La fine dell’età della pietra
di Francesco Gori


L’età della pietra è il neolitico, non il pleistocene.

Quello che viene definita l’età della pietra era in realtà l’età del legno, del giunco, della canna, della paglia e della terra. Fu con la rivoluzione neolitica, al tempo dei sumeri e dei babilonesi, che si cominciò a costruire con la pietra, a fare arte di pietra, ornamenti di pietra, città di pietra. 

Con la fine della cosiddetta età della pietra è cominciata la vera età della pietra, che si è protratta fino ai nostri giorni, fino all’età del cemento della generazione precedente. La generazione dei babyboomers del petrolio, del soldo facile e della cementificazione selvaggia, che in Italia ha potato a edificare in un paio di decenni tanto quanto si era costruito nei precedenti dodicimila anni. Anche la generazione attuale ha prodotto un’analoga sproporzione, ma non sul piano edilizio-urbanistico, bensì su quello della comunicazione: dal 2006 a oggi l’umanità ha prodotto una quantità di informazioni superiore alla totalità di quelle che aveva prodotto nel corso dell’intera storia precedente. Sono solo due segni di come l’eccedenza alla base della civiltà (il surplus agrario) si sia trasformato in eccesso, un eccesso che minaccia le fondamenta stesse dell’eccedenza e quindi della civiltà.

L’età della pietra (il neolitico), dopo aver raggiunto il suo picco con la generazione precedente (l’età del cemento) ha cominciato a invertire il suo ciclo storico: chi, oggi, costruisce più in pietra? Chi si prende il tempo di intagliarla, di scolpirla, per farne ornamenti, oggetti quotidiani, opere d’arte? La mente dell’uomo contemporaneo non è rivolta al pensiero di eternarsi nella pietra, a lasciare tracce indelebili, a scagliare frecce nel futuro, da tramandare ai posteri finché l’uomo sarà su questa Terra. L’uomo moderno non parte dall’assunto, come hanno fatto pressoché tutte le civiltà precedenti, che il mondo (e cioè l’umanità), sarebbe durato per un tempo indefinito. Per questo venivano realizzate opere “eterne”, “imperiture”, perché la storia non avrebbe avuto fine, e la memoria avrebbe dovuto sopravvivere all’ingiuria del tempo, inscritta nella pietra.

L’uomo pre-contemporaneo, cementificando il mondo, non lo ha fatto per lasciare tracce indelebili di sé, ma con lo scopo di predarlo finché dura, costruendo strutture che, a dispetto della loro invasività, erano destinate a sbriciolarsi in pochi decenni. I nostri nonni e i nostri genitori, la generazione più opulenta della storia dell’umanità, il picco della civiltà neolitica (dell’età della pietra), sono anche quelli che hanno invertito la rotta, esprimendosi architettonicamente nella costruzione di quelle che, di fatto, sono rovine. L’uomo dell’età del cemento è un costruttore di rovine, opere che già nella loro edificazione portano inscritto il loro disfacimento.

Per questo con la cementificazione si è prodotto anche l’immaginario postapocalittico, la distruzione di New York, la giungla che si riappropria di Manhattan (non si sa bene come, dal momento che prima di New York là non c’era affatto la giungla), Godzilla, gli alieni, tifoni, terremoti, tsunami, etc. Costruire con cemento, con vetro e acciaio, significa cominciare ad accettare che le proprie opere non sono eterne. Un grattacielo non è che un riparo di fortuna alto cinquecento metri. Oggi c’è domani non c’è. Il progettista di un grattacielo sta lanciando un messaggio ai suoi contemporanei (di potere, di arditezza, di visionarietà, etc.), ma non sta dicendo nulla ai posteri. Per lui non c’è posterità. È consapevole che chi verrà dopo di lui – ammesso e non concesso che qualcuno verrà dopo di lui – rimpiazzerà la sua opera, sa che essa invecchierà inesorabilmente, senza mai diventare antica, d’epoca, monumentale, museale, e quindi degna d’essere preservata e tramandata alle generazioni future (salvo rare eccezioni, come l’Empire State Building). I grattacieli non sono che scenografie temporanee, set cinematografici, sono pensati per avere un forte impatto sul presente, ma non per affrontare il transito dei millenni.

L’uomo postmoderno – e cioè noialtri – pensa sempre meno in termini urbanistici, architettonici e sempre più in termini di connessioni simboliche e comunicative. “Essere connessi” implica sempre meno il contatto fisico, l’essere a portata di mano, e sempre più la possibilità di scambiare informazioni. Il luogo dove si vive è sempre più svincolato dall’attività che svolgiamo. E viceversa. Se la metropoli ha prodotto lo sradicamento dalle campagne, la civitas globale in rete, New Babylon, finirà col produrre lo sradicamento dalle metropoli che, col tempo, cesseranno di esercitare il loro richiamo, perdendo la bilancia tra i benefici che offrono e i costi che richiedono. Come osservò l’amico Ignazio Mortellaro, “l’ultimo isolotto in mezzo al mediterraneo può essere oggi il luogo dove si pensa il futuro”. Eppure, questo non è il nostro presente immediato: le grandi città sono oggi più attraenti che mai, esercitando un fascino di massa, democratizzato, liberalizzato: con pochi spiccioli tutti possono giocare a fare il poeta maledetto a Parigi o lo squatter a Berlino, e tornare indietro ogni volta che vogliono. E’ facile, veloce, relativamente indolore: si può andare, annusare, e tornare indietro quando ci pare, oppure andare a sentire che aria tira da qualche altra parte. Ma non sappiamo quanto durerà, dipende dalla potenza di generazione di mondi che avrà la Rete. Il fascino maggiore che esercitano oggi le grandi città sono i loro aeroporti e snodi ferroviari: non si va nelle metropoli perché è bello viverci, ma perché è facile andare e venirne. Non sono buone case (anzi, sono pessime case, cere, strette, spesso fatiscenti), ma ottime basi. Le biografie degli abitanti illustri delle metropoli (artisti, scrittori, etc.) non dicono mai che “vivono” a Londra, Parigi, Berlino, ma che è “based in”.

Tocchiamo qui un punto cruciale, che farà la fortuna delle metropoli per molto tempo ancora. Anzi, che forse ne accrescerà ulteriormente il richiamo. Sempre più le metropoli diventeranno enormi alberghi, città in affitto, città in movimento, città d’aria, Air b’n b, dove ci stabiliamo per tempo che serve, sempre pronti a metterci in moto lungo gli snodi del nostro lavoro, del nostro desiderio, dei nostri sentimenti, del nostro capriccio, o per rimetterci sulla strada verso altre basi più convenienti. Chi è attratto dalla metropoli, oggi, non ci va per fissarvi la propria dimora, ma per intercettare dei flussi, entrando in contatto con persone, prendendo parte a eventi. Lo “scoglio in mezzo al mediterraneo”, di contro, per quanto vi si possa pensare il futuro e comunicarlo al mondo sui circuiti della rete telematica, è una pessima base. Pessima base e ottima casa, economica, accogliente, tranquilla. Sta a noi decidere il peso che hanno per noi le radici e fare le nostre valutazioni di conseguenza. Per ora, lo scoglio non tutti possono permetterselo.


Der Grabstein:

Il nostro tempo non si pensa in termini di stanzialità, ma di viaggio. La nostra mente non pensa con la pietra, ma con il legno.. Il neobabilonese, che attraversa i circuiti telematici e viari di New Babylon, pensa a ripari temporanei, non si preoccupa di lasciare tracce imperiture, per questo oggi i materiali primari (il giunco, il bambù, la canna palustre, la terra cruda) hanno ritrovato misteriosamente l’ora della loro leggibilità.

Gli uomini contemporanei – inconsciamente consapevoli di essere un ammasso senza forma della sovrapproduzione agricola – non incidono più la pietra, e anche quando muoiono spariscono come insetti senza lapidi. Un’umanità di oltre 7 miliardi di individui non può più permettersi lapidi e nemmeno cimiteri. Non c’è più posto per le città dei morti, non c’è nemmeno quasi più posto per le città dei vivi. I nostri corpi svaniranno senza lasciare segno: nulla si tramanderà nelle cose. Se qualcosa si tramanderà sarà nei canti, nelle storie, nelle leggende.


Nessun commento:

Posta un commento