Paleolithic Turn






























Paleolithic Turn
Pleistocity Press, 2015, euro (baratto), ISBN non pervenuto.



dalla Premessa

Da quando il genoma di Homo sapiens neanderthalensis è stato interamente sequenziato si è potuto accertare che intorno a 40.000 anni fa Homo sapiens sapiens, cioè “noi”, ci siamo ibridati con “loro”. Con un salto vertiginoso dal piano genetico-diacronico a quello sincronico-ontologico, la notizia ha stimolato una messe considerevole di (auto)commenti, molti dei quali registrati dalla cultura visuale in rete. Da bruto lombrosiano a good fellow della porta accanto, Neanderthal è diventato un catalizzatore identitario della surmodernità: specchio di fantasmi irrisolti e nuovo meccanismo di posizionamento tassonomico dell’umano, l’uomo-scimmia de-genere è stato promosso a operatore di primo livello della macchina antropologica. Ma prima di lanciarsi in un vertiginoso discorso filosofico sarebbe importante esplorare le declinazioni del caso nella pop culture, perché il trattamento delle immagini in Rete, nella pubblicità e nella stampa di divulgazione sta registrando in modo puntuale l’autorganizzarsi di un sistema di metafore e di un paradigma dell’immaginario che da un lato ci racconta una sottocultura, dall’altro ci aiuta a individuare nuove zone sensibili nello studio della possibilità sociale. Chi sono i nuovi Neanderthal? C’è un nesso tra immaginario pre-umano e panorami post-human? Quale margine di movimento di beni, quali sacche di esclusione, quali scenari utopici e distopici vengono sdoganati attraverso la “neopreistoria” che attraversa in modo trasversale tutta la società contemporanea?


In genere si è d’accordo sul fatto che il paesaggio non è una mera porzione di territorio in cui componenti geologiche, biologiche e climatiche formano un sistema di relazioni complesse, ma che è quello stesso territorio percepito, rappresentato e modificato dall’uomo. In altre parole, c’è paesaggio solo quando lo spazio concreto s’intreccia alle azioni umane, quindi: niente cultura niente paesaggio. Se si ammette che l’uomo moderno di 40.000 anni fa era un essere culturale a tutti gli effetti, dotato di pensiero tecnico, sociale, ecologico, simbolico, rituale e mitico, allora i territori che abitava erano già in senso stretto dei paesaggi: visti, pensati e vissuti da uomini che li modellavano con atti materiali e immateriali, i cosiddetti “paesaggi culturali” sono antichi quanto la nostra specie. Il punto di partenza è che le strutture cognitive dell’uomo sono il risultato di pressioni ambientali di lunga durata: per due milioni di anni Homo ha vissuto esclusivamente di caccia e raccolta e il suo modo di leggere, pensare e interpretare il mondo era finalizzato a una comprensione minuziosa e dinamica dell’ecosistema, proprio per cacciare, raccogliere e adattarsi all’ambiente nel modo più efficace. Orientarsi, classificare, immaginare, raccontare, erano abilità necessarie per sopravvivere, e tutta la vita fisica e mentale dei nostri antenati era immersa nei paesaggi terrestri come in un liquido amniotico. Il nesso tra un uomo di 40.000 anni fa e l’uomo contemporaneo è la biologia che hanno in comune, una connessione anatomica, fisiologica, ma anche cognitiva e comportamentale. In questo senso siamo gli stessi, le nostre strutture mentali elementari sono le stesse, e anche se qualche millennio di storia ci ha spinto a inventare innumerevoli costrutti sociali, ideologici e cosmologici, alcune strategie di orientamento, classificazione, immaginazione e narrazione sono oggi l’eredità vincolante (ma non determinante) di un patrimonio genetico modellato nei paesaggi del Pleistocene. Studi genetici, neurocognitivi, etnografici e linguistici sembrano suggerire che la mente dell’uomo moderno sia in qualche misura “paesaggistica” (Landscape Mind Theory), nel senso che si organizza spazialmente e che, se lo fa, è perché nel corso dell’evoluzione è stata selezionata dai paesaggi per conoscere i paesaggi. Le strutture cognitive di orientamento e di organizzazione dell’esperienza, i saperi ecologici dei cacciatori-raccoglitori, le geografie induttive delle culture non occidentali, i casi d’inclusione del paesaggio nel linguaggio, i sistemi rituali e mitici inscritti profondamente nelle dinamiche di un territorio, sono libere invenzioni culturali, ma forse sono anche il riflesso di moduli cognitivi paesaggistici a base genetica. L’ecologia della mente di Bateson andrebbe presa alla lettera: il paesaggio, con la sua configurazione spaziale, con i suoi rapporti tra parte e tutto, con il suo dinamismo interno, con la sua esemplarità sistemica, è diventato una matrice di pensiero complesso, un modello ready made per pensare la realtà. Ogni società ha ovviamente sviluppato una lettura peculiare del proprio sistema ecologico, ma a volte è possibile riconoscere gli indizi di una radice biologica comune: un pensiero-selvaggio-paesaggio frutto di una selezione ambientale che si esprime con varianti culturali all’interno di ogni gruppo, e che funziona come una griglia induttiva per interpretare il mondo.

Ora, le reinvenzioni della preistoria che sempre più spesso affollano la Moda, l’Arte e la Rete sono probabilmente tracce di una cultura che per ripensarsi (e salvarsi) cerca di chiudersi ad anello sulle proprie origini genetiche e spirituali. In questo movimento esistono almeno due anime, una in primo grado, che scrive manifesti alla Zerzan, e una alla Rosny, che fa storytelling sapendo di farlo. Non sempre le due anime sono separate, e anche in questo libro ci sono zone di confusione voluta, con toni accorati che non escludono un arrière-pays ironico o disincantato. A cominciare dal titolo, Paleolithic Turn, che insiste sull’idea di svolta quando di turn ce n’è appunto uno a ogni svolta… Quello che però ci è chiaro è che, al di là del credere o del non credere nel Paleolitico Prossimo Venturo, è ormai tempo di elaborare un lessico che si lasci alle spalle tanto vecchiume teorico, politico e spirituale. «Izen duen gutzia omen» recita un antico proverbio basco, «tutto ciò che ha un nome esiste», ma possiamo farlo funzionare anche nell’altro senso: «tutto ciò che non ha più un nome cessa di esistere». Ed è questo che vogliamo fare con il nostro “Paradigma Pleistocene”: smetterla di cercare di risolvere vecchi problemi, ma dissolverli, per dare un nome a quelli realmente presenti e che ancora attendono di essere nominati e quindi di essere riconosciuti. Concetti come “preistoria”, “primitivo”, “capitalismo”, “biopolitica” hanno cessato da tempo di essere strumenti utili per orientarci nel nostro paesaggio culturale, storico e sociale. Non fanno altro che allungare la minestra, traducendo in forme nuove il lessico ormai esangue di quell’agri-cultura neolitica che sta esaurendo oggi il proprio ciclo. Da un punto di vista macrostorico, infatti, cos’è il capitalismo (anche nelle sue forme più sofisticate, smaterializzate, finanziarizzate) se non l’espressione dell’accumulo originario di risorse avvenuto con l’invenzione dell’agricoltura, l’inurbamento e la nascita della civiltà, della scrittura, della tecnica e delle istituzioni? Il Neolitico è, fin dalle sue origini, 12000 anni fa, capitalistico, e il capitalismo, a sua volta, è la forma economica dell’agri-cultura neolitica. Pensare oltre il Neolitico, pensare la mobilità, l’erranza, l’oralità, la de-stituzione e la de-possessione del Pleistocene, pensare l’esistenza in termini di caccia, raccolta e orientamento nel paesaggio, significa di per sé pensare oltre il capitale, la biopolitica, e le opposizioni storia|preistoria, civile|selvaggio, culturale|primitivo che insistono da millenni al cuore dell’agri-cultura, ritornando come un mantra nelle sue autorappresentazioni. Pensare il Pleistocene significa smetterla di cercare di risolvere problemi vecchi quanto la civiltà, e invece scioglierli nell’enigma da cui scaturiscono, che è l’enigma stesso della civiltà.

Si tratterà, allora, di opporre ai mattoni delle istituzioni della civiltà il legno, il bambù e la terra cruda dei ripari nomadi, alla città l’accampamento – luogo di sosta nel transito e non di permanenza –, alla rappresentanza politica le comunità d’interesse, al capitale agrario la preda venatoria e il sostentamento della raccolta e del commercio, all’esercito il guerriero, alla massa l’individuo, ai profili digitali il volto, all’umanità l’uomo. Per questo, infine, ci libereremo delle immagini-specchio della “preistoria” e dell’ “uomo primitivo” – inventate dalla civiltà per rappresentare se stessa attraverso quello che non è – per ritrovare quell’Urmensch che Warburg incontrò nelle mesas del New Mexico, l’uomo “primario”, “originario”, che ha bisogno di farsi immagini e raccontare storie per orientarsi nel paesaggio in cui vive: perché esso è l’uomo che noi stessi, già da sempre, siamo.

Un altro concetto oggi molto in voga che occorre rivoltare criticamente è quello di “antropocene”. A ben guardare, al di là della sua apparente novità, esso non è che l’ultimo avatar nel processo di autorappresentazione di quell’agri-cultura affermatasi a partire dalla rivoluzione neolitica. In un certo senso, infatti, l’antropocene si può far coincidere con il Neolitico stesso, retrodatandolo di 12.000 anni rispetto alle stime di chi ha avuto bisogno dell’attuale crisi ambientale per accorgersi che la civiltà umana ha un impatto “geologico” e “atmosferico” sul paesaggio e sulla biosfera. Antropocene, dunque, non è l’avvenire, non è “the big next thing”, ma il nostro presente, un presente iniziato quando abbiamo lasciato la foresta e le steppe per coltivare la terra e costruire i primi insediamenti. Pleistocene, invece, sono i 140.000 anni precedenti, in cui homo sapiens, pur essendo lo stesso dal punto di vista somatico e cognitivo, ha abitato “all’aperto” come cacciatore-raccoglitore, in una relazione con il proprio  ambiente-paesaggio completamente diversa rispetto a quella dell’uomo civilizzato. Ma Pleistocene è anche l’avvenire, un avvenire che si sta profilando nelle nuove forme di mobilità, di socialità e di cultura – una cultura che, non venendo dall’agri-cultura, ma dalla caccia, abbiamo chiamato hunture – che stanno interessando le nostre vite. D’altra parte sono molti i segni che lo lasciano intravedere, uno dei quali è la nascita stessa del concetto di “antropocene”: come se l’agri-cultura del Neolitico avesse cominciato a prendere coscienza di sé proprio all’apice del proprio sviluppo, e di conseguenza, all’inizio del proprio declino. La nostra visione, riprendendo e modificando la teoria dell’anaciclosi storica, è che vi siano non solo dei ricorsi storici all'interno della civiltà (come le “sincronie” di Spengler, ad esempio: Alessandro Magno è sincronico di Napoleone, Assurbanipal di Roosvelt, etc.), ma che vi siano anche dei cicli macroscopici di alternanza tra “civiltà” ed “erranza”, tra “agri-cultura” e “caccia”, tra la stirpe cainita e la discendenza di Abele,  e che quella che stiamo vivendo adesso sia la chiusura del cerchio della civiltà cominciata nella “mezzaluna fertile” 12.000 anni fa. Per questo, girando a ritroso la ruota della storia, quello che viene dopo il Neolitico (e quindi dopo l’antropocene) è il Pleistocene. Non è un caso allora che la guerra civile mondiale attualmente in atto stia insanguinando i territori della “mezzaluna fertile” dove ha avuto origine la civiltà: Iraq, Siria, Kurdistan, Israele-Palestina, Libano, Giordania, Egitto.

Quello che vogliamo registrare, dunque, è un duplice movimento: da un lato una storia delle idee, un modo che ha adottato la surmodernità per autorappresentarsi attraverso paleositi, paleocorpi e paleodiete; dall’altro qualcosa di molto più serio, e cioè che un ciclo storico millenario si sta chiudendo ad anello: l’agri-cultura si sta ripiegando su se stessa, e questo sta avvenendo in maniera straordinariamente precisa, ricapitolando a ritroso la storia della civiltà, fino alle guerre in Medio Oriente e alla devastazione dei resti delle prime civiltà mesopotamiche. È cronaca recente la distruzione da parte delle milizie dell’ISIS delle mura di Ninive, delle opere dell’arte sumera e assiro-babilonese contenute nel Museo di Mosul e di molti altri reperti provenienti dall’origine della nostra storia, in un progetto delirante di cancellazione della memoria della civiltà, tentando di reciderla alla radice. Di fronte a un simile orrore, però, il poeta, il visionario e lo scienziato che convivono in noi si rendono conto che c’è qualcosa d’inevitabile in tutto ciò, una necessità ferrea, il ricorso della ruota della storia che stritola quello che aveva creato. Che cosa separa e che cosa unisce due esemplari di Homo sapiens che hanno abitato la stessa terra a settemila anni di distanza, uno scolpisce delle immagini nella pietra, l’altro le distrugge con una mazza? Non si può pensare il Pleistocene se non come proiezione di Babilonia nell’anaciclosi storica. Prendendo in prestito una visione dell’architetto situazionista Constant, possiamo dire che l’oggi è “New Babylon”, e il Pleistocene è l’avvenire, così come per l’antica Babilonia il Pleistocene rappresentava la memoria dei padri ancora viva nei canti e nelle leggende. Per questo occorre utilizzare correlativamente i due concetti di “arcaico” e “avveniristico”, perché l’avvenire è sempre arcaico e l’arché è sempre a venire. Il modello spazio-temporale del Paradigma Pleistocene non è quello lineare, ma segue la geometria sferica riemanniana, quella su cui è basata la teoria della relatività. Se lo spazio-tempo è concepito come una sfera, la linea della storia diventa una spirale, un vortice, che si avvolge eternamente su se stesso ma non torna mai esattamente sul proprio tracciato, e si espande o si contrae a ogni ritorno. Il tempo dell’anaciclosi storica non è banalmente un tempo circolare che non fa che ripetersi ossessivamente, nevroticamente, su un piano bidimensionale, come un criceto che corre sulla sua ruota, ma è un tempo che pulsa nelle tre dimensioni di uno spazio curvilineo. Paleofantascienza? Può darsi. Ma un modello geometrico dello spazio-tempo aiuta a ordinare i pensieri, crea uno spazio, appunto, per il pensiero che è ancora da pensare. E ci permette di collocarci, di guardare allo scempio di Mosul con il groppo alla gola ma con la consapevolezza che si tratta del nostro presente inevitabile, New Babyolon, e che il nostro compito è costruire l’avvenire, pensare il Pleistocene e addestrare i nostri figli alla saggezza della hunture, a muoversi nel mondo che sarà oltre la civiltà, oltre l’agri-cultura. E allora questo libro non è il primo passo, ma l’ultimo, prima di un salto nel fuori che è cominciato da sempre.

Matteo Meschiari
Francesco Gori
Maurizio Corrado



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