Vincent
Frammento di Maurizio Corrado


Tra i bicchieri che Nesto riempiva generosamente, Théodore seguiva tre storie contemporaneamente, ognuno dei tre amici sembrava avere un ricordo diverso di suo padre.

Secondo Natale, Vincent era arrivato su una piccola barca a remi. Pescava e l’aveva visto remare placidamente al centro del fiume, da una parte lui, con una camicia bianca e un largo cappello di paglia, dall’altra parte della barca una bella signora vestita di pizzo color cipria che teneva un ombrellino per ripararsi dal sole. Sembrava conversassero amabilmente, una coppia d’innamorati in gita romantica. Poi aveva diretto la barca verso il piccolo ponticello di legno, aveva aiutato la signora a scendere ed erano spariti fra le betulle.


Secondo Nesto invece era comparso per la prima volta al bar entrando come una furia e chiedendo una bottiglia di anice. Aveva molta fretta e sparì immediatamente quando seppe che non c’era. Aveva il cappello.

Armando l’aveva visto addormentato sotto una betulla, con un libro di fianco, si era avvicinato quanto basta per rendersi conto trattarsi della prima edizione del Manuscrit trouvé à Saragosse del conte Jan Potocki. Ma com’era possibile? Armando sapeva che il conte aveva fatto stampare nel 1805 pochi esemplari per gli amici, lui stesso ne aveva cercato una copia senza successo. Quel tipo era un amico del conte Potocki? Preso da una specie di timore reverenziale, Armando si allontanò in silenzio.

Confuso ed emozionato, Théodore chiese se fosse possibile non mischiare tutte le storie e ascoltarle una per volta. Brindarono a Vincent, poi Natale iniziò a raccontare. La prese larga, era suo stile, come dovesse arrivarci a volo d’uccello, prima una visione dall’alto della pianura, paesi e strade scorrevano velocemente fino a focalizzare la visione su quella barchetta sperduta in mezzo al fiume, dove Vincent amoreggiava con la signora in pizzo, che pareva chiamarsi Elena. Ne venne fuori un Vincent gentiluomo, sempre vestito come un damerino, con un immancabile cappello di paglia intrecciata che diceva ricavata dalla palma Toquilla, preso in Equador durante uno dei suoi viaggi. Lì aveva fatto il bracciante in una coltivazione di cotone e durante l’incendio della Fazenda aveva salvato la vita alla giovanissima moglie del proprietario, che era morto in quell’occasione. Divenuto con il matrimonio proprietario della piantagione, ne aveva rivoluzionato i metodi secondo le recenti idee anarchiche di cui si sentiva portatore e l’aveva donata ai braccianti. Poi erano partiti per un viaggio in Europa che avevano deciso di girare in barca a remi ed eccoli lì, in mezzo al fiume. Si erano fermati giusto qualche giorno. Durante il soggiorno non si erano mossi dalla stanza, tranne qualche uscita di Vincent per procurarsi qualcosa da mangiare e da bere. Dalla stanza spesso si sentiva il suono di un oboe. Poi erano ripartiti in barca e nessuno li aveva più visti.

Armando, dopo averlo visto sotto la betulla, l’aveva incontrato una volta sola, nel bar, e gli aveva chiesto di disegnare la sua mappa. Théodore pendeva dalle sue labbra trattenendo il respiro, ma Armando pareva esitare, apriva la bocca poi la richiudeva, sembrava cercare nella memoria senza trovare nulla, aveva ascoltato il racconto di Natale con un’espressione stupita, come se quel Vincent non corrispondesse a quello che ricordava lui, anche se era possibile si sbagliasse, l’unica cosa che combaciava era l’oboe. Il suo Vincent era un musicista, così gli aveva raccontato quella sera, diceva di abitare in Provenza, di essere lì di passaggio, aveva un concerto in una città della pianura, diceva di odiare i viaggi, amava solo la sua casa fra le colline, dove aveva trascorso tutta la vita, ma per i concerti era costretto a spostarsi e gli costava molta fatica, odiava i cavalli, le carrozze, la polvere, soprattutto non sopportava dormire in un letto che non fosse il suo. La donna che lo accompagnava, Eledova, era una pianista russa, facevano il viaggio insieme per convenienza, non c’era nulla fra di loro, a lui non piacevano le donne e neanche gli uomini, beninteso, a lui piaceva solo il suo oboe, era l’unico che non l’aveva mai tradito, diceva. Tutto questo gliel’aveva raccontato mentre disegnava sul retro di uno spartito, ma dove fosse ora quello spartito non lo ricordava proprio, era passato troppo tempo, quarant’anni, molte mappe erano nella locanda, altre le conservava Giovanni nell’Emporio, ma quello lo sapeva già. Théodore non ricordava nessuno spartito, ma non aveva guardato il retro dei disegni, non ci aveva fatto caso. Mappa del musicista l’aveva chiamata. Armando finì con quelle parole e guardò Théodore come volesse aggiungere altro, socchiuse ancora la bocca, ma non disse nulla.

Dopo quella volta dell’anice, Nesto rivide Vincent tre volte, arrivava al bar al tramonto, vestito di bianco, si sedeva sempre nello stesso tavolino, di fronte al fiume, fumava, chiedeva anice, e quando gli rispondevano che non c’era, rispondeva: allora portatemi la cosa migliore che avete. Gli portavano la grappa al rosmarino. Sempre così, per tre volte. La terza lo servì Nesto e mentre stava per andar via, gli fece cenno di sedersi. Bevve in un sorso la grappa verde, guardò Nesto in un modo strano e cominciò a parlare. Disse che si sentiva solo. Disse che aveva un segreto, che era molto ricco, o meglio avrebbe potuto esserlo ma non ne aveva voglia, aveva nascosto tutto e stava cercando la persona giusta per raccontargli dove. Aveva girato il mondo. In Norvegia si era imbarcato su di un veliero che faceva rotta a Nord, voleva raggiungere il Polo. A quel tempo si occupava di botanica, e voleva sapere quali piante vivevano fra i ghiacci. Certo, sembrava una contraddizione, ma c’erano tante specie che riuscivano a sopravvivere, sotto al ghiaccio. Come facevano? Le piante hanno una vitalità invidiabile, unica, che nessun animale ha. La forza vitale più potente fra tutti gli esseri viventi. Niente, nessuno fra i viventi dura più a lungo, ci aveva mai pensato? Nesto lo ascoltava in silenzio scuotendo la testa, no, non ci aveva mai pensato. Era quello che lo affascinava e andava al Polo perché era il posto più estremo. Nei vulcani c’era stato. Si era calato nella bocca di un vulcano in un’isola del Pacifico e lì non aveva trovato nulla. Il troppo caldo uccideva. Ma il troppo freddo no. Il troppo freddo conserva. Conserva bene, anche per centinaia di anni. Per migliaia di anni. E lì, al Polo, aveva trovato qualcosa.

Vincent prese la bottiglia di rosmarino e chiese con gli occhi a Nesto se poteva versare. Versala tutta se vuoi ma vai avanti, risposero gli occhi di Nesto. Brindarono. Vincent si tolse il cappello di paglia chiara che aveva tenuto per tutte quelle sere e si guardò intorno. Il bar si stava svuotando. Vide il bancone di canne di fiume, i tavoli di legno scuro fatti per starci in quattro comodi, le sedie dello stesso legno, come le pareti dove stavano appesi innumerevoli quadretti che sembravano tutti dello stesso veliero, cambiavano i mari e i cieli, a volte placidi, altre in burrasca, altre ancora con mari tempestosi e cieli serenissimi, vide le lampade a olio sospese alle travi, non erano ancora state accese, la luce del lungo tramonto mandava una lama arancione che tagliava a metà il tavolo dove stavano, si arrampicava sulla bottiglia e accendeva il verde illuminandola da dentro. Mi piace qui, disse, e riprese a parlare.

Semi. Semi di migliaia di anni fa. Forse centinaia di migliaia di anni fa. Ti rendi conto? come ti chiami? Nesto. Ti rendi conto, Besto? Nesto. Cesto, ti rendiconto? Nesto. Nesto? Sì. Da Ernesto? Sì. Bene, Ernesto, ti rendi conto? No.

Vincent si fermò e sorrise.

Ora te lo spiego. Di tutte le forme di vita comparse pochissime sono rimaste le stesse e la maggior parte sono proprio scomparse, estinte. Come i dinosauri. Bravo, Ernesto, come i dinosauri, ma non ce l’hai un diminutivo? Nesto. Bene, Nesto. Come i dinosauri. È come se avessi trovato le uova dei dinosauri, solo che non sono uova, che sarebbero sicuramente andate a male, le uova vanno a male in pochi giorni, interruppe Nesto, bravo, sì, non sono uova, ma semi. Semi di piante, alberi, vita che sta aspettando di tornare a vivere, questo sono i semi, vita in attesa, in attesa che qualcosa intorno cambi e diventi giusta, favorevole, pronta a farli sviluppare e crescere. Stanno aspettando da allora. Aspettavano me. Qualcuno che li trovasse. E li ho trovati.

E poi? disse Nesto.

Vincent si guardò ancora intorno. Nel bar non c’era più nessuno e ormai era buio. Si chinò verso la bottiglia quasi vuota e lo guardò dritto negli occhi.

Ascolta Nesto, l’idea è questa. Ripopoliamo la terra. Ricreiamo il nostro ambiente, quello vero, quello dove siamo cresciuti, il nostro, non questa roba che ci sta addosso e ci tiene prigionieri da qualche misero migliaio di anni, sto parlando di quello che siamo, di quello che siamo sempre stati per migliaia di anni, Nesto: liberi! Mi capisci? Liberi. Questa è l’idea. Che ne dici?


Illustrazione di Juan Miguel Almendro, L’isola dei desideri profondi




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