di Valentina Rametta
Sembra di camminare in un cimitero prima che mettano le tombe.
William H. Gass
Abbiamo più o meno l'età di Cristo, ci tengo a dirlo perché il senso della storia recente corre sui nostri nervi scoperti. Di etichette ce ne hanno appioppate tante. Siamo stati prima schizzinosi, pensando fosse cosa giusta possedere una vocazione. Poi siamo diventati lavoratori cognitivi, precari della conoscenza e nuove forme del sintomo. Vite divenute sembianti per cui non possediamo termini adeguati, alla ricerca ancora di un postdoc, una graduatoria di seconda fascia o un fondo europeo con i quali tamponare l'emorragia della rassegnazione, mentre aspettiamo la telefonata per fare un turno in più al bar. Eventualmente stando da mamma che c'ha un poco di pensione, come se il tempo dell'infanzia non possa mai più finire. Siamo diventati lavoratori (passivi) e sintomi a nostra insaputa, fino a oggi, perché quest'infanzia non ha né innocenza né alibi romantico. E i guadagni di questa conoscenza passano attraverso i gesti quotidiani, dal letto del mattino al letto della sera, in cui è la nostra dannazione ad essere recitata. Poi rapidamente abbiamo capito che invisible is cool. Come dire che siamo diventati obliquamente un riflesso e una caricatura della società in cui loro hanno creduto.
Loro sono i cattivi maestri, cattivi perché senza saperlo ci hanno insegnato ad essere intellettuali di noi stessi. Ora loro si sono ritirati in un luogo dell'anima per non affogare nel mare dell'oggettività. Hanno avuto la fortuna di entrare nell'ultima sfornata di ricercatori prima della caduta, e adesso ci propongono la responsabilità delle perdite e la privatizzazione dei profitti. Forse non si sono accorti che così esalano l'ultimo scampolo d'anarchia per crearsi un solido appoggio alla realtà. Giusto, normale, siamo coscienti dell'immanenza. Non si può certo vivere in differita. Ma per trovare un nome al crollo hanno fatto di noi il loro antispazio, una specie di pregiudizio dimensionale sottovalutando l'eutanasia seducente che si stava praticando, quella che ti rassicura di uno spazio di libertà quando più totale è il potere su di essa. Oggi vogliamo insomma che sia chiaro a tutti qual è il nostro problema, e che si sentano tutti, a turno, maledettamente in colpa. Il pericolo è che finiremo tutti quanti per dimenticare che cosa è andato perduto. Perché a me sembra evidente che se dimentichiamo come stiamo morendo, finiremo col dimenticare come possiamo vivere.
Personalmente non ho molta voglia di diventare un bozzetto antropologico, tanto meno un esempio in forma di apologo istruttivo. Se tutto cambia senza di noi, possiamo rassegnare le dimissioni dai nostri corpi, come l'amico che se n'è andato. Ma abbiamo scoperto qualcosa, qualcosa che sì, in parte ce la siamo ritrovata piombata addosso e che ci costa il prezzo di esibire l'intimità. La nostra vita è una poetica della cenere. L'utopia, che da questo mondo è stata bandita come una prostituta, è entrata a forza. Siamo pronti per un altro mondo perché siamo gli intrappolati, “quelli che hanno accettato il crepuscolo”, e ogni giorno è un giorno buono per officiare la perdita e la scoperta di sé, se il nostro suono è già come l'ultimo. Ogni giorno di ciascuno è il giorno dell'intera collettività: le medesime armi, le stesse paure, tutti affrontano il nemico di sempre. Qui sta il tratto squisitamente accademico-intellettuale. Il dio-rivoluzione offertoci quando credevamo di cambiare le cose, negli anni della riforma Gelmini e dell'Onda studentesca, era servito già morto. Era il fantoccio che brucia alla fine del carnevale, come quelli che lo avevano fatto a pezzi da tre più due. Confidava nel soccorso di forze designate per miraggio e la festa crudele era già cominciata, con il panico che certe libertà te le puoi prendere solo stando lì dentro, entro la scatola delimitata dalla luce di quel mito.
A tua insaputa si strappa il tempo, “Vom Tod”. Si strappa dalla morte come dire contro la morte, contro la lenta incrinatura che sperimentiamo sapendo che l'infanzia infinita della nostra “eccezione” è il limitare della non esistenza. Il bambino è tentato dal miraggio ma il fardello di sogni è l'impegno politico. Anche se il cinico senzasogni si raschia la gola e sputa. E adesso siamo noi che stiamo accarezzando la storia contropelo, a quattro zampe per non perdere il sentiero. Precari ormai per vocazione nomadica, intenti a cercarci prima di tutto con un orizzonte di metri cubi di aria, mentre da questa parte dello specchio non esistiamo già più. Siamo esseri discenditivi, non c'è eroismo, solo erranza e rabbia che mette insieme i pezzi di paura. Per farlo, stiamo tornando indietro attraverso il crepuscolo. È il viaggio a ritroso da uomo a scimmia.
A tua insaputa si strappa il tempo, “Vom Tod”. Si strappa dalla morte come dire contro la morte, contro la lenta incrinatura che sperimentiamo sapendo che l'infanzia infinita della nostra “eccezione” è il limitare della non esistenza. Il bambino è tentato dal miraggio ma il fardello di sogni è l'impegno politico. Anche se il cinico senzasogni si raschia la gola e sputa. E adesso siamo noi che stiamo accarezzando la storia contropelo, a quattro zampe per non perdere il sentiero. Precari ormai per vocazione nomadica, intenti a cercarci prima di tutto con un orizzonte di metri cubi di aria, mentre da questa parte dello specchio non esistiamo già più. Siamo esseri discenditivi, non c'è eroismo, solo erranza e rabbia che mette insieme i pezzi di paura. Per farlo, stiamo tornando indietro attraverso il crepuscolo. È il viaggio a ritroso da uomo a scimmia.
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