Before they get pissed off
Before they get pissed off
(sulla pornoetnografia)
di Matteo Meschiari
Criticare Before They Pass Away di Jimmy Nelson (che si definisce “Photographer of Indigenous People”) è come battere a scacchi una scimmia, a patto che la scimmia non ti rompa la scacchiera in testa.
Jimmy
Nelson le ha tutte, si è formato in una scuola di Gesuiti (leggi Mission), ha lavorato come fotografo
pubblicitario per brand di livello mondiale, ha scattato migliaia di fotografie
glamour a “selvaggi” di tutto il globo, espone usa commercializza la loro
immagine a cifre che nel terzo mondo (ma forse anche nel nostro) appaiono
fantascientifiche: il libro XXL Edition costa 6500 euro, una stampa in tiratura
limitata va da 3750 euro a 120.000 euro (http://www.beforethey.com/).
Ma ripeto, è troppo facile criticare Nelson, e c’è chi lo ha già fatto molto
bene, come Stephen Corry di Survival
International (http://www.truth-out.org/opinion/item/23986-turning-a-blind-eye-to-pure-old-vibrations#).
(sulla pornoetnografia)
di Matteo Meschiari
Criticare Before They Pass Away di Jimmy Nelson (che si definisce “Photographer of Indigenous People”) è come battere a scacchi una scimmia, a patto che la scimmia non ti rompa la scacchiera in testa.
Corry condensa la sua
analisi in una formula geniale, “the Curtis device”, il “dispositivo” di Edward S.
Curtis, il fotografo che nel 1906 fu pagato 75.000 dollari per fare un monumentale
shooting sugli Indiani americani.
Scattò circa 40.000 fotografie a un’ottantina di tribù e il lavoro che ne
trasse, The North American Indian, è
una pietra miliare della fotografia etnografica. Senonché le immagini che costruisce
e pubblica sono dei morceaux choisis,
dei frammenti visuali depurati da ogni metissaggio culturale, delle
ricostruzioni ampiamente ideali del nativo americano vissuto almeno vent’anni
prima. Lo stesso sguardo coloniale, estetizzante e fuori contesto, dice Corry,
è alla base degli scatti patinati di Nelson, che etnograficamente parlando
“sbaglia da quasi ogni punto di vista”.
La stessa critica arriva anche
da varie comunità indigene, che dicono “false e pericolose” le immagini di
Nelson. Ma tanto Corry quanto i nativi mancano purtroppo nel segno. È
certamente vero che Before They Pass Away
è un catalogo di prodotti etnici di consumo fotografati con luce, composizione
e finalità estetiche identiche a quelle del food
porn. È vero che l’esotismo evoluzionista e vittoriano di Nelson riporta
indietro di due secoli i discorsi antropologici (e non) sull’Altro e
sull’identità etnica. È anche vero che il danno di un’operazione simile è
reale, perché smercia una percezione falsa, nostalgica e buonista del Buon
Selvaggio, un po’ come l’inaugurazione paternalista e monarchica del Musée du quai Branly nel 2006. Ma alle
critiche sfugge l’essenziale: Before They
Pass Away crea un nuovo tipo di antispazio visuale necessario per rinsaldare la polis.
Un antispazio è
l’antimateria che consente di pensare la materia in termini assoluti, è un
meccanismo dialettico di assolutizzazione del relativo: non riusciamo più a
pensarci come Uomini? Dobbiamo creare un Anti-uomo o un Post-uomo che ci aiuti
a farlo. Il Barbaro, il Nemico, il Golem, il Ragazzo Selvaggio, il Serial
killer, la Bestia, lo Zombie, il Vampiro, il Neanderthal e, grazie a Nelson, il
Masai, il Maori, il Samburu. Allontanare l’altro rendendolo ancora più altro è
un’operazione rassicurante, perché l’effetto-specchio che innesca, distorcente
e al tempo stesso assimilante, ci dà il vantaggio del punto di vista, l’al-di-qua
della macchina che conferisce l’enorme potere dell’osservante sull’osservato. Lo
stesso potere dello sguardo che riduce a bambole teleguidate gli attori di un
video porno sbirciato su uno smartphone.
Di fronte a questa
(anti)macchina antropologica, lo sforzo di Nelson di infiorettare letteralmente
i selvaggi di Vanuatu o di armare di kalashnikov i “negri” etiopi, o anche il
fatto che le loro facce vengano appese sul divano di Gordon Gekko in un
superattico a Manhattan, sono ben poca cosa. Queste immagini le si può avere
con 120 euro nella Trade Edition del catalogo o più semplicemente gratis in
internet. E se già le pagine glossy degli
ultimi vent’anni di National Geographic
ci avevano preparato a questa virata estetica/estatica, Jimmy Nelson, come Leni
Riefenstahl con i Nuba, ha fissato in modo brutale gli ingredienti di una nuova
ricetta iconica del Buon Selvaggio. Non più il “quasi-noi” da ammirare
nostalgici, da educare alla civiltà, da integrare socialmente, ma l’animale in
via di estinzione da chiudere in giardini di lusso. E magari da collezionare.
La condiscendenza di
Nelson verso i Chukchi o i Karo assomiglia molto alla passione etica di un
vegano per la tigre siberiana: è carnivora, purtroppo, ma è tanto bella,
certamente più bella del Milanese medio che mangia bistecca al bistrot. Ve la
mettereste in casa la foto di un Milanese medio, carnivoro per giunta? L’animalismo
etnico di Nelson, quindi, non può essere ridotto alla solita “americanata”, al capitalismo
zombie o ai guasti visuali del commercial
advertising. Non può essere nemmeno avvicinato al razzismo implicito di
ogni esotismo. La sua è a tutti gli effetti una pedagogia, quella che addita la
foresta per spacciare il campo coltivato, che plaude al nomade per mandare alle
urne il sedentario.
Detta in breve, Nelson
produce fiction di supporto allo storytelling di sistema. I suoi
personaggi sono animali di Esopo e la morale della fiaba è quella di sempre,
stabilire i confini tra bene e male, tra bello e deforme, tra proprio e
improprio. Resta ancora da individuare il movente. Eccolo: la polis non esiste senza stasis, e l’Ultimo Selvaggio è l’ultima
carta da giocare, quella dell’esogamia, le nozze con lo straniero, per inoculare un po’ di
violenza intestina in un sistema ormai esangue di parentele ontologiche.
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