Generazione ∞
di Matteo Meschiari

Hanno più o meno l’età di Cristo, ci tengono a dirlo in coincidenza del loro trentatreesimo compleanno, e quando lo dicono hanno un sorriso che misura lo smarrimento di essere postumi a un traguardo che, nel loro caso, non ha segnato nulla.



Sono laureati, dottorandi, addottorati, a volte fanno lavoretti di sostentamento, sono la generazione saltata dalla società dei posti fissi, senza speranza di entrare nelle università in cui continuano a stazionare con un postdoc o con fondi europei a perdere, sono schifati da un mercato del lavoro molto wild che ricomincia ad assumere gente ma con dieci anni meno di loro, sono ambiziosi come i loro padri figli degli anni Ottanta e Novanta ma con in più la curiosa presunzione di avere un credito per grazia genetica. La Scuola non li mette in graduatoria per insegnare a Centocelle o Valledolmo, il Paese non ne valorizza il QI e li obbliga a far fuggire il cervello, la Fidanzata/ il Fidanzato sono il playground sociale per eccellenza. Troppo giovani per dirsi hipster e troppo vecchi per essere post-hipster, hanno capito che invisible is cool, quindi è ancora abbastanza difficile individuarli e scriverne, perché sono socialmente, economicamente, politicamente trasversali, sono dentro e fuori la moda, hanno l’iPhone e leggono Tiqqun, mettono le Camper e nella borsa casual di iuta infilano Il Bene nelle cose di Coccia, chiosato. Ma il tratto caratterizzante c’è, ed è squisitamente accademico-intellettuale. Venuti dal popolo, dal paese o dalla media borghesia urbana, hanno vissuto l’università negli anni in cui la riforma Gelmini ha cambiato le cose. In quell’estate di qualche anno fa in cui potevano scegliere di far fronte comune con la causa dei ricercatori, hanno seguito l’istinto antagonista, e hanno pensato che ricercatore = potere, e "allora cazzi loro". Non hanno visto che i diritti più attaccati erano quelli degli studenti, della cultura, del Paese, e hanno scambiato il movimento per un rigurgito internum corporis. Disinformati sul funzionamento della loro stessa università e sul testo della riforma, hanno preferito leggersi tutto Agamben e tutto Žižek, proprio tutto, sviluppando in certi ambiti competenze nettamente superiori a quelle dei loro docenti. Il problema è che questa competenza e intelligenza sono affidate a supporti effimeri o irraggiungibili: tesi cartacee destinate al macero, blog o riviste online molto esclusivi e molto non letti, estenuanti chiacchiere al crepuscolo davanti a una Forst che frena la rivoluzione. La generazione ∞, infinita perché un milione di disoccupati sono tanti, non-finita nelle aspirazioni e nelle azioni, parcheggiata alle calende greche, di smisurate e vaghe ambizioni, è la vera tragedia di una nazione e la gioia di baristi e psicanalisti. Noi della generazione immediatamente precedente, troppo giovani per essere loro padri e troppo vecchi per esserne fratelli, rassegnati a consolarci con zombie e apocalisse, postomuniti, accademici tenure track, hipsters & makers, siamo a un abisso da loro, un abisso di incomprensione e di azione. Eredi di un’etica calvinista del fare, pubblichiamo almeno un libro all’anno, organizziamo convegni e giornate di studio, continuiamo a fare cultura cartacea come se la cultura fosse ancora quella cosa buona e giusta che ci hanno insegnato al ginnasio. Siamo i loro referenti “giovani” nell’Alma Mater delle Mummie, beviamo la loro stessa birra, crediamo di essere più preparati politicamente perché abbiamo visto morire Pasolini e Moro ed evochiamo la Pantera come la Rivoluzione Francese, scriviamo con loro di Charlie Hebdo e ci affrettiamo a leggere Stasis di Agamben perché alla prossima birretta crepuscolare salterà fuori di certo. Ma siamo a un abisso. Noi non possiamo fare niente per loro, loro non possono fare niente per noi. Noi vorremmo vedere in loro l’energia dei ragazzi che hanno fatto la Resistenza, aspettandoci che piagnucolino un po’ di meno e agiscano un po’ di più, e loro ci vedono come unici referenti, un po’ ignoranti, un po’ snobbati, per tendere la mano a un mondo universitario e culturale che c’era, che aveva forse qualcosa, e che adesso non c’è più. Troppo vecchi loro per salire armati in montagna, troppo giovani noi per fare un ormai inutile passaggio di testimone. Ci specchiamo gli uni negli altri, misurando delusioni, differenze, solitudine. Non siamo neanche una comunità postuma, figuriamoci quella che viene. Ora, nella storia di una nazione, due generazioni variamente bloccate sono sufficienti perché tutto cambi, e infatti tutto cambia, senza di noi.


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