Elogio dell’erranza
di Francesco Gori

…non ti curar di loro ma guarda e passa.
Lo Duca Mio

…come polli gonfiati con gli ormoni, sovradimensionati, sproporzionati, spropositati, allevati in batterie industriali, a ritmo di batteria, alimentati dalle batterie al litio, ingozzati di ambizioni, richieste, pretese, promesse che non possiamo mantenere, promesse che non possiamo, forse non vogliamo, e non abbiamo nemmeno mai voluto promettere.



Così siamo stati avvezzati, dacché mai fummo svezzati, pompati giorno e notte da cellule al litio nell’infanzia degli anni ’80, ancora oggi a succhiare litio per tentare di frenare lo skizzo, per rimettere assieme alla bell’e meglio i frammenti di desideri, sogni infranti, ricordi, disordinati, mescolati, frammischiati. E giù fil di ferro e fil di lito, per improvvisarci in una qualche forma, per darci un verso, riacciuffarci per i capelli sul bordo dell’abisso. Siamo noi, noi che non abbiamo voce, noi che l’infanzia dura all’infinito senza che mai esca la nostra parola, questa è la nostra voce, la voce di un dolore sordo e sordido, impastato di vergogna, dolore doppio di chi non si sente in diritto di soffrire, perché non gli è stato fatto mancare niente. Un dolore senza diritto, è questo l’inchiostro nero che, senza essere invitati, versiamo sulla pagina. Ci ha rigato il volto, un tempo, quando piangevamo perché ancora non avevamo voce, da quel giorno le malelingue ci chiamano musi di ghepardo. È questa la nostra tribù, gente nomade che batte le contrade di Nuova Babilonia, popolo senza terra, attraversiamo sacco in spalla terre senza popolo, città senza abitanti, chiese senza fedeli, università senza studenti, governi senza cittadini. Restano le crisalidi di un mondo in disfacimento, resta lo spettacolo, stare a guardare, mentre altri fanno, o meglio, fanno come se facessero, senza fare veramente. Guarda ragazzo, guarda, ma non imparare, che non c’è niente da sapere. Solo un neobabilonese può accorgersi della differenza tra chi è e chi crede di essere. Solo un neobabilonese può vedere che è impossibile essere un sacerdote, oggi, ma si può solo fare il sacerdote, è una parte che si recita, come quella del politico, del medico, del professore. Si fa. Non si è. Allo stesso modo, non si può abitare in una città, non più, o forse non si è mai abitato nelle città, ma solo oggi ce ne accorgiamo, solo noi neobabilonesi, noi che non abitiamo, ma guardiamo e passiamo, come Dante di fronte all’immonda frotta degli ignavi. Dante, il “ghibellin fuggiasco”, in realtà di parte guelfa, era un neobabilonese, non solo per l’esilio, per il tanto camminare, per l’essere senza patria, respinto e poi osannato dal suo nido ingrato; era un neobabilonese perché la sua voce nasceva dal buio della selva, dall’erranza, dallo smarrimento. Dante canta di quello che non sa, del suo essersi perso, della sua lotta per non finire perduto. Protettore dei camminatori dello spirito, dei mutanti, dei forsennati, dei confusi e malandati, ha infilato in una formidabile macchina di endecasillabi tutto il suo sdubbiamento. Primo tra tutti, Orfeo era un neobabilonese, nel suo viaggio nello sprofondo a cercare di cavarne l’unica cosa che non si può che perdere: il desiderio, l’amore. Fratelli di una vita, compagni di viaggio. Come lui Dante, come lui te, io, e quella signora ucraina che conta gli spiccioli davanti al carrello del supermercato, come lui, come noi, gli uomini di ogni tempo che hanno fatto del cammino la loro destinazione – der Weg ist das Ziel. Dante aveva gran compassione per costoro, e dunque per sé, pur maledicendosi e odiandosi per la melma in cui si contentava di galleggiare. Aveva compassione perfino per chi mandò all’inferno, i più belli, i più grandi della Commedia: Ugolino, Farinata, Ulisse, Lucifero in persona. Li sentiva vicini come nessun altro, erano parte di lui, erano lui stesso, il fuoco che brucia la candela dai due lati e che l’ha tirato giù, lui per primo, al fondo dell’inferno, oltre lo smarrimento della selva. Solo da lì, oltre il fondo dello sprofondo, la possibilità effimera della salvazione, attraverso purgatorio e paradiso. Se c’è qualcuno che veramente disprezzava, invece, è la schiatta informe degli ignavi, a cui riserva le parole più dure, nonché la pena più ignominiosa. È con loro che comincia la Commedia, con la massa senza volto dell’umano, che si crogiola nella credenza di corrispondere al luogo dove vegeta e al mestiere che svolge. Virgilio non mette tempo in mezzo e dà una striglia al suo condotto, e le sue parole sono celebri oltre ogni celebrità: “non ti curar di loro ma guarda e passa”. In pochi versi Dante liquida la gran parte dell’umanità, lasciandola fuori anche dalla porta dell’inferno, a rincorrere la sua insegna, l’illusione che l’immagine corrisponda al vero, il ruolo all’essenza, la città al cittadino. L’illusione che si possano abitare luoghi e professioni e non soltanto il proprio essere. Lasciati alle spalle i fannulloni morali, e condannati alla più atroce delle pene, peggiore anche di quella di coloro che gravemente hanno peccato, Dante s’addentra nella notte dell’umano, là dove brillano le stelle dei peccatori, uomini erranti, uomini smarriti, se non, come nell’inferno, uomini perduti, ma uomini che non hanno abdicato all’esser uomini, a costo della dannazione eterna. Anche i purganti e i beati sono uomini di tale fatta, uomini che non furono fatti per viver come bruti. Tutti gli altri, i bruti, o meglio gli abbrutiti, Dante li estromette dai gironi, dalle cornici, e dai cieli; nel teatro della Commedia, insomma, non concede loro nemmeno un posto in loggione, li butta fuori ad affannarsi come idioti morsicati dai tafani, che tanto è troppo tardi per risvegliarli. Questo fa Dante all’umanità, la mette in una centrifuga e la lascia là a girare su se stessa, fuori dal teatro dove va in scena la commedia dell’umano, dove c’è posto solo per uomini tutti d’un pezzo, foss’anche un pezzo di merda come Ugolino, ma un pezzo unico, per cui non c’è stampo, che non si riproduce in serie. La soglia dice tutto, o quasi, dei luoghi, ce l’ha stampato in fronte, come la porta dell’inferno: “lasciate ogne speranza o voi ch’intrate”. A chi la lasciamo? E chi siamo noi che entriamo? Se non siamo Dante o Virgilio, se non siamo beati o purganti, saremo dannati, ma pur sempre uomini. Tutti gli altri, i bruti, o meglio, gli abbrutiti, gli umani troppo umani, restano fuori a ruzzolarsi addosso. E saremo pochi, pochissimi, quasi nessuno, in confronto alla torma brulicante degli ignavi. La Commedia non è il teatro dell’umanità, ma dell’umano, non c’è posto per tutti, ma per i pochissimi che hanno avuto il coraggio di essere, anche al costo di pagare per l’eternità la sbruffoneria d’alzare il capo dalla mischia. La Commedia comincia con l’inferno, e altrimenti non potrebbe essere. Ma dove comincia l’inferno? L’inferno comincia prima della porta e prima del limbo, comincia nella selva, comincia a trent’anni, nello smarrimento di chi è a metà del cammino e non riesce a ricordare da dove viene e non sa più dove sta andando. L’inferno comincia perdendosi, ma con esso cominciano anche il purgatorio e il paradiso. La Commedia è la storia di chi s’è perso e lotta a quattro polmoni per non darsi perduto, storia di uomini erranti, neobabilonesi, che vivono nell’erranza e nell’errore, accettando il rischio dell’inferno e dell’orrore, accettando la morte dietro l’angolo, perché la vita, quella vera, quella assente, dai convegni e dalle giornate di studio, è piena di spigoli…


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