprio per la sua (in)significanza: tutti gli (in)significanti di cui ci serviamo abitualmente per comunicare aprono brecce nel linguaggio, permettono di piegarlo e di farlo riflettere su se stesso. In secondo luogo per quella vaga presenza di un significato, non certo storico o concretamente registrabile (il denotatum praticamente non si dà, se non come entità sufficientemente vasta da essere pressoché impalpabile), quanto piuttosto etimologico: l’occasum latino da cui deriva, schiude appassionanti orizzonti ermeneutici sulla sua intrinseca decadenza, sulla sua tragicità, sulla sua violenza, sulla sua vocazione alla morte, all’annientamento, al Nulla.

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Lo sciamanesimo è la forma di spiritualità più antica di cui si abbia conoscenza. I metodi sciamanici sono così primari da essere simili in ogni parte del mondo, in popolazioni mai venute in contatto tra loro, come gli indios del rio delle Amazzoni, gli aborigeni australiani o le popolazioni nomadi siberiane, da cui deriva il termine. “Sciamano” significa stregone o viaggiatore. Nella lingua Pali viene indicato con questo termine colui che è in grado di guarire il corpo e lo spirito per mezzo dei suoi poteri di comunicazione con le forze della Natura e dei disincarnati. La pratica sciamanica non ha né leggi né templi: poggia le sue fondamenta solo sull'incontro diretto con gli Spiriti, intrecciando inestricabilmente mistica e magia, un incontro che avviene necessariamente con l’attraversamento in prima persona del dolore e della malattia, fino alla perdita di sé. Per gli sciamani malattia e sofferenza sono solo sentieri nella foresta, dove ci accade di smarrirci ma da cui è anche possibile tornare indietro e il compito degli sciamani è quello dei cercatori di anime smarrite. In questo senso, lo sciamanesimo si presenta come la pratica fondamentale, l’assoluto, che permette una collocazione, un ruolo, dell’uomo nella grande catena degli esseri, nel cosmo, nel mistero.

Il Presidente degli Stati Uniti è lo sciamano di quella tribù, il mediatore con le forze del cosmo. Il fatto che si presenta in maniera apparentemente così lontana e “disincantata” rispetto ai rituali magici dello sciamano arcaico, non deve ingannare circa la struttura analoga del loro ruolo rispetto alla comunità. Prima di ogni modernità, infatti, prima della creazione di qualsiasi mezzo di sostentamento, produzione, trasporto e comunicazione, viene il medium, incarnato dalla figura dello sciamano, colui che porta su di sé, e garantisce, la mediazione tra la comunità umana e l’universo degli spiriti, tra i vivi e i morti, tra gli uomini e il territorio in cui vivono.      

Nel mediaevo in cui oggi viviamo, il transito tra cielo e terra, tra umano e non-umano, tra vita e morte non è più garantito da un singolo medium, ma da un complesso apparato di media a cui deleghiamo il patto sciamanico con le forze del cosmo. Un patto che si rinnova – lo si ricordi o meno – ogni volta che facciamo una telefonata, o saliamo sull’autobus.


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