EPISTEMOLOGIE DEL TARDO OCCIDENTE
di Matteo Meschiari


Prendete un gruppo di persone e date loro un tema di discussione. Queste persone devono essere sociologi, antropologi, filosofi, scienziati, psicologi, critici di qualcosa e, se non stona, “pensatori tout court”. Il tema di discussione deve essere genericissimo, vastissimo, tipo sensi, bellezza, natura, fantasia, felicità, frittata, nonna. Le persone che chiamate devono avere un’età compresa tra i settanta e gli ottant’anni (meglio se ottanta) e devono essere sempre le stesse ogni anno. Sempre gli stessi, anzi, sono maschi. Maschi famosi. Inserite per inpar condicio l’elemento presunto equilibrante: un giovane, un botanico, una donna. Cuocete tutto per tre giorni in una città provinciale dove si mangia bene e otterrete un festival completamente inutile dal punto di vista del pensiero. La moda, di questo parliamo, si è assestata in una piccola mappa norditaliana dove eventi del genere piacciono assai perché distraggono, per quasi settantadue ore, dalla morale produttivista della Brianza Saudita e dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR non Orwell).


Potrei chiudere qui, ma no. Nel titolo c’è la parola “epistemologie” mentre nella mia testa c’è una categoria di persone che mi sta davvero sulle palle. Queste persone forse snobbano i Festival ma amano molto la Theory. La Theory non è un pensiero filosofico ma è una macchina di produzione di pensiero veloce che somiglia ai Festival di cui sopra. Sempre gli stessi nomi over seventy. Alcune parole-chiave, tipo biopolitica, turn, gender, cultural, postcoloniale, queer. Infine dei luoghi deputati in cui farla accadere, come summer school, seminari di dottorato, convegni universitari celebrativi di uno dei mitici padri pellegrini.

Il tessuto connettivo dei due fenomeni è la dimensione “evento”, cioè quel principio carnevalesco che funziona per rassodare un sistema, nel nostro caso quello capitalista e accademico. Ma esiste sotto sotto anche una precisa scelta epistemologica condivisa, quella di non porsi il problema di un’epistemologia. Vi sembra normale che Marc Augé abbia sempre qualcosa da dire proprio su tutto ogni qualvolta venga invitato a Modena per mangiare tortellini in brodo di folla? Può darsi. Perché il problema infatti non è Marc Augé ma la formula in cui è ingabbiato come un vecchio topolino nel labirinto. Grandi teste (e meno grandi) che stanno al gioco. Questo è il problema.

E qui la definizione di “gioco” entra in diffrazione: da un lato la macchina capitalista-spettacolare che ingerisce tutti, proprio tutti, e risputa sulla gente convenuta (modenesi, spettatori colto-nomadi, dottorandi) un bolo predigerito di pensiero-fai-da-te; dall’altro la non-epistemologia di questo pensiero ludico, che somiglia a un mobile ikea, cioè intuitivo, modulare, combinatorio, replicabile, cheap. Perché, come dicevo, il problema (almeno in prima battuta) non sono Marc Augé o Remo Bodei. Il problema è lo spaccio di una vulgata che attrae un pubblico per definizione sterile che partecipa assurdamente a queste sontuose falloforie per commemorare la propria vasectomia. Spiego “vulgata” e spiego “sterile”.

Per farlo recupero uno dei libri più brillanti del Novecento che ho in scaffale. Non è Mille piani di Gilles Deleuze e Félix Guattari ma Copisti e filologi di Leighton Reynolds e Nigel Wilson. Lo riprendo e lo sovrappongo al mindscape dei pensatori attuali. Le osservazioni sulla tradizione dei classici dall’antichità ai tempi moderni ci aiuta a capire essenzialmente due cose: i testi viaggiano nel tempo (breve o lungo che sia) seguendo due flussi di pubblico dirimente. Da un lato ci sono gli enciclopedisti, epitomatori, chiosatori, filologi, scolastici. Dall’altro ci sono i pensatori anomali. L’accademia e la foresta. Il mainstream e il monostream. Il vip club e i solitari.

Festival e Theory sono merce destinata a un pubblico sterile che riceve una vulgata come si riceve per fede un corpo eucaristico. Partecipare a un rito richiede essenzialmente tre cose: una Parola, l’accettazione di un’autorità officiante, l’apprendimento mnemonico di formule. Ora, conosco davvero un sacco di gente che sistematicamente bestemmia luoghi di culto (festival, università), sparla di officianti (direttori scientifici, professori) e rinnega formule (“fuori dalle aule, lezione in piazza!”), ma che usa la Parola non, come diceva Artaud, per “brûler des questions”, ma come oppiaceo contro un disordine-paura abissale. Per carità, ci può stare, tutti abbiamo bisogno di una coperta di Linus, per me è Tolkien per te è Agamben. Il punto, però, è che gli autori che fanno Festival e fanno Theory sono riconosciuti da un pubblico colto, democratico (e fottutamente benpensante) come i portatori di lampada del pensiero eversivo-radicale-alternativo del nostro tempo. Ma attenzione: se trasformi proprio il tuo scout intellettuale in feticcio emotivo esaurisci immediatamente la tua dinamica d’azione. Ti basta quello che c'è nelle pagine. O, se non ti basta, fai la rivoluzione sui social e buona lì.

Ecco la “sterilità”. Micromasse di menti pensanti intrappolate al bivio tra esternazioni di un’indignazione rancorosa e un estenuante appagamento in pratiche orali. Tutto tempo sprecato che potrebbe essere speso nella produzione di nuovo pensiero? Forse. Ma la vita fa paura. Come l’epistemologia, che tutti ne parlano ma nessun sa come cazzo la è. Semplice. Oggi che non possiamo più sdoganare il positivismo logico e che il pensiero debole ha rotto i coglioni, l’epistemologia è una delicata empiria, come la caccia per il cacciatore-raccoglitore. È una ricerca in equilibrio tra caso e metodo. È una ragione permeabile all’intuizione. È consapevolezza del fatto che si trova una preda solo una volta su cinque. È il fegato di uscire dalla pista dei padri. È provare senza provare troppo. È solitudine. Insomma, niente di nuovo. Ma, nel Tardo Occidente, chi parla di selvaggina mentale e di epistemologia venatoria è un rozzo. 
Meglio il foodless food di chi ha paura di non-morire.

Letture:

http://www.leparoleelecose.it/?p=24320

http://smargiassi.blogautore.repubblica.it/2016/09/19/se-a-modena-la-filosofia-dventa-un-club/








2 commenti:

  1. Posso accollarmi il 2% di merito per questo splendido post post-theory?

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  2. Raccolgo la provocazione di Smargiassi: organizziamo un festival off per la prossima edizione. Stesso tema, "le arti". Credo che abbiamo tutti qualcosa da dire e da dare su questo argomento, e conoscenze artistiche a sufficienza per radunare dense nubi sul cielo di Modena. La proposta è lanciata.

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